Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9», sayfa 11
CAPITOLO IV
Di D. Innico Velez di Guevara, e Tassis, Conte d'Onnatte, nel cui governo si placarono le sedizioni, e si ridusse il Regno sotto il pristino dominio del Re Filippo
Giunto il Conte d'Onnatte in Napoli, avendo visitati i luoghi della Città, e tutte le trincee, ch'erano a fronte de' popolani, si dispose non pure alla difesa, ma pose ogni studio d'impadronirsi de' quartieri occupati dal Guisa; ed animando le sue milizie, fece dar loro le paghe, distribuendo centottantamila ducati, che avea seco portati da Roma. Nell'istesso tempo, approvando la condotta di D. Giovanni, non tralasciò di seguitar il trattato del perdono e dell'accordo prima coll'Annese incominciato: ciò che giovò non poco, perchè con queste pratiche sempre più s'andava scemando il partito del Guisa mal sofferto dall'Annese. Erano ormai gli abitanti stanchi di tante confusioni e miserie, e tutti sospiravano la quiete; imperocchè interrotto ogni commerzio, e turbata la società civile, non restava più alcuna cosa sicura dalle voglie sfrenate de' scellerati, e dall'audacia di que' meschini, che avvezzi colle fatiche a guadagnar la mercede, ora volevano viver nell'ozio con le rapine, e sotto il manto di libertà essendosi introdotta una dissoluta licenza, la maggior parte era stanca delle sue stesse passioni.
Approssimandosi adunque la vicina Pasqua, in cui gli uomini riconciliandosi a Dio, ammettono ne' loro cuori desideri pietosi di giustizia e di pace, s'impiegarono segretamente molti Religiosi ad introdurre, e coltivare questi sentimenti nella plebe. Proccurò similmente l'Onnatte da alcuni principali de' sollevati ricavar le condizioni, che richiedevano, ma essendo così esorbitanti, che innalzavano i privilegi del Popolo sopra l'autorità del Re, egli trattò di moderargli, perdonando a' rei, e levando le gabelle dal Regno, e per accertargli maggiormente promise, che fra tre giorni gli avrebbe con pubblici documenti a lor piacere confermati e soddisfatti. Disposte in cotal guisa le cose, prima che tal tempo spirasse, presa la congiuntura, che il Duca di Guisa erasi portato nella punta di Posilipo per ridurre la piccola Isola di Nisita a sua divozione, D. Giovanni da una parte, ed il Conte dall'altra uscirono all'improvviso da' Castelli con gente armata, e calando nella Città, ben ricevuti in alcuni quartieri, dove tenevano intelligenza, gridandosi con voci giulive il nome del Re, e rispondendo in concorde suono gli altri vicini, implorandosi pace e clemenza, si dileguò per tutto la sedizione, e la città fu occupata in pochi momenti. Non più di tremila uomini ridussero quel popolo innumerabile all'ubbidienza, e tutto seguì senza strepito e senza sangue. L'Annese ammesso al perdono, presentò le chiavi del Torrione, che furono consegnate a Carlo della Gatta, il quale vi entrò subito con due compagnie di spagnuoli. Nel Duomo si riferirono a Dio solennemente le grazie. Così in un momento s'estinse quell'incendio, che mi nacciava l'eccidio al Regno; e ciò, che apportò maggior maraviglia, fu la subita mutazione degli animi; che dalle uccisioni, da' rancori e dagli odj passarono immantenente a pianti di tenerezza, ed a teneri abbracciamenti, senza distinzione d'amici, o d'inimici, fuorchè alcuni pochi, i quali guidati dalla mala coscienza si sottrassero colla fuga; tutti gli altri restituiti a' loro mestieri, maledicendo le confusioni passate, abbracciarono con giubilo la quiete presente. Seguì la reduzione di Napoli a' 16 d'aprile di quest'anno 1648 giorno di lunedì santo.
Il Duca di Guisa, che in questo giorno, come si disse, trovavasi fuori della Città, intesa la rivoluzione, rimase attonito a tanto accidente: onde cercando colla fuga lo scampo, s'incamminò verso Apruzzi per unirsi colà co' Franzesi: ma seguitato da' Regj, fu fatto prigione e condotto a Gaeta. Fu lungamente consultato in Napoli sopra la di lui vita: da poi fu risoluto di mandarlo con buone guardie in Ispagna, come fu eseguito, dove rimase prigioniero infino a tanto, ch'essendosi il Principe di Condè dichiarato del partito spagnuolo, e sperando di fortificarlo con l'aggiunta del Guisa, chiestolo in grazia al Re, cortesemente l'ottenne; ma il Duca credendosi più obbligato d'osservare la fedeltà al suo Principe, che le promesse fatte a' nemici, al ritorno che fece in Francia, non ne volle udir altro.
L'esempio di Napoli giovò non poco agli altri luoghi del Regno; e se bene in alcune province fluttuanti rimanessero alcune commozioni, ed in particolare nell'Apruzzo, dove da Roma concorsero alcuni Franzesi in aiuto de' sollevati: nulladimeno dalle forze de' Baroni e dall'autorità del Vicerè, furono con poco romor dissipati. Tanto che sedati affatto gli umori della plebe, che dopo una sì fiera tempesta eran rimasi ancor fluttuanti, potè D. Giovanni a' 22 settembre di quest'anno partirsi da Napoli, e portarsi coll'armata a Messina a confermar i Siciliani, che sedati i tumulti, s'eran rimessi già nell'antica ubbidienza ed ossequio del Re.
Il Duca d'Onnatte, sgombrato il torbido, rimosso il Capo, e partito D. Giovanni, pel suo natural talento che inclinava più al rigore che alla clemenza, diede a molti terrore. Con tutto ciò egli assicurò tutti con general perdono, e tosto si applicò a riordinar il Regno; e vedutosi che l'abolizione di tutte le gabelle e de' fiscali portava disordini gravissimi non meno al regio erario, che a' Cittadini istessi, dalle Piazze della città, e particolarmente da quella del Popolo, fu richiesto ad imporre il pagamento di carlini quarantadue per ