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Kitabı oku: «I Mille», sayfa 14

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Era bell’e spacciato il nostro Bajaicò, ed i Mille perdevano uno dei migliori militi; ma la provvidenza – non so se fosse la stessa provvidenza invocata da Guglielmo di Prussia quando col compagno Bonaparte mandavano al macello Tedeschi e Francesi – oppure la provvidenza del papa-re quando facea decapitare i liberali e cercava di vendere l’Italia anche al diavolo se la pagava meglio degli altri – la provvidenza nol volle.

Comunque, solo la provvidenza potea salvare il nostro bellicoso ligure dalle unghie della camorra, e tale provvidenza si presentò sotto le forme dell’avvenente Giovanna. – Giovanna poco o nulla immischiavasi nelle faccende interne del suo stabilimento; non ostante essa non ignorava tutti gli orribili misteri di quell’antro, e bisogna confessare ad onor suo e dei fratelli che l’informavano d’ogni cosa, ch’essi tutti avean ribrezzo delle atrocità che si commettevano sì vicino a loro, e che cercavano in ogni modo di allontanarsi da quel nido di demoni.

Non era però così facile. Essi avean bensì acquistato qualche cosa col loro negozio, ma quel qualche cosa sovente abbisognava alla tirannica e scellerata associazione, dimodochè la maggior parte delle loro economie trovavasi sempre in potere dei camorristi, che rendevano così ben difficile l’allontanamento di Giovanna e dei fratelli. Tali procedimenti da parte della camorra entravan forse nella di lei politica per non lasciar liberi e sciolti da ogni impegno con loro individui che potevano nuocerla.

Sinora era dunque stato affare d’interesse per Giovanna di mantenersi inoffensiva a cotesta società di masnadieri, ma oggi trattavasi d’affare del cuore, ben altro affare, e qui tutto il brio della donna concentrossi in quell’anima meridionale. E «pera il mondo» essa disse «ma si salvi il mio Bajaicò!»

Inutile essa ben sapeva la propria intercessione, presso i selvaggi frequentatori del sotterraneo, e sapeva pure che poco tempo passerebbe tra l’arresto ed il sacrificio. Quindi, battendo dei piedi sulla banchina che le serviva di marciapiede, Giovanna lanciossi come una furia fuori della porta sulla via coll’intenzione di gridare al soccorso alla folla dei transitanti. – La fortuna favorì la pia oltre le sue speranze. Il Prodittatore di Napoli avea avuto sentore delle trame borbonico-clericali, giacchè in quei giorni i reazionari, quasi sicuri della vittoria promessa dal re e dal cielo, millantavano in pubblico le loro gesta future con molta boria, e pattuglie dei nostri comandate da ufficiali di fiducia percorrevano i punti della capitale ove maggiore si manifestava il pericolo. La nostra Giovanna ebbe dunque la sorte di trovare subito una pattuglia dei Mille che passava per la contrada, comandata dal prode Vigo Pelizzari, uno dei più distinti ufficiali della prima spedizione e conosciuto dalla Giovanna.

«Per amor di Dio! comandante, venite presto per salvar uno dei nostri!»

Vi era tanta eloquenza in quelle brevi parole e nell’occhio corvino della bella figlia di Partenope, che Vigo gettò la mano sull’elsa, sfoderò la sciabola e precipitossi sulle tracce dell’interessante donna, seguíto dai suoi militi di Marsala, svelti come caprioli.

Entrare, percorrere la prima stanza e gettarsi pei corridoi, fu un attimo. E n’era tempo; – e al chiarore d’una lampada che illuminava un angolo del sotterraneo, scorgevansi tre uomini nerboruti che colle daghe nella destra, e sollevate sul loro capo, stavan per lasciarle cadere sul collo d’un inginocchiato, colle mani legate dietro il dorso ed assicurato con corde ad una colonna di legno che sembrava collocata apposta per tale ufficio e che veramente dai camorristi era chiamata colonna d’Abramo. – Un frate avea l’aria d’assistere il condannato, e la vita di Bajaicò fu veramente dovuta a cotesto servo di Dio, che per la prima volta in sua vita commise una buona azione, senza volerlo però. Comunque, le solite raccomandazioni cattoliche ai moribondi questa volta salvarono la vita d’un prode. Rotando la formidabile scimitarra, Vigo si aprì un varco verso la scena di morte, e come un’onda incalzante seguivanlo i fieri militi di Melazzo e di Reggio, rovesciando a destra e a sinistra i soldati del sanfedismo, a furia di baionettate e colpi di calci di fucili. – Tardi però sarebbe giunto il soccorso senza la risoluzione impavida del nostro superbo ligure.

