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CAPITOLO VIII
Prigionia del Principe di Salerno, e morte del Re Carlo suo padre
Mentre queste cose si trattavano in Francia, Ruggiero di Loria avendo inteso, che Guglielmo Carnuto provenzale, era passato con ventidue galee per soccorrere e munire il castello di Malta, che si tenea per Carlo, uscì dal Porto di Messina con diciotto galee, ed andò per trovarlo, e giunse a tempo, ch'avea messo nel castello genti fresche e vettovaglie, e stava con le galee nel porto di Malta. Mandò Ruggiero una fregata con un trombetta, che richiedesse il Capitano franzese a rendersi, o veramente apparecchiarsi alla battaglia: il Provenzale, che da sè era orgoglioso, ed avea avuta certezza, che l'armata nemica era inferiore di numero di galee, uscì dal Porto, ed attaccò la battaglia; ma alla fine dopo molto spargimento di sangue restò egli rotto e morto, e delle sue galee se ne salvarono sol dodici fuggendo verso Napoli: le diece altre furon prese, e condotte da Ruggiero a Messina con grand'allegrezza di tutta l'isola. I Maltesi si resero, e Ruggiero lasciò alla guardia di quell'isola Manfredi Lancia suo Capitano409.
Ma non contento Ruggiero di questa vittoria, avendo già conceputo nell'animo l'altre gran cose che poi fece, poste in ordine quante galee erano per tutta l'isola, con grandissima celerità andò verso Napoli, acciocchè offerendosi qualche altra occasione avesse potuto far alcuna altra notabile impresa; il che gli successe felicemente, perchè avendo trascorse le marine di Calabria con quarantacinque galee, se ne venne a Castellamare di Stabia, donde rinfrescata l'armata passò verso Napoli nel medesimo mese di giugno dello stesso anno 1283 e con quell'ordine, che si suol andare per combattere, appressato alle mura di Napoli cominciò a far tirare saette ed altri istromenti bellici, che s'usavano a quel tempo dentro la città: onde tutto il Popolo si pose in arme, credendosi che Ruggiero volesse dar l'assalto alla città; ma perchè l'intenzion di Ruggiero non era di far altro effetto, che d'allettare e tirare le galee, ch'eran nel Porto di Napoli alla battaglia, dappoichè ebbero i Siciliani con parole ingiuriose provocati i Napoletani, che stavano su le mura, e quelli ch'erano al porto su le galee, si mosse egli colle sue costeggiando la riviera di Resina e della Torre del Greco, e l'altra riviera verso Occidente di Chiaja e di Posilipo, bruciando e guastando quelle ville e que' luoghi ameni, che vi erano.
Il Principe di Salerno lasciato dal padre Vicario del Regno, non potendo soffrire tanta indegnità di vedere, che su gli occhi suoi i nemici avessero tanto ardire, fece ponere in ordine subito le galee, delle quali era allor Capitano Generale Giacomo di Brusone franzese, e vi s'imbarcò con animo d'andar a combattere. Gerardo Cardinal di Parma Legato Appostolico, che si trovava in Napoli, esclamava, che non uscisse il Principe, nè s'arrischiasse l'armata a combattere; ma egli non potendo soffrire il fasto di Ruggiero, volle in tutti i modi imbarcarsi. Non solo i Franzesi veterani e gli altri stipendiari del Re s'imbarcarono con lui, ma non restò nella città uomo nobile, o cittadino onorato atto a maneggiar l'arme, che non andasse con lui con grandissimo animo: e poichè l'armata fu allontanata poche miglia dal porto di Napoli, Ruggiero di Loria, tosto che la vide, fece vela con le sue galee mostrando di voler fuggire, ma con intenzione di tirarsi dietro l'armata nemica tanto in alto, che non avesse potuto poi evitare di non venir a battaglia. Il Principe allegro, credendosi, che fosse vera fuga, e tutti i soldati delle sue galee, e massime quelli, ch'aveano poca esperienza nell'armi, con grandissime grida si diedero a