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Kitabı oku: «I Mille», sayfa 8

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CAPITOLO XXVIII
TALARICO

 
Jamais vaisseau parti des rives du Scamandre
Aux champs Thessaliens osèrent-ils descendre,
Et jamais sans Larisse un lâche ravisseur
Osa-t-il m’enlever ou ma femme ou ma soeur.
 
(Achille a Troia).

I briganti in tutte le epoche, hanno avuto delle eminenti rappresentanze come le eminenze. – Nella forza, per esempio: Milone di Crotona, che ammazzava un toro con un pugno e se lo mangiava; – nella scienza, Archimede, che chiedeva un punto d’appoggio per sollevar la terra, che inventava gli specchi ustorî con cui bruciava la flotta romana; Galileo, che trovava la legge della caduta dei corpi, base della grande scoperta di Newton e che scopriva nell’infinito miriade di mondi fin allora ignoti; e Kepler che tracciava nello spazio le orbite percorse dai pianeti.

I briganti, ripeto, ebbero le loro eminenze tremende per certo, ma non meno di quei settantadue eminenti massi di brutture che attorniano il Papa, nocivi al mondo.

Noi abbiamo Gasparone, che sconta oggi ancora (1870) nelle prigioni di Civita Castellana il tradimento del Papa. – I Francesi contano Cartouche; e gl’Inglesi Robin Hood. – Gli ultimi ed i più atroci li avemmo in questi ultimi tempi, come i Crocco, i La Gala, i Fuoco.

Nei tempi di cui scriviamo (1860) l’individualità brigantesca più famosa era Talarico il Calabrese, temuto in tutta l’Italia meridionale, e che percorreva da padrone, ora solo ed ora accompagnato da bande. – Noi già lo conoscemmo in Palermo incaricato d’assassinare il Capo dei Mille, ed ora lo ritroviamo nella cittadella di Messina, ricevendo istruzione per un colpo di mano.

Il brigantaggio, figlio dell’ignoranza e della miseria, fu fomentato dai preti, dai Borboni e dal capo di tutta questa ciurma, il Buonaparte. – Caduti gli ultimi, e regolati i primi, non vi sarà più brigantaggio in Italia.

Annegato nel sangue che fece versare a torrenti il Buonaparte, nel nulla il Borbone, e Roma resa all’Italia, non vi sarà altro motivo di brigantaggio, se non che le depredazioni del Governo Italiano, che avranno fine siccome ogni altra malvagità.

Devo ripetere qui pure: che educati all’onestà, all’amore del loro paese, codesti robusti contadini, dei quali i preti fanno dei briganti, i di cui delitti inorridiscono il mondo, potrebbero riuscire dei militi stupendi, essendo essi dotati di forza, agilità e coraggio insuperabili. Serva d’esempio il seguente fatto di Talarico.

In una casipola di montagna nelle Calabrie, le truppe borboniche erano pervenute ad assediarlo con una forza imponente e rinchiuderlo in un cerchio di ferro. – Talarico, avvisato dall’amante sua abitatrice di quella casa, del suo pericolo, per prima disposizione si accese il sigaro, poi passando ad una finestra opposta alla porta di casa, sparò sei colpi di revolver, ed immediatamente fasciando colla veste il braccio sinistro, e mettendo la daga alla destra, volse indietro, slanciossi fuori della porta caricando col ferro chiunque si presentava, si aprì strada, e uscì a salvamento senza una sola ferita.

Tale era l’uomo a cui il generale C. dava incarico di catturare Marzia.

CAPITOLO XXIX
IL PESCE SPADA

 
Pour un esclave est-il quelque danger?
 
(Muta di Portici).

Garrulo, svelto, coraggioso è il pescatore siciliano.

E chi può raggiungerlo nella millanteria? Carattere speciale di quanti isolani nostri ho conosciuto e che credo appartenga a tutti i popoli meridionali dell’Europa, come l’Andaluso, il Guascone, ecc.