Egli s’era creduto spacciato, quando s’accorse che nessuno degli astanti poteva essergli amico, ma siccome l’ultima dea, la Speranza, lusinga sino all’ultimo sospiro, Bajaicò avea allungata la preghiera prescrittagli dal frate, non so se il pater noster, quanto avea potuto, e ne borbottava le ultime parole, quando il rumore della imminente tempesta ferì il suo orecchio, e Dio sa se piacevolmente. Presentendo soccorso dagli amici, valoroso sempre, egli fece uno sforzo supremo, che valse parte ad infrangere e parte a sciogliere i legami con cui lo avevano avvinto. Inerme come era, abbrancossi ai suoi carnefici, che armati cercavano di trafiggerlo in ogni senso. – Il suo sangue correva a ruscelli senza scemare il coraggio della difesa. – Egli pugnava, lottava disperatamente; si sa però, qual poteva essere il risultato del conflitto tra un solo inerme e tanti armati. – Il più robusto dei carnefici avea alzata la daga sulla testa dell’eroico ed infelice Bajaicò – se il ferro cadeva, era finita, ma un manrovescio di sciabola del prode ufficiale di Calatafimi recise il braccio del camorrista e salvò la vita al compagno.

Il parapiglia che successe in quel sotterraneo lo lascio immaginare al lettore. Colpi di daga da una parte e baionettate dall’altra fulminavano in quel poco decente recinto, ma presto la bravura dei figli della libertà ebbe posto in fuga i masnadieri.

L’inconveniente però era nell’andito per cui dovevano uscire i perseguiti, che si trovava angusto ed affollato da’ più codardi che avean procurato di preceder i compagni, cosicchè molti furono i morti dei camorristi, molti i feriti e i prigionieri da porsi in mano della giustizia.

Giovanna, nella sua vita non avea mai sognato di possedere tanto coraggio quanto ne dimostrò in quella sera. Essa dopo d’aver avvisato Vigo del pericolo del suo Bajaicò, non lo lasciò più d’un passo, ed il martire di Mentana52 sotto la di lei guida, potè giungere sul luogo del supplizio colla celerità indispensabile. – Bajaicò, ferito come era e grondante sangue, fece strage dei camorristi, e l’amante gentile andava superba di aver salvata la vita all’uomo del suo cuore.

Il rovescio toccato alla camorra e quindi ai borboni clericali nell’osteria della bella Giovanna, sventò la grande congiura della parte a noi avversa in Napoli e salvò forse la causa d’Italia, già compromessa in alcuni piccoli insuccessi da parte nostra, e dalla sorda guerra e sleale che non cessavano di farci gli aspiranti ai favori della monarchia sabauda.

Invano erasi adoperato monsignor Corvo in tutti i conventi e chiese per mantenere il fuoco sacro, come diceva lui, e per tentare nuove prove. – Invano!..

La gloria del paradiso predicata alle carogne da preti e frati solleticava poco i grassi prebendari. Trovandosi essi al pericolo della pancia, accresciuto dal fatto della bella Giovanna, si rannicchiavano i polputi, e molti pubblicamente millantavano liberalismo, anche repubblicanismo e socialismo, se si voleva.

«Ma io non m’immischio di politica» dicevano i meno birbanti «così ci ammonisce Madre Chiesa. – Poi, date a Cesare ciò che è di Cesare, ed i sacerdoti del Signore, lo sapete, devono predicare fratellanza tra gli uomini, non attizzarli, stimolarli alla distruzione».

Alcuni di questi neri semi di Dio accusarono di camorrismo certi uomini onesti con cui avean gare personali.

«La sorte vuol proprio favorire questi rompicolli indemoniati» diceva tra sè Corvo mentre incamminavasi fuori di Napoli ad altre imprese, nulla più sperando sulla camorra sconquassata e sui grassi apostoli della cuccagna.