seguire, sperando vittoria certa; ma poichè furon allontanate per molte miglia da terra ferma, Ruggiero fece fermare le sue galee, e dopo averle una per una visitate, animando i suoi fece girar le prode verso i nemici, che già s'avvicinavano, e con grandissimo impeto andò ad incontrargli. Fu con grandissima forza dell'una parte e dell'altra attaccata la zuffa; ma poichè la battaglia fu durata un gran pezzo, tanto stretta, che appena si potea conoscere una galea dall'altra, al fine avendo i Cavalieri delle galee del Principe adoperate tutte le forze, vinti dal caldo e dalla stanchezza, cominciarono a cedere; ma la galea capitana dove trovavasi il Principe fu l'ultima, perchè ancora che fosse in luogo, nel quale non poteva agevolmente disbrigarsi, ed uscire dalla battaglia, come fecero molte altre, che si salvarono ritirandosi verso Napoli, fece grandissima resistenza, perchè in essa si trovava il fiore de' combattenti, deliberati più tosto morire, che voler cedere, e vedere prigione il Principe loro. Ma Ruggiero per uscire d'impaccio fece buttare dentro mare molti Calafati ed altri Marinari con vergare, ed altri istromenti, i quali subito perforarono in molti luoghi la galea del Principe, in modo che si venne ad empire tanto d'acqua che per non andar a fondo, il Principe e gli altri, che se n'accorsero, si resero a Ruggiero, che gli confortava a rendersi; e Ruggiero porse la mano al Principe sollecitandolo, che passasse presto alla galea sua. Restarono insieme col Principe prigioni il Brusone Generale dell'armata, Guglielmo Stendardo e molti altri Signori italiani e franzesi, che andavano sopra dieci galee che parimente si resero410.
Questa rotta sbigottì grandemente i Napoletani, poichè videro Ruggiero quasi trionfante tornar avanti le mura della città, ed invitare il Popolo napoletano a far novità. E già la plebe avea cominciato a tumultuare, ed a gridare, muoia Re Carlo, e viva Ruggiero di Loria. E narra il Costanzo, che se i Nobili, i vecchi ed i più riputati Cittadini, che pigliarono a guardare le porte della città ed a frenare quell'impeto, non riparavano, sarebbe occorso qualche gran disordine. Ripressa adunque la plebe, e quietata la città, Ruggiero si ritirò all'isola di Capri: ed ottenne dal Principe, che Beatrice ultima figliuola del Re Manfredi, la quale era stata prigione quindici anni nel castello dell'Uovo con la madre e co' fratelli, i quali allora si trovaron morti, fosse liberata, e se ne ritornò in Sicilia; e con grandissimo fasto, e grand'allegrezza di tutti i Siciliani, presentò alla Regina Costanza la sorella libera, ed il Principe prigione, il quale con tutti gli altri principali prigioni fu posto nel Castello di Mattagrifone in Messina.
I Siciliani volevano servirsi del Principe, come rappresaglia per Corradino, e convocati i Sindici delle terre di tutta l'isola giudicarono, che se gli dovesse mozzar il capo, siccome Carlo avea fatto di Corradino, e mandarono alla Regina Costanza, che ne prendesse in cotal guisa vendetta. Ma questa grande, e magnanima Reina detestando tal crudeltà, fece loro intendere, che in cosa di tanta importanza, quanto era la morte del Principe, non era di farne determinazione alcuna, senza la volontà del Re Pietro suo marito, che si trovava in Aragona; onde per levarlo dal loro cospetto, e conservarlo vivo, lo mandò prigione in Aragona a Re Pietro, ove stette più anni custodito in stretta prigione. Questa illustre azione, siccome fu celebrata per tutti i secoli per magnanima e generosa, così rese più detestabile l'infamia del Re Carlo, perchè la pietà e la clemenza trovò più luogo in un petto debole ed infermo d'una donna, che nell'animo virile di quel Re, infamato perciò per tutti i secoli, e da tutti i Scrittori.