«Io sono quello» è il preambolo ordinario con cui si presentano questi nostri superbi figli del Vespro.

«Io sono quello» e continuano poi la storia del loro operato. – Tale millanteria, non tollerabile in ogni caso, certamente porta gli uomini alle più arrischiate imprese, alle più splendide scoperte ed all’insofferenza di oltraggi, come lo provarono ai Francesi nella loro impareggiabile rivoluzione; come lo provano ogni volta che si trovano stanchi di governi iniqui.

Pensando poi al modo anormale e spesso scellerato con cui furon governate queste meridionali popolazioni, io sono perplesso nell’investigarne la causa. – Dirò di più: mi ha stupito la facilità con cui esse passarono da una dominazione all’altra in tutte le circostanze, a cominciare dai Cartaginesi sino ai giorni nostri. – Popoli forti ed intelligenti, come cotesti, hanno forse mancato di quella costanza settentrionale che distingue massime gl’Inglesi.

Dobbiamo sperare con fondamento che nell’agglomerazione di tutte le provincie italiane in un sol corpo politico, esse godranno almeno di una condizione più stabile e potranno scuotere, coll’aiuto morale reciproco, il corruttore dominio del cattolicismo che ci trattiene agli ultimi gradini della civiltà umana.

Eccolo! qua, là, avanti, a destra, a sinistra, urla il pescatore messinese collocato in una specie di gabbia, all’estremità di lunghissima pertica, posta in situazione obliqua sul davanti della prora di palischermo leggiero e svelto come il pesce spada perseguito. – E dal suo gesticolare si capirebbe perfettamente dal pratico padrone della barca senza bisogno di assordanti grida.

Quando il pesce spada però è scoperto dal robusto cacciatore che lo segue già coi movimenti della micidiale sua lancia, sempre diretti verso l’innocente vittima, allora il gabbiere cessa dalle grida, ma sarebbe inutile esigere da lui che cessasse dal gesticolare. – Egli non urla, non fiata, trattiene il respiro, ma se voi lo fissate vi accorgete non esser fermo un muscolo del suo corpo. – Non fa rumore, poichè davanti a lui, nella morte del povero pesce, sta la vita della famigliuola che lo attende per un tozzo di pane. Non fa rumore, ma un galvanismo irrequieto scorgesi in tutta la persona, dai piedi nudi ed anneriti al crine irto, e sconvolto, e mobile come rappresentano l’anguicrinita testa di Medusa.

Cessa i tuoi palpiti, le tue impazienze, la tua sete di sangue d’un nemico che non ha altro torto oltre quello di aver le sue carni gradite al palato dell’animale uomo – altro delitto fuor di quello di appartenere a razza men volpina, men maliziosa, giacchè egli, di te più forte, guai se si attentasse di difendersi. —

La tua barca, la tua vita e quella de’ tuoi compagni andrebbero in un fascio. Ma consolati, non aver rimorsi, egli senza malizia assapora la carne di pesci minori, e se vittoriosamente combatte colla balena, non è per proteggerli, ma per gelosia di mestiere. Tali son le odierne monarchie in guerre così continue od in pace armata per la grandezza della propria nazione, la difesa nazionale, per una causa giusta, anzi giustissima, santa! per la protezione infine di sudditi che si pappano per la maggior gloria di Dio da cui emanano direttissimamente. – Lasciamo dunque entrare il pesce spada nel novero delle vittime, giacchè egli conta tra i predoni. – E ben lo coglie il lanciere messinese forandolo da parte a parte e conducendolo cadavere a bordo dopo d’averlo lasciato dissanguare.

La pesca del pesce spada, che si fa nello stretto di Messina, è tanto più cospicua in quanto che essa ha quasi sempre luogo nelle vicinanze delle sponde. La qui descritta si effettuava vicino al litorale siculo tra il faro e la città di Messina, e su quella bellissima spiaggia trovavasi riunita una folla di contemplatori della pesca.

«Oh! povero pesce, guarda quanto sangue ha versato dalla ferita» – e veramente un lago di sangue arrossava i dintorni della barca, mentre il pesce spada dibattevasi miseramente colla morte, inchiodato all’inesorabile ferro che lo trapassava.

Quella voce di compassione, forse l’unica che uscisse dalla folla, era articolata da bellissima fanciulla e diretta ad un’altra non men bella di lei. – Era Marzia che in uno sfogo d’anima gentile, compativa la situazione atroce del povero pesce spada, dirigendosi a Lina.

Frattanto i pescatori avevano raccolta nella barca la magnifica preda (naturalmente magnifica per i predoni), e siccome si disponevano a continuar la pesca essendo quello un giorno propizio per la stagione e per il tempo favorevole, nacque alle nostre eroine il desiderio di veder da vicino il pesce che appena appena aveano avuto il tempo di adocchiare.

«Se avessimo un palischermo» disse Lina «io sarei curiosa di andar a vedere il pesce spada, che mai non vidi.»

Era la proposta formaggio sui maccheroni per la compagna accesa dalla stessa curiosità donnesca, ed un’affermazione subitanea fu la risposta.

«Un palischermo? ma non sarà difficile trovarlo» disse la vezzosa figlia di Roma. – E veramente non fu difficile, giacchè vicino alla sponda stessa una barchetta, con quattro robusti rematori ed un signore al timone avvicinossi; e, come se avesse indovinato il desiderio delle fanciulle, dopo un cortese saluto, il signore offrì gentilmente il palischermo a disposizione delle signorine. Guardaronsi in volto le due, ed un presentimento di mal augurio agghiacciò per un momento la risoluzione di Marzia.

Lina, però, alquanto più spensierata e men diffidente, disse all’amica:

«Andiamo, miglior occasione e più pronta non potevamo trovare.»

Marzia ristette un momento. – Vedendo però l’arditezza della compagna, che già movea verso la sponda, e vergognandosi di mostrar timore, seguì pure verso il legnetto, ed ambe imbarcaronsi in un’impresa di cui si pentiranno amaramente.

CAPITOLO XXX
IL RATTO

Intanto
 
All’onta ed al disprezzo è condannata
Lei, che fu la stella di mia vita,
Il dolce paradiso sulla terra!
 
(Autore conosciuto).

Eran le sei d’una bella serata d’agosto, non v’era soffio di vento, e la superficie dello stretto era inargentata. Le città di Reggio e di Messina come su d’uno specchio riflettevansi in quelle onde fatate, quando le nostre eroine misero il piede sulla graziosa gondola che dovea condurle sulla barca peschereccia ove giaceva il malcapitato cadavere del pesce spada ancora caldo della vitalità scomparsa, e la barca colla trionfale sua ciurma cantarellando vogava trasportata dalla marea verso la cittadella di Messina.

«Ma che con questi quattro robusti rematori, la Sirena che gareggia coi venti, non raggiungerà quegli stupidi pescatori?»

Quella millanteria era vociferata da tale che se fosse stato ben osservato dalle fanciulle pria d’imbarcarsi, esse non si sarebbero certamente affidate a tale guida.

Il comandante della Sirena, posto al timone con Marzia alla destra e Lina alla sinistra, era una di quelle figure che colpiscono ed impongono l’ammirazione in tutti i loro movimenti fisici. Pettoruto e largo di spalle, sulle quali posava una di quelle meridionali teste adornate d’ebano tanto negli occhi che nella capigliatura. – Era di statura mediana, ma svelto quanto il capriolo dei monti.

Non era marino Talarico, non cavaliere32, ma su un cavallo o su un palischermo egli dondolavasi graziosamente quanto un marino italiano, un figlio de las Pampas, od un Monarca della cuchilla del Rio Grande33; infine era un tipo di razza gagliarda, non tutta spenta in Italia, malgrado gli sforzi del prete e della tirannide per corromperla.

Dunque è Talarico, eh! – E voi le mie buone fanciulle l’avete fatta grossa d’affidarvi a lui, o non avete saputo distinguere sulla maschia figura del figlio d’Aspromonte l’occhio aquilino e micidiale del bandito. – E Talarico non solo, ma tutto quanto voi avete veduto di pesca, di pescatori e di Sirena sotto le finestre della vostra abitazione, tutto era stato premeditato ed ordito per involare la Marzia.

Lina, altrettanto preziosa preda, non entrava nel ratto che come un accessorio.

La barca peschereccia vogava sempre verso la cittadella, trasportata dalla marea e dai remi, e la Sirena, benchè sveltissima, accorciava di poco la distanza che la separava dal pesce spada. La curiosità delle nostre belle cangiossi presto in timore, e gettato un colpo d’occhio verso la sponda sicula da dove eran partite e che già oscuravasi colle ombre della notte, esse richiesero al timoniere d’esser ricondotte verso la loro dimora. – Tutt’altro che Talarico avrebbe potuto usare un po’ di diplomazia, cioè d’inganno – confortar le donne, ingiunger loro di star quiete ed infine canzonarle ancora per un pezzo, ma tale non era il modo del calabrese brigante; e quando s’avvide che gli occhi delle due eroine lampeggiavano di sdegno, e che forse potevano, dopo d’aver riconosciuto l’inganno, scagliarsi su di lui, le prevenne, ed abbandonando il timone, pose una mano su d’ogni braccio delle donzelle, e le strinse come se fosse graffa di leone, mentre i rematori, assoldati come il loro capo, avanzaronsi a prestar man forte, nel caso che la potenza di Talarico non avesse bastato.

CAPITOLO XXXI
LA DITTATURA ONESTA

 
Non ciarle, ma fatti.
 
(Autore conosciuto).

Vi sono molti birbanti del mondo, massime tra i popoli ove domina la corruzione del prete e della tirannide. – Ivi si perviene ai gradi, agli onori, all’agiato vivere, a forza di bassezze, di umiliazioni e di servilismo; quindi l’onestà non è merito, ma lo è l’adulazione e la flessibilità della schiena e della coscienza.

Fra codesti birbanti, alcuni onesti, o sono impercettibili nella folla, o sono tenuti in diffidenza per lo scetticismo che invade le moltitudini sì sovente ingannate. – Eppure io conosco degli onesti che potrebbero migliorare la condizione umana, se non vi fossero tanti pregiudizii e tante dottrine. – Ma come si deve aver fede in cinquecento individui, la maggior parte dottori34 e la maggior parte venali, uomini che vengono su dalla melma ove li condannarono la dappocaggine e sovente il vizio; vengon su, dico, a forza di cabale e di favoritismo, e si siedono sfacciatamente tra i legislatori d’una nazione, coll’unico interesse individuale e disposti sempre a sancire ogni ingiustizia monarchica, coonestando così gli atti infami di governi perversi che senza quella ciurma di parassiti avrebbero responsabilità dei loro atti, mentre con parlamenti servili essi sono dispotici, e compariscono o si millantano onesti.

Questi cinquecento, fra cui vi è sempre qualche buono, disgraziatamente si usano come governanti nelle monarchie non solo – governi imposti – ma pure nei paesi ove la caduta delle monarchie, come in Ispagna e in Francia, ha lasciato le nazioni padrone di loro stesse. La vecchia abitudine dei comitati, delle commissioni e dei parlamenti getta negli anzidetti casi di nazioni padrone di loro stesse una turba d’aspiranti alla direzione della cosa pubblica, che sventuratamente riescono sempre con una minoranza buona o mediocre, ma con maggioranza pessima, e quindi annientato il po’ di buono che vi si trova.

E perchè non scegliere un onesto solo per capitanare la nazione e con voto diretto? Non è più facile trovarne uno che cinquecento?