CAPITOLO XLVII
CAIAZZO

La guerra, vergogna dell’umanità, è fatta necessaria dalle monarchie e dai preti che sarebbero perduti, se gli uomini avessero il buon senso d’intendersi. Trovandosi però nella necessità di farla, ci vuol molto discernimento.

(Autore conosciuto).

Obbligato di lasciare l’esercito sul Volturno e di recarmi a Palermo per placare quel bravo e bollente popolo nell’esaltazione in cui l’avean spinto gli annessionisti, io aveva raccomandato al generale Sirtori, degno capo dello Stato maggiore dell’esercito meridionale, di lanciar delle bande nostre sulle comunicazioni del nemico.

Ciò fu fatto, ma pure chi ne avea l’incarico immediato stimò opportuno di fare qualche cosa di più serio, e col prestigio delle precedenti vittorie, non dubitò qualunque impresa esser eseguibile dai nostri prodi militi.

Fu decisa l’occupazione di Caiazzo, villaggio all’oriente di Capua, sulla sponda destra del Volturno. Tale posizione piuttosto difendibile naturalmente e meglio con alcune opere, e la gente sufficiente per difenderla, distava dal grosso dell’esercito borbonico, accampato a levante di Capua, di poche miglia. Quell’esercito contava circa quaranta mila uomini, ed ingrossava ogni giorno. Per occupar Caiazzo si fece una dimostrazione sulla sponda sinistra del Volturno, ove si perdettero alcuni buoni militi nostri, massime per la superiorità delle carabine nemiche e per esser detta sponda dominata dalla destra ed i nostri allo scoperto.

Il 19 settembre ebbe luogo l’operazione: si occupò Caiazzo, ed io giunsi lo stesso giorno per assistere al deplorevole spettacolo del sacrifizio dei nostri poveri volontari, che avendo marciato, secondo il costume loro intrepidamente sul nemico, sino sull’orlo del fiume, furon poi obbligati, non trovandovi riparo contro la grandine di palle nemiche, di retrocedere fuggendo, fulminati alle spalle. Il giorno seguente, credo, il nemico inviò un forte nerbo di forze ad attaccare i nostri in Caiazzo, che in pochi, furono obbligati di evacuare, e ritirarsi precipitosamente verso la sinistra del Volturno, dopo d’essersi valorosamente battuti, ed aver perduto non pochi militi, morti, feriti, ed affogati nel fiume. L’operazione di Caiazzo fu più che un’imprudenza, una mancanza di tatto militare, da parte di chi la comandava. – E serva quell’esempio ai nostri giovani militi, tuttora obbligati a studiare quella manía di macellar gli uomini, che si chiama arte della guerra.

L’ordine mio, nel lasciar l’esercito, era di gettar delle bande sulle linee di comunicazione del nemico, non di prender posizione fissa a poche miglia dall’esercito borbonico, con un fiume come il Volturno fra mezzo agli occupatori poco numerosi di Caiazzo, ed i loro sostegni sulla sponda opposta.

Il valorosissimo colonnello Simonetta, che comandava sulla sponda sinistra del fiume, e che sostenne come potè la ritirata dei nostri vinti di Caiazzo, piangeva di disperazione al miserando spettacolo, giacchè i volontari non pratici dei passi del Volturno, e perseguiti da vicino dal nemico, furon obbligati di gettarsi nel fiume, senza scelta, e caddero in un sito rapido e vorticoso.

Intanto l’impresa infelice di Caiazzo imbaldanzì il nemico, demoralizzò la parte nostra, ci obbligò dall’offensiva passare alla difensiva, e fu per i borbonici un fortunato preludio della gran battaglia meditata, che sarebbe stata differita senza dubbio, e che per ciò ebbe luogo pochi giorni dopo, il 1º e 2 ottobre.

CAPITOLO XLVIII
BATTAGLIA DEL VOLTURNO

 
Quel che giurâr ottennero
Han combattuto, han vinto
Sotto il tallon del forte
Giace lo sgherro estinto.
 
(Berchet).