Intanto quasi due dì dopo la battaglia, il Re Carlo che veniva da Marsiglia, giunge a Gaeta, dove con infinito suo dolore ebbe novella della rotta, e prigionia di suo figliuolo, e del tumulto accaduto a Napoli. Ne scrisse immantinente al Papa, chiedendogli a tanta avversità conforto e soccorso di danari411; e adirato contro i Napoletani si portò subito a questa città, ed avuto in mano i Capi del tumulto al numero di 150 de' più incolpati, gli fece impiccare, condonando il resto a' Nobili e Cittadini principali, che avevano guardata la città. Ed essendo il principio di luglio, volendo passar in Messina per l'impresa di Sicilia, spedì 75 galee, che passassero il Faro, e girassero a Brindisi ad unirsi con l'altre galee, ch'erano armate nel mare Adriatico. Ed egli per terra andò in Calabria ad assediar Reggio, ch'era in potere degli Aragonesi; ma riuscitagli anche vana quest'impresa, ritornò in Puglia, tutto occupandosi a fornire di numerose Navi la sua armata per l'impresa di Sicilia.
Ma Re Pietro intanto era da Aragona passato in Messina per difesa di quell'isola, e conoscendo, che il Papa era implacabilmente adirato con lui, ma che per la rotta e prigionia del Principe, dissimulando l'odio, avea mandato due Cardinali in Sicilia a trattare la libertà del Principe, e la pace, volle deluderlo con la medesima arte: poichè dopo aver ricevuti i Cardinali con onor grandissimo, diede loro tanta speranza di pace onorata per Re Carlo, che quelli mandarono a dirgli, che non si movesse, e con questa speranza, da poi che Carlo ebbe perduta un'altra stagione, con molta destrezza e prudenza uscì dal trattato di pace, onde i Cardinali ingannati e delusi, dopo avere di nuovo maledetto, e riscomunicato Re Pietro ed i Siciliani, si partirono e tornarono al Papa.
Carlo vedendosi beffatto, si risolse a mezzo decembre di porre in ordine l'armata per ricuperare la libertà del figliuolo ed il perduto Regno; ma mentre egli da Napoli parte per andare a Brindisi a poner in punto l'armata, ecco che nel cammino infermossi a Foggia; dove, essendo giunta l'ora sua fatale, oppresso da malinconia per le tante avversità accadutegli, trapassò nel mese di gennaio del nuovo anno 1285. Teodorico de Niem412, che fiorì nel Regno di Carlo III di Durazzo e del Re Ladislao, narrando la morte di questo Principe, scrisse, che fu tanta l'oppressione e malinconia del suo animo, che una notte vinto da disperazione da se stesso con un laccio si strangolò. Il suo corpo fu condotto a Napoli, e seppellito nella maggior chiesa con pompa reale, dove ancor oggi s'addita il suo tumulo.
CAPITOLO IX
Delle nuove leggi introdotte da Carlo I e dagli altri Re angioini suoi successori, che chiamiamo Capitoli del Regno
Lasciò a noi questo Principe, oltre delle tante altre sue memorie, onde illustrò questo Regno, e molto più la città di Napoli, nuove leggi, che all'uso di Francia non Costituzioni, ma Capitolari, ovvero Capitoli del Regno furon chiamati. Per la famosa Accademia istituita da Federico II in Napoli, e poi da Carlo I arricchita di maggiori privilegi, le Pandette e gli altri libri di Giustiniano avevan invogliati i nostri Professori a studiargli in guisa, che non pure i Dottori, che in que' tempi si chiamavano Maestri, quivi l'insegnavano, ma anche gli Avvocati nel Foro pubblicamente gli allegavano per le decisioni delle cause. E quando quelle leggi non s'opponevano alle longobarde, o alle Costituzioni de' Re normanni e di Federico promulgate da poi, ovvero alle approvate consuetudini del Regno, aveano acquistata tanta forza ed autorità presso i Giudici, che secondo i lor dettami decidevano le cause; non già che vi fosse stata legge scritta, che lo comandasse, ma tratto tratto cominciarono coll'uso ad acquistar forza e vigor di legge, prima per la forza della ragione, da poi per connivenza de' nostri Principi, i quali giacchè volevano, che pubblicamente si leggessero nelle loro Accademie, e che i Giureconsulti gl'illustrassero con commentarii, doveano in conseguenza ancor commendare che s'osservassero nel Foro; e finalmente per le Costituzioni di Federico II il quale dell'autorità delle medesime spesso valevasi, anzi espressamente in più sue Costituzioni413, comandò la di loro osservanza, purchè alle Longobarde, alle Costituzioni del Regno e Consuetudini non s'opponessero. Ed in progresso di tempo la loro forza ed autorità s'estese tanto, che finalmente vinse, e mandò in disusanza le leggi Longobarde. Ecco ciò, che sopra questo soggetto ne scrisse Marino di Caramanico, che fiorì a questi tempi414; Licet vero Regnum desierit subesse Imperio, tamen jura Romana in Regno per annos plurimos, convenientia Regum, qui fuerunt pro tempore, servata diutius consensu tacito remanserunt, ac imo expressim servantur, et corroborantur in Compilatione Constitutionum istarum, ubi neque Constitutiones hae, seu approbatae Regni Consuetudines non obsistunt.
Non è però, che in questi tempi l'autorità delle leggi Romane fosse stata tanta, che avesse dal Foro discacciate affatto le leggi Longobarde: duravano ancor esse nel Regno di Carlo I siccome durarono ne' Regni de' suoi successori Angioini, ancorchè pian piano andassero in disusanza. In fatti Marino stesso di Caramanico, che fu uno de' maggiori Giureconsulti di questi tempi, e che, come si disse, sotto questo Principe fu nell'anno 1269 Giudice appresso il Capitano di Napoli415, ci attesta, che queste leggi a' suoi dì ancor s'osservavano: Ad quod concordant Longobardae leges quae in Regno similiter obtinent. Biase di Morcone, che fiorì a' tempi del Re Roberto, tra le sue opere legali, che lasciò, una fu delle differenze tra le leggi romane e longobarde416, compilata ad imitazione di Andrea da Barletta, per togliere anche a' suoi tempi occasione agl'incauti Avvocati di rimaner confusi, se soverchio invaghiti delle Romane, abbandonando le Longobarde, non cagionasser danno a' loro Clientoli, e ad essi scorno e rossore, se nel Foro rimanessero per l'ignoranza di quelle perditori. Abbiamo ancora una carta417 rapportata dal Tutini418, tratta dall'Archivio regale della Zecca, formata in S. Germano nell'entrar, che fece Carlo nel Regno, ove a tenor delle leggi longobarde, che si allegano in quella scrittura, il Monastero di Monte Cassino e suo Abate, cede al Re la pretensione, ch'egli avea di riconoscere anche nelle cause criminali i suoi vassalli. E non pure in Terra di Lavoro, e nelle vicine province d'Apruzzo e del Contado di Molise, queste leggi erano osservate, ma eziandio in quella di Puglia, vedendosi che la compilazione delle Consuetudini di Bari, che dalle leggi Longobarde derivano, fu ne' tempi di Carlo I fatta da que' due Giureconsulti, cioè dal Giudice Andrea di Bari e dal Giudice Sparro, cotanto in pregio tenuto da Carlo, che da Giustiziere di quella provincia lo innalzò ad esser gran Protonotario del Regno. Così ancora nel Principato, in Salerno e nell'altre province osserviamo il medesimo; e se nelle province di Calabria di esse non rimase alcun vestigio, fu perchè lungamente essendo state possedute da' Greci, e poco da' Longobardi, non poterono in quelle mettere sì profonde radici, sicchè avesser potuto avere lunga durata.