Il maggiore dei popoli della terra, il Romano, chiamò quell’uno Dittatore. – Chiamatelo voi come diavolo volete. Insignitelo del supremo potere per due mesi, per due anni, se meglio vi pare. Non successori nella stessa famiglia, non eserciti permanenti. – Dieci onesti cittadini per littori, e l’esercito Nazione se la patria è minacciata. – Supponete ch’egli sia solamente onesto, e questa è la qualità che voi dovete cercare. – Non è amministratore, militare, finanziere, ma saprà trovare della gente idonea per ogni provincia. E non avrete il bisantismo, con quella turba di ciarlieri che assordano il mondo e mantengono l’Europa in una vera Babilonia.

Con degli onesti ai governi potranno avverarsi tutte le questioni politiche e sociali, e sopratutto si potrà provvedere subito alla soppressione di quel macello umano che si chiama guerra.

Il macchiavellismo è oggi una parola esecrata; eppure Macchiavelli è uno dei grandi di cui si onora l’Italia. Così avvenne alla dittatura. Perchè vi furono dei Cesari, dei Buonaparti, pare non vi possano essere più delle dittature oneste. Ed io sono certo che se la Francia e la Spagna, padrone di loro stesse, avessero, dopo la caduta d’Isabella e di Buonaparte, scelto un uomo solo con pieni poteri per governarle, esse non sarebbero cadute nello stato deplorabile in cui oggi si trovano. Lo rammenti la Democrazia europea; essa è sempre conculcata per non sapere combattere il dispotismo colle proprie sue armi, cioè la concentrazione del potere nelle mani d’un solo, sinchè (come in America ed in Isvizzera) la situazione non divenga normale da non più aver bisogno di poteri straordinari al governo concentrati nelle mani d’un solo.

CAPITOLO XXXII
AGLI ARANCI

 
Non la siepe che l’orto v’impruna
È il confin dell’Italia, o ringhiosi,
Sono l’Alpi il suo lembo, e gli esosi
Son le turbe che vengon di là.
 
(Berchet).

Era verso la fine d’agosto, quando il Dittatore della Sicilia, radunate le vittoriose sue legioni nel Faro, disponevasi a passare sul continente italiano.

Il numero di forze dell’esercito meridionale35 poteva ascendere ad una decina di mila uomini, aumentando ogni giorno però per l’arrolamento di meridionali e per i contingenti venuti dalle altre provincie d’Italia, con buona mano di veterani di tante battaglie.

Cotesto accrescimento di forze dei liberi dispiaceva certamente alla Corte Sarda, al Papato ed al padrone Buonaparte, e fra i mezzi impiegati per impedirlo, non mancarono ogni specie d’ostacoli all’imbarco dei volontari nel settentrione.

Era naturale temessero l’invadente bufera nel mezzodì i monarchici ed i suoi satelliti. Chi ha la coda di paglia, teme il fuoco. – Ciò che non era naturale, che non doveva essere, e che mi ripugna scrivendolo, si è l’opposizione a noi fatta dal dottrinarismo, dagli uomini che oggi ancora sono tenuti quali archimandriti della democrazia italiana.

Essi hanno del merito, non glie lo contesto, e se al merito incontestabile avessero potuto aggiungere la capacità di far l’Italia da soli senza la cooperazione d’altri – essi sarebbero senza dubbio i sommi dei sommi. – Comunque, da loro fummo attraversati anche nella spedizione del 60, apparentemente, non colla volontà di nuocere; ma in realtà pregiudicavano.

L’organizzazione di un corpo di volontari in Toscana capitanato da Nicotera nocque, e se quelli stessi volontari si fossero inviati in Sicilia, sarebbe stato assai meglio.

La spedizione al Golfo degli Aranci, ordinata, credo da Bertani, e da lui diretta coll’oggetto d’un’operazione diversiva nello stato pontificio come la prima, fu anche nociva, perchè ritardò l’arrivo di un corpo considerevole di volontari di cui avevamo gran bisogno, e mi obbligò di abbandonare l’esercito sul Faro, imbarcarmi a bordo del Washington, ed espormi al pericolo d’incontrare gl’incrociatori borbonici, per andar a cercare a tramontana della Sardegna il suddetto forte contingente di bellissimi militi che si volevano sottrarre ai miei ordini (per una spedizione inutile, giacchè essi nulla avrebbero fatto a fianco dell’esercito sardo invadente) e forse anche per non contaminarli al contatto degli elementi poco puri dei Mille.

Era dunque verso la fine d’agosto quando pronto l’Esercito Meridionale sulla sponda sicula dello stretto di Messina, si disponeva a traversarlo.

La vigilanza dei legni borbonici a vapore era immensa: le loro batterie sulla costa calabra, ben guernite di cannoni e d’uomini, protette da varii corpi di truppe sparsi nelle campagne circostanti.

Una quantità di piccole barche, raccolte nei diversi porti della Sicilia, erano state dirette a Punta di Faro, per effettuare il passaggio. – Vi furono alcuni tentativi infruttuosi. – In uno però, condotto dai valorosi Missori, Nullo, Musolino, Mario ed altri prodi compagni, si assaltò uno dei forti principali della costa suddetta, e senza il timore d’una guida che s’impaurì alle prime fucilate, i nostri s’impadronivano del forte, e con questo si sarebbe agevolato grandemente il passaggio dell’esercito.

La fortuna però doveva continuare a proteggere la giusta impresa, ed al ritorno del Washington dagli Aranci, il Dittatore s’avviò verso Taormina, ove il generale Sirtori aveva diretto due piroscafi per il Mezzogiorno della Sicilia – il Torino ed il Franklin. – Imbarcossi col generale Bixio la di lui Divisione e felicemente giunsero a Melito sulla costa meridionale della Calabria.

CAPITOLO XXXIII
ROMA

 
De’ vivi inferno!
Un gran miracol fia
Se Cristo teco alfine non s’adira.
 
(Petrarca).

Era il primo di settembre del 60, e verso le dieci antimeridiane una immensa folla brulicava dalla superba Basilica di S. Pietro, il maggiore dei templi del mondo.

Sino al ponte Elio, oggi di S. Angelo, e dallo stesso in tutta l’estensione della Lungara – quella moltitudine per la maggior parte devota, non lo era al punto di sfidare i raggi solari, cocenti in quella stagione, ed in quell’ora, in cui la brezza marina non ha rinfrescato ancora l’atmosfera corrotta della capitale dell’Orbe Cattolico; tutti tendevano verso l’ombra delle case, ciò che a tutti non riesciva, per la qual cosa verso la parte del Tevere v’era proprio da soffocare, tanta era la calca.

Ma che importa di soffocazioni, di calori, di febbri? Oggi i chercuti danno una solennissima festa ed il popolo degenerato che cresce sulle ruine del più grande dei popoli, non abbisogna di dignità, di decoro, di libertà, ma di feste, e colle feste ed una scodella di brodo si contentano i discendenti dei Manli e dei Scipioni.

Un giorno questo popolo si affollò dietro al carro trionfatore trascinato dai re della terra, quindi negli anfiteatri a contemplar le sanguinose giostre dei gladiatori, e gli urli de’ suoi schiavi morenti, lacerate le loro carni dal leone o dalla pantera. Poi discese ancora più nell’imo delle sue cloache, barattò per pane e giuochi la sua libertà e dignità. Infine non contento ancora della sua abbiezione, e delle brutture imperiali, egli curvossi, si genuflesse, s’accovacciò ai piedi della più lurida, più umiliante e più sfrenata delle tirannidi – quella del prete – dell’impostore – del corruttore per eccellenza della razza umana. – E lì sen giace ancora, pronto al primo squillo di campana, a correre, prostrarsi e baciar la pantofola d’un idolo di fango.

I preti scorgevansi nel vasto peristilio del tempio; ne uscivan di tanto in tanto per respirare più liberamente, per mostrare al volgo ed alle bigotte i loro abiti sacerdotali di gala; e tergevansi con bianchi lini la fronte, sudante per le fatiche– poveri preti! – e sorridevano alle innamorate ammiratrici – e scotevano graziosamente i candidi piviali, e le inanellate chiome.