L’alba del 1º ottobre illuminava là nei piani della vecchia capitale della Campania, una truce mischia! Una battaglia fratricida! – È vero: dalla parte dei Borbonici, eran molti mercenari, bavaresi, svizzeri, e molti di que’ stranieri che da secoli sono assuefatti a considerare questa nostra Italia, come una villeggiatura od un lupanare. E cotesta ciurmaglia, sotto la guida e la benedizione del prete, ha sempre di preferenza sgozzato gl’Italiani, dal prete educati a piegare il ginocchio a tutti i malviventi della terra. Ma pur troppo la maggior parte dei combattenti alle falde del Tifate53 erano figli di questa terra infelice, spinti a macellarsi reciprocamente: gli uni condotti da un giovane re, figlio del delitto; gli altri propugnavano la causa santa del loro paese.

Da Annibale, vincitore delle superbe legioni di Roma, ai giorni nostri, le campagne Capuane non avevan certo veduto più fiero conflitto, ed il bifolco passando l’aratro in quelle ubertosissime zolle, urterà per molti secoli ancora nei teschi dalla rabbia umana seminati.

Tornato da Palermo, presi stanza a Caserta, e visitando ogni giorno Monte Sant’Angelo, da dove scorgevasi bene il campo dei nemici, a levante della città di Capua, e nei dintorni, dai loro movimenti sulla sponda destra del Volturno, che non potevan sfuggire al mio osservatorio del monte suddetto, e dalle loro disposizioni, io congetturai, essere i borbonici in preparativi d’una battaglia aggressiva. – Da parte nostra si fecero alcune opere di difesa a Maddaloni, a S. Angelo, e massime a S. Maria, alla sinistra nostra, e la più esposta per trovarsi in pianura, e senza ostacoli naturali.

La nostra linea di battaglia era difettosa; essa era troppo estesa da Maddaloni a S. Maria. – Il centro nemico che dovevasi considerare la sua massa più forte, era in Capua, da dove poteva sboccare a qualunque ora della notte, e sorprendere a circa tre miglia di distanza la nostra sinistra.

Sant’Angelo, centro della nostra linea, è posizione forte per natura, ma nella quale sarebbe stato necessario poter eseguire molte opere di difesa; molta gente vi voleva per difenderne tutti gli accessi, e poi è dominata essa stessa dall’altissimo Tifate che la padroneggia, quando è quest’ultimo in mano del nemico, e che la isola dalle sue comunicazioni e sostegni indietro.

Maddaloni, posizione importantissima, e che dovevasi tenere con tutta la divisione Bixio, poichè passando il nemico nell’alto Volturno, e prendendo la via di Maddaloni per Napoli, sarebbe stato in poche ore nella capitale, lasciando l’esercito meridionale a destra sul Volturno Capuano.

Le riserve tenevansi in Caserta e non eran numerose certamente, dovendo occupare una linea più estesa.

Eravamo per di più obbligati di tenere alcuni corpi di concatenazione al fronte, per non permettere al nemico, più pratico assai di noi del paese, in cui avea un numero grande di fedeli, d’inoltrarsi tra le nostre ali.

Santa Maria, la più difettosa delle nostre posizioni, era stata occupata in ossequio di requisiti della popolazione, che avendo alcune velleità liberali alla ritirata del Borbone, ora tremava alla sola idea di rivedere i suoi antichi padroni.

Occupata S. Maria, bisognava occupare i siti a destra e sinistra che ne avrebbero facilitato l’ingresso, se in mano del nemico; dimodochè, ripeto, la nostra linea era difettosa, e consiglio ai miei giovani commilitoni, di non imitare la mia condiscendenza, quando si tratta d’una battaglia che può decidere delle sorti della nazione.

Il difetto delle nostre posizioni e della linea nostra non mi lasciavan tranquillo, siccome i sintomi d’un’imminente battaglia a cui preparavasi l’esercito nemico più numeroso, più disciplinato e meglio fornito d’ogni cosa, del nostro.

Circa alle 3 antimeridiane del 1º ottobre, io saliva in via ferrata a Caserta, seguito da parte del mio quartier generale, e giungeva a S. Maria, prima dell’alba; montavo in carrozza per recarmi a S. Angelo, ed in quel momento, udivasi la fucilata verso la nostra sinistra. – Il generale Mielbitz, che comandava le forze ivi riunite, venne a me, e mi disse: «siamo attaccati verso S. Tammaro, e vado a vedere ciò che v’è di nuovo». Io ordinai al cocchiere di marciare con tutta velocità. – Il rumore delle fucilate ingrossava, e si estese, a poco a poco, su tutto il fronte sino a S. Angelo. Al primo albore, io giungeva sulla strada alla sinistra delle nostre forze del centro, già impegnate, e giungendo fui accolto da una grandine di palle nemiche. – Il mio cocchiere fu ucciso, e la carrozza crivellata; e con me, i miei aiutanti furono obbligati a discendere, e sguainar la sciabola. – Ma mi trovavo in mezzo ai Genovesi di Mosto, ed ai Lombardi di Simonetta. – Non fu quindi necessario di difenderci noi stessi; quei prodi militi, vedendoci in pericolo, caricarono i borbonici con tanto impeto, che li respinsero un buon pezzo distanti, e ci facilitarono la via verso S. Angelo.

L’addentrarsi del nemico nella nostra linea ed alle spalle, movimento d’altronde ben eseguito, e con molta sagacia, e di notte, provava essere egli ben pratico del paese. – Tra le strade che dal Tifate e dal monte S. Angelo, mettono verso Capua, ve ne sono alcune incassate nel terreno, che posa su tufo vulcanico, alla profondità di più metri.

Tali strade furono probabilmente praticate a’ tempi antichi, come comunicazioni tattiche di un campo di battaglia; e le acque piovane, scendendo velocemente dai monti circostanti, hanno senza dubbio influito a scavarne maggiormente il fondo.

Il fatto sta che in qualunque di quelle strade incavate, ponno transitarvi al coperto forze considerevoli, anche con artiglieria e cavalleria.

I generali borbonici, nel loro meditatissimo piano di battaglia, aveano accortamente approfittato di tali accidentalità del terreno, e v’inviarono di notte alcuni battaglioni con ordine di attaccarci alle spalle, mentre la battaglia s’impegnava al fronte.

Uscito dalla mischia, in cui casualmente m’ero trovato per un momento, m’incamminai coi miei aiutanti verso S. Angelo, credendo essere il nemico solo alla sinistra nostra, ma m’ingannavo, ed una furiosa fucilata alla nostra destra, partita dalle falde dei monti, al nostro indirizzo, mi persuase esservi nemici anche da quella parte. Era la situazione imbrogliata. I miei aiutanti ed io, a piedi, poichè i nostri cavalli eran rimasti con ordine di mandarli dopo di noi a S. Angelo; dunque, difficile mandar ordini; – tutti i corpi impegnati contro forze superiori del nemico; e nessuna riserva alla mano.

Qui ci valse il disordine inseparabile dei corpi volontari. Avviandomi verso S. Angelo, m’imbatteva sulla via con dei militi nostri staccati, che raggranellati a misura che comparivano, se ne formò un discreto corpo, e s’inviò all’attacco dei borbonici, padroni delle alture alla retroguardia nostra. Poi una compagnia poco numerosa di bravi Milanesi, che marciava verso il campo della pugna, fu immediatamente mandata verso il Tifate, per prendere a sua volta il nemico alle spalle.

Poco dopo giunse su quell’eminenza un distaccamento del generale Sacchi, che trovavasi a levante di S. Angelo, e per quella parte ci trovammo finalmente alquanto assicurati.

Dopo gli avvenimenti narrati, mi fu possibile salire sul monte S. Angelo, per potervi distinguere lo stato del campo di battaglia, e m’accorsi esser veramente un impegno serio.

Il nemico preparato da più giorni ad una battaglia decisiva, avea riunito sotto Capua quanta forza egli possedeva in tutte le parti del regno, al settentrione del Volturno. – Le due piazze forti di Gaeta e Capua, non solo diedero un buon contingente di truppe, ma lo fornirono di quanto materiale da guerra esso poteva abbisognare; dimodochè la forza nemica, che uscì da Capua contro il nostro centro e la nostra sinistra, era veramente formidabile.

Da una parte e dall’altra la battaglia fervea disperatamente; era un flusso e riflusso di attacchi e di riscosse, una mischia generale su tutta la linea.

Non potendo noi guarnire tutto lo spazio tra S. Maria e S. Angelo, s’era lasciata una lacuna tra le due posizioni, di cui il nemico profittò facendola occupare da fortissimo corpo bavarese.

Codesto corpo, ch’io dall’alto poteva esattamente distinguere, era imponente. In colonna serrata per grandi divisioni, marciava verso la nostra linea a passo ordinario. E chi diavolo potevo io inviare all’incontro di quel formidabile corpo? Il prode Generale Medici avea il suo da fare nel centro ove comandava, a sostenersi contro le forti colonne che lo assalivano, e per fortuna egli contava tra i suoi subordinati il Colonnello Simonetta, uno dei più brillanti ufficiali dell’esercito meridionale. Di più, il veterano di cento battaglie, l’eroe dei due mondi, il Generale Avezzana, era stato inviato con un corpo di volontari in sostegno del nostro centro, e fu quindi di gran giovamento in quella parte.

La nostra sinistra in S. Maria, comandata dal bravo generale Mielbitz, respinse il nemico, ed egli riportò gloriosa ferita. Comunque, le comunicazioni tra la sinistra ed il centro furono intercettate dai borbonici, che in gran numero occuparono la strada maestra che conduce da un punto all’altro.

Il più accanito dei combattimenti durava a S. Angelo. Là vi era una vera marea di vincenti e di respinti. – Il nemico stimava l’importanza della posizione, chiave del campo di battaglia, e fece degli sforzi inauditi per impadronirsene. I soldati borbonici giunsero sui nostri pezzi varie volte, e s’impadronirono di due, che non poterono però conservare.

In tale accanita pugna io osservai il difetto «di far fuoco avanzando» prediletto sistema dei nostri nemici, a cui fu fatale in tutti gl’incontri dai volontari sostenuti; questi, all’incontro, coi soliti catenacci e colle loro cariche a fondo, senza fare un tiro, neutralizzarono la superiorità delle carabine nemiche, e vinsero sempre.

Mi si obbietterà: tale nostro sistema esser nocivo colle nuove armi di precisione, ed io dico con convincimento, essere più necessario ancora, col perfezionamento delle armi. – O non si deve caricare il nemico nelle sue posizioni, o bisogna caricarlo celeremente sino alla mischia, colla coscienza di sfondarlo, senza di che si perderà molta gente, il morale dei restanti soldati sarà scosso, e si avrà il doloroso spettacolo di vederli tornare fuggendo e disfatti.

La pugna durò un pezzo al piede del monte S. Angelo, obbiettivo importantissimo, e varie volte i nostri valorosi capi dovettero ricondurre al fuoco i nostri militi, sopraffatti da masse imponenti e tenacemente decise.

Verso le ore 1 pom., non so per qual motivo, mancarono le munizioni, ed una desolante voce degli usciti dal campo di battaglia, me ne fece consapevole.

Se il nemico fosse stato informato di tale circostanza, stavamo freschi.

La situazione era delicata. Il nemico ingrossando sempre, oltre l’attacco di fronte verso Capua, avea tentato di assalire il nostro fianco destro passando il Volturno, e fummo obbligati di far testa dovunque.

Verso le 2 pomeridiane, supponendo vicine le riserve che aveva chiesto da Caserta al generale Sirtori, capo di stato maggiore, io avvisai il generale Medici della mia intenzione di raggiungerle per rinforzare la linea nostra. Non era però facile di eseguire il mio proposito, essendo la strada di comunicazione occupata dal nemico.

Comunque, mi decisi di fare un lungo giro, evitare il nemico, e felicemente giunsi in S. Maria dopo mezz’ora, e giunse contemporaneamente il primo convoglio per via ferrata, delle aspettate riserve.

A misura che arrivavano si facevan collocare in colonna d’attacco nella strada che conduce da S. Maria a S. Angelo; disposte nell’ordine del loro arrivo, per sezioni, il di cui fronte era eguale circa alla larghezza della via.

Anche qui accennerò alla efficacia delle riserve nei fatti di guerra d’ogni entità, ma massime nelle battaglie campali.

Le riserve, più numerose che possibile, e possibilmente tenute al coperto dai proiettili nemici e dalla vista degli stessi, sono, quando ben disposte ed adoperate in tempo, in mano d’un capo intelligente, quel mezzo potente con cui egli decide della battaglia, sapendole lanciare a proposito.

52.Il maggiore Vigo Pelizzari, uno dei più brillanti ufficiali dei Mille, morto a Mentana nel 1867, giovane ancora, pugnando i mercenari di Bonaparte.
53.Monte che domina le pianure Capuane.
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Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
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