Nel Regno adunque di Carlo niente fu mutato intorno all'autorità delle leggi romane e longobarde e non pur queste, ma le Costituzioni di Federico volle inviolabilmente, che si osservassero, quelle, che dall'Imperadore furono promulgate in tempo, che non era stato ancora dal Concilio di Lione privato dell'Imperio e del Regno di Sicilia. Rivocò bensì nell'anno 1271 ed annullò tutte le donazioni, locazioni, concessioni, atti e privilegi conceduti da Federico dopo la sua deposizione, da Corrado, da Manfredi e loro Ufficiali, che non si trovassero da lui confermati, riputandogli Principi intrusi, e tiranni, come quelli, che erano stati privati del Regno dalla Sede Appostolica, la quale n'avea lui investito419. Non altrimente di ciò, che fece Giustiniano Imperadore, il quale non tutti gli atti de' Re goti annullò, non quelli di Teodorico, di Atalarico e di Teodato, ma sì bene quegli di Teia, di Totila e di Vitige, i quali avendogli contrastato, e fatta guerra, con opporsi con vigore alla conquista, che intendeva fare d'Italia, furon da lui riputati tiranni, intrusi ed usurpatori.
Carlo adunque dopo avere sconfitto e morto Manfredi, essendosi reso padrone de' Regni di Puglia e di Sicilia, volle con nuove leggi riordinare lo stato di questi Reami, per togliere i disordini, che per le precedute guerre e revoluzioni erano accaduti. Le sue leggi, che Capitoli, ovvero Capitularii si dissero ad imitazione del Regno di Francia, erano drizzate così per l'uno, come per l'altro Reame; onde Capitula Regni Siciliae s'appellarono, non meno che le Costituzioni di Federico; avendone ancora per Sicilia propriamente detta, ordinati alcuni particolari rapportati da Inveges420. Ma i Siciliani dopo il famoso Vespro Siciliano, sottrattisi dal giogo de' Franzesi, non conobbero altri Capitoli, che quelli che riceverono da poi da' Re Aragonesi, onde restaron gli altri fatti da Carlo e dagli altri Re Angioini suoi successori, per lo solo Regno di Puglia, detto di Sicilia di qua del Faro; e Carlo Principe di Salerno suo figliuolo, espressamente si dichiara, che i Capitoli da lui stabiliti in tempo del suo Vicariato, erano stati promulgati per lo Regno di Sicilia di qui del Faro, non già per quell'isola.
Il disordine e la confusione, colla quale questi Capitoli furono insieme uniti e mandati poi alle stampe, merita il travaglio, che siamo per soffrire di distinguergli secondo i tempi e le occasioni, nelle quali furono promulgati. Ciocchè era anche necessario farsi per conoscere, onde nascesse tanta varietà, che s'osserva nelle massime, ch'ebbero i nostri Principi Normanni e Svevi nelle loro Costituzioni da quelle, che mostrarono avere questi Principi Angioini ne' loro Capitoli. Poichè riconoscendo Carlo questo Reame dalla Sede Appostolica, come vero Feudo, ed essendosi dichiarato suo uom ligio, ricevè nella investitura quelle dure e gravi condizioni, che sopra si notarono. I Pontefici romani perciò erano tutti accorti, che nel promulgarsi delle nuove leggi, non solo niente si derogasse alla loro pretesa immunità e libertà, ma che tutto si facesse a seconda delle loro massime e dettami; anzi quando lor veniva ben fatto, s'intrigavano ancor essi a stabilirle, come vedremo: perciò si videro nuove leggi contrarie alle Costituzioni di Federico e quindi nacque, che gli Scrittori, che fiorirono a' tempi di questi Re, imbevuti di quelle massime empissero i loro Commentari di dottrine pregiudizialissime alle regalie e preminenze del Re, ed offendessero in tante guise le ragioni dell'Imperio de' nostri Principi. Non dee recar maraviglia il vedere, che essendo Franzesi questi Re, doveano tanto più esser lontani a soffrire tanti oltraggi; poichè la Francia, siccome fu nel precedente libro veduto, a questi tempi era non men gravata, che l'Italia, e la giustizia ecclesiastica in quel Regno avea fatti progressi mirabili, e non prima dell'ordinanza dell'anno 1438 furono le sue intraprese risecate, e ridotte al giusto punto della ragione.