Crittogama dell’uman genere! – Barattieri dei popoli! – A voi, che importano le sventure delle genti! – Predicatori d’immoralità, vantatori di un paradiso celeste con cui beffate il popolo, mentre ne avete costituito uno terrestre a spese ed a scorno suo, e mentre quell’inferno, di cui voi ridete, lo avete accatastato coi vostri roghi e le scelleraggini vostre, a pro degli infelici che hanno il torto di non bastonarvi.

Sì, preti! – era quella una solennissima festa, con cui le bugiarde vostre campane, le bugiarde vostre sinfonie, ed i bugiardi vostri apparati di stupendissimo lusso, cercavano di chiamare a voi le moltitudini ingannate e colpevoli di non volersi servire di quella religione colla quale natura adornò anche i più cretini. – Vi vuol poi, per Dio, molta scienza per capire che un prete è un impostore?

Quella festa, con cui si assordava il mondo, era la conversione del vecchio Elia e della sua Marzia, che dalla giudaica religione, generatrice del cristianesimo, dicevansi dover passare alla religione del Papa.

Due anime salvate! – Eh preti! – Gran festa! – Lo Spirito Santo richiesto dall’infallibile, ha toccato il cuore delle due smarrite pecore! – Ed esse, al cospetto del mondo devono abiurare la fede dei loro padri, ed aggregarsi alla vostra. – Eh preti! voi sapete che io so, non aver voi altra fede che nel ventre, e nella libidine! – Aggregarsi alla vostra fede, eh! – Credere alla verginità della madre di Cristo, come voi credete a quella delle vostre Perpetue! E mangiar l’Ostia con dentro l’Infinito! Ah birbanti! voi non le credete queste fandonie colle quali infinocchiate le vecchie peccatrici, e gettate le nazioni nell’abbrutimento, nel servaggio, e nella sventura.

Voi non le credete, io lo so; ma nello stesso tempo voi potete scusarvi: chè in questo secolo di ladri, anche voi, avete trovato il modo di viver grassamente alle spalle delle carogne!

«Non fate ciò che io fo, ma fate quel che io dico». Ma bravi li miei preti! ecco una vera scuola di logica, di morale. A che diavolo serve l’esempio!

«Mortificatevi, digiunate, astenetevi» dite voi, per la maggior gloria di Dio! (bestemmie di cotesta impudente canaglia).

«Al prete, bocconi squisiti e vezzose donzelle». E non sono essi Ministri di Dio? – perchè dunque debbono essi privarsi delle dovizie del mondo, come voi altri cretini!

«Sì, la conversione di due Ebrei alla religione di Cristo» rispondeva un Romano ad un giovane d’aspetto marziale, e che dalla bionda capigliatura, sembrava appartenere alle provincie settentrionali della penisola.

«Sì, la conversione di due Ebrei» continuava il figlio di Roma – «e questi pretacci dondolano il nostro povero popolo con tali menzogne, e lo fan scordare del suo abbrutimento e del suo servaggio».

L’interlocutore guardando fisso il Romano, sembrò investigare nell’abbronzato suo volto, la veracità del suo sdegno, e mormorava tra sè: «sarà questo un insofferente del giogo pretino, od un delatore?».

Il suo dubbio durò però poco, e l’apparizione d’una bellissima coppia, divisa per un momento dalla folla, e che accostossi ai due suddetti, facendosi largo, valse a dileguarlo.

I nuovi arrivati erano P… e la sorella Lina, la di cui presenza in Roma sembrerà straordinaria, mentre i loro compagni militavano all’estremità dell’Italia Meridionale.

«Addio, Muzio» incominciò il Bergamasco dirigendosi al Romano, ed ambi si strinsero famigliarmente la destra.