§. I. Capitoli del Re Carlo I
Tutti gli Scrittori convengono, che il Regno di Carlo non durasse più che diciannove anni e pochi giorni, ma alcuni nostri Professori421 cominciarono a noverargli dall'anno 1265 con manifesto errore, essendo presso i più appurati Autori costantissimo, che questo Principe a' 6 gennaio, giorno dell'Epifania, dell'anno 1266 fu incoronato Re da Papa Clemente in Roma, e che a' 26 febbraio del medesimo anno fu da lui Manfredi morto, ed occupò il Regno. Altri errarono nell'anno della morte di questo Principe; poichè scrissero che morisse a' 7 gennaio dell'anno 1284. Ciò ch'è falso, essendo egli trapassato in Foggia in gennaio dell'anno seguente 1285. Quindi derivano i tanti errori, che s'osservano nelle vulgate edizioni di questi Capitoli, per non essersi saputo ben fissare gli anni del Regno di questo Principe, come anderemo notando in alcuni.
Moltissimi altri errori s'osservano ancora nel notarsi gli anni del suo Regno di Gerusalemme. Alcuni credettero, che Carlo nell'istesso tempo, che in Roma fu incoronato Re di Sicilia, fosse stato anche intitolato Re di Gerusalemme. Altri, che conobbero quest'errore, ancorchè confessino, che molto tempo da poi per la cessione di Maria, Carlo acquistasse quel titolo, nulladimanco non sono costanti in fissare l'anno, che fu veramente l'anno 1277 come si disse.
Coloro che unirono insieme questi Capitoli nella maniera, che oggi si leggono, non serbarono ordine alcuno nè di tempo, nè di materia; ma alla rinfusa l'affastellarono. Antonio de Nigris422, che gli commentò, conobbe il disordine, ma non seppe emendarlo, e volle dietro quelli seguire il suo commento, come gli trovò. Dovendosi adunque attendere l'ordine de' tempi, il primo deve riputarsi quello, che fu da Carlo promulgato per la riforma dello Studio generale di Napoli. Fu quello stabilito per mano del famoso Roberto di Bari Protonotario del Regno di Sicilia nel 1266 primo anno del suo Regno in Nocera de' Pagani, detta però de' Cristiani, dove Carlo colla sua moglie Beatrice erasi portato, la quale in questa città morì, e fu sepolta. Fu inserito da Roberto suo nipote ne' suoi Capitoli, sotto il titolo, Privilegium Collegii Neapolitani Studii, dove si legge con questa data Dat. in Castro Nuceriae Christianorum per manus Domini Roberti de Baro, Regni Protontotarii anno 1266. Di questo Capitolo lungamente fu già da noi discorso, parlando dell'Accademia di Napoli ristorata da Carlo.
Nel secondo e terzo anno non se ne leggono; ma seguono da poi alcuni altri Capitoli stabiliti nel quarto anno del suo Regno, cioè nel 1269 sotto i titoli: De Furtis. De assecurandis hominibus illorum, qui turbationis tempore Corradini a fide regia defecerunt. De poena, et vindicta proditorum, etc. Tutti questi furono stabiliti in Trani, e nell'istesso anno alcuni rinovati in Foggia dopo la rotta data a Corradino, per li quali si dà sicurtà a coloro che avendo aderito alla fazion di quel Principe, cercando perdono, ritornassero all'ubbidienza del Re, eccettuando i Tedeschi, Spagnuoli, Catalani e Pisani, i quali volle, che tosto uscissero dal Regno. Si danno ancora altri provvedimenti per riparare a' disordini accaduti in quel turbatissimo tempo, e s'impongono gravi pene a coloro, che non manifestassero i ribelli.
Nel sesto anno, cioè nel 1271 mentre il Re dimorava in Aversa, ne fu promulgato un altro contro chi ardiva contraer matrimonio co' figliuoli de' ribelli senza licenza della sua Corte: si legge sotto il titolo, Quod nullus contrahat matrimonium, etc. e porta la data in Aversa A. D. 1271, dove con errore si legge Regni nostri anno 7 dovendo dire, anno sexto.
Nel settimo anno, cioè nel 1272 ne furono emanati moltissimi: alcuni in Napoli, altri in Aversa, ed altri in Venosa. Que' stabiliti in Napoli nel mese di marzo di quest'anno, ed in Aversa pure nel medesimo anno, si leggono sotto i titoli: De Violentiis. De poena Violentorum, etc. Per li medesimi si procede con molto rigore contro i perturbatori della pubblica e privata quiete, e si reprime l'audacia di coloro, che assuefatti nelle passate rivoluzioni a vivere di rapina e di violenza, perturbavano lo Stato, allor che era in pace. Quello dato in Aversa sotto il titolo de poena Violentorum, porta nella vulgata questa data: Datum Aversae A. D. 1262 anno octavo: ove si scorgono due errori, uno che in vece di dirsi A. D. 1272 si riporta in dietro dieci anni, quando in quel tempo al Re Carlo non era ancor caduta in pensiero l'impresa del Regno: l'altro errore è, che dovea notarsi il settimo, non l'ottavo anno del suo Regno di Sicilia. L'altro capitolo dato in Napoli porta la data giusta, dicendosi: A. D. 1272 Regni nostri anno septimo. Un altro capitolo leggiamo di Carlo dato in quest'istesso anno a Venosa nel mese di giugno sotto il titolo, De occupantibus res demanii. In quello si conservano le ragioni fiscali, delle quali Re Carlo fu molto geloso, ed attento. Porta la data esatta, leggendosi: Datum Venusiis A. D. 1272 Regni nostri anno septimo.
Nell'ottavo anno del suo Regno, cioè nel 1273 leggiamo un altro suo capitolo sotto il titolo, De testimonio publicorum disrobatorum, etc. Si dà la norma intorno alla pruova di questo delitto, e si stabilisce, che la testimonianza di tre malfattori faccia contro essi tanta fede, quanto quella di due uomini probi. Porta la data: Datum Cav. A. 1273 etc. Regni nostri anno 9. L'Addizionatore Bottis, che numera gli anni di Carlo dal 1265 non è maraviglia, che passasse quest'anno per lo nono del Regno di Carlo, ma dovendosi cominciare dal 1266 deve emendarsi il suo errore, e dirsi: Regni nostri anno ottavo.
Nel nono anno, cioè nel 1274 deve riporsi il primo capitolo, che incontriamo in questo Volume stabilito in Napoli nel mese di febbrajo di quest'anno 1274 che si legge sotto il primo titolo, Statutum editum super Portubus. De Bottis stando nel medesimo errore alla data aggiunge: Regnorum nostrorum anno decimo, dovendo dire anno nono. Si danno in esso molte provvidenze intorno all'estrazione del sale e delle vettovaglie da' porti del Regno, ed alcune istruzioni a' Portolani colle quali devono regolarsi. L'altro capitolo, che segue concernente il medesimo soggetto, sotto la rubrica, Aliud statutum super extractione victualium, stabilito in Brindisi, è molto probabile, che da Carlo in quella città si fosse emanato in questo medesimo anno.
Ne' tre seguenti anni niente si legge di questo Principe; ma nel decimoterzo anno del Regno di Sicilia, e secondo del Regno di Gerusalemme, cioè nel 1278 molti capitoli furono da lui fatti in Napoli, che si leggono sotto il titolo, Quod Officiales jurare debent, con gli altri tre seguenti, che portano questa data: Dat. Neap. A. 1278 die 26 januarii. Gli altri che seguono insino al titolo, De poena rei ablatae, furono parimente in quest'anno fatti in Napoli, leggendosi: Dat. Neap. 2 Decembris. In essi si danno vari provvedimenti intorno a' Giustizieri, ed altri Ufficiali, a' quali, fra l'altre cose, vien rigorosamente proibito di darsi ogni qualunque dono, non ostante qualsivoglia consuetudine. Sotto quest'anno deve collocarsi quell'altro capitolo di questo Re, che si legge in fine de' Capitoli del re Carlo II sotto la rubrica, Ad obviandum fraudibus. Fu quello stabilito da Carlo nell'entrar di passaggio nella Terra di S. Eramo vicino Capua, e porta questa data: Anno D. 1278 mense aprilis sept. ejusdem 6. indictionis. Regnorum nostrorum Hierusalem anno 2 Siciliae vero decimotertio.
Nel decimoquinto, cioè nel 1280, si leggono due capitoli fatti a Lago Pensile, il primo ch'è sotto la rubrica, De non mittendo ignem in restuchiis camporum, fu fatto a' 27 luglio di quell'anno; il secondo a' 9 di agosto, e porta nelle vulgate questa scorrettissima data: Data apud Lacum Pensilem. Anno D. 1222 die 9 augusti 7 Indictionis: Regnorum nostrorum, Hierusalem anno 3 Siciliae vero 15 deve leggersi, A. D. 1280 et Hierusalem anno quarto.
Nel decimosesto, cioè nel 1281, si legge un altro Capitolo pubblicato contro i monetari sotto il titolo, De poena infligenda falsariis monetarum. Fu quello stabilito in Brindisi, e porta questa data: Dat. Brundusii A. D. 1281 mense januarii, ec. Regnorum nostrorum, Hierusalem an. 4 Siciliae vero 17 che deve emendarsi e leggersi, Hierusalem an. 5 Siciliae vero an. 16.
(Fu stabilito in Brindisi; perchè questa Città sin da' tempi dell'Imperadore Federico II avea la Regia Zecca, dove anche Federico fece coniar nuove monete, siccome rapporta Riccardo di S. Germano: Anno 1228 mense Januario denarii novi Brundusii per Ursonem Castaldum in S. Germano dati sunt).
Nel decimo settimo anno del Regno di Carlo, cioè nel 1282, furono da questo Principe moltissimi Capitoli stabiliti in Napoli, che furono gli ultimi. Cominciano da quella rubrica: Constitutiones aliae factae per praedictum D. Carolum Regem Siciliae super bono statu: ove si legge un lungo proemio, che a quelle prepone, nel quale esagera il pensiero, e cura che vuol tenere de' suoi Ufficiali, e di distribuire con ordine a ciascuno le sue funzioni, e prefiggere i limiti, perchè senza nota d'avarizia, ed ambizione adempiano le loro parti. Questi Capitoli sotto varie rubriche collocati, arrivano al numero di cinquantotto. I Principi non si ricordano di governar con giustizia i loro sudditi, se non quando ne sono ammoniti per qualche disgrazia loro sopraggiunta, per la quale si veggono costituiti in istato d'aver bisogno di quelli. La rivoluzione di Sicilia spinse Carlo a dar a' suoi sudditi queste nuove leggi, nelle quali si danno molti lodevoli e saggi provvedimenti per la retta amministrazione della giustizia, per evitare le frodi, ed inique esazioni degli Ufficiali, e per lo buono stato della Repubblica; ordinò perciò che fossero pubblicati per tutti i Giustizierati, e per ciascuna città, terra e castello de' medesimi. Furono con somma maturità, e prudenza stabiliti in Napoli, e portano questa esattissima data: Actum Neapoli A. D. 1282 mense Jun. 10 ejusdem indict. Regnorum nostrorum, Hierusalem anno 6, Siciliae vero 17.
Questi furono gli ultimi Capitoli del Re Carlo, il quale in quest'anno con suo cordoglio vedutosi rivoltata la Sicilia, ed a più avversi casi esposto, distratto perciò in cose di maggior importanza, a tutto altro furono poi rivolti i suoi pensieri, che a far leggi. Fu per gravi, ed importanti affari tutto occupato in Roma, e poi in Francia, ed in Bordeos per quelle cagioni, che si sono dette; e lasciando il governo di questo Regno al Principe di Salerno suo figliuolo, lo creò suo Vicario con pieno ed assoluto potere, ed autorità. Questo Principe nel tempo del suo Vicariato molti provvedimenti diede per lo buon governo, onde avea più che mai bisogno questo Reame, e più Capitoli furono perciò da lui stabiliti.