«Addio, mio caro» rispose l’altro – «Io mi vergogno di trovarmi qui inoperoso, mentre i nostri prodi amici, dopo di aver fatto miracoli di valore in Sicilia, stanno oggi marciando vittoriosamente su Partenope. Con tutta la buona volontà del mondo noi fummo ingannati dai temporeggiatori, dai Generali di combinazioni che ci hanno canzonati, intimandoci di fermarci in Roma per colpire il nemico alle spalle, e così abbiam dovuto marcire nell’ozio, e sprecare qui tanta bella e briosa gioventù, anelante di volare a fianco dei militanti fratelli. – Già l’ho sempre detto; la democrazia italiana come tutte le altre dovrebbe persuadersi che vi vuole un capo solo, massime nei casi d’urgenza. – Molti capitani portano generalmente la nave negli scogli. Prima d’ogni schiarimento, permettimi di presentarti il nostro Nullo, e mia sorella Lina».

Uno scambio di affettuose scosse di mano legarono in un momento e per la vita il bravo figlio di Roma coll’eroe della Polonia, e la bellissima fanciulla delle Alpi.

A Lina, Muzio non baciò la mano per verecondia, non potè a meno però, di rimanere stupito a tanta bellezza, ed un po’ confuso.

«Fu veramente sventura, per chi dei nostri non partecipò alla gloriosa spedizione dei Mille» riprese P… «E tu, Muzio, col tuo drappello di coraggiosi romani, avresti aggiunto nuovi allori ai tanti raccolti sui campi Lombardi. Però, non disperarti, se hai mancato di pugnare contro i soldati del Borbone a Calatafimi e a Palermo, qui, tu sarai immensamente utile all’impresa disperata ma santa che ci siam prefissa».

«Oh! contate su di me e de’ miei compagni per qualunque arrischiata impresa» disse Muzio «Noi saremo superbi di combattere sotto ai vostri ordini».

«Duolmi tanto» egli continuò «dovervi lasciare in questo momento e confondermi nella folla; i segugi della polizia papale sono sulle mie tracce, ed io ne scorgo diversi che mi perseguitano. Ove occorra, a qualunque ora cercate di me ai mendichi del Foro Romano».

Terminate quelle parole, Muzio scivolò tra la moltitudine con una celerità sorprendente, a considerare con quanta calca egli doveva lottare.

I nostri tre amici, quanto l’amico interessati a non essere scoperti e sorpresi, imitarono la di lui prudente ritirata e si mossero in direzioni diverse com’erano previamente convenuti.

Frattanto continuavano i grandissimi preparativi per la solennissima conversione dei due Ebrei, Elia, e Marzia; padre e figlia. E la bottega di Roma, per non crollare sotto il putridume de’ suoi vizii e delle sue corruzioni, abbisogna di queste imposture: ora una Vergine di legno, che apre gli occhi; un’altra, che piange lagrime di sangue; una terza, che porta, tempestato di brillanti, sul petto il santo prepuzio di suo figlio; ed un’altra finalmente non meno indecente, con appesa al collo la propria matrice! E la canaglia crede, paga contenta d’esser bastonata.

I preti se ne ridono e scialacquano, ed i reggitori del mondo, fingendo di creder gli uni e di far gl’interessi degli altri, rubano a tutti e fan giustizia del tapino, che prende un pane sul banco del prestinaio, per sfamare la prole morente, e lo appiccano!

32.Qui per Cavaliere non intendo quella caterva di servi che coi cavalli altro non hanno di comune che la greppia ove s’ingrassano a spese dei popoli che disonorano.
33.Monarca della collina: così si chiamano i famosi cavalieri della provincia più meridionale del Brasile.
34.Non si creda che io sia sistematicamente nemico dei dottori (non teologi, che credo impostori), anzi io conto molti dottori tra i miei amici, ma essi han fatto prova sinora tanto cattiva nei governi e nei parlamenti da far disperare di loro.
35.Nome che presero i Mille accresciuti di numero.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
320 s. 1 illüstrasyon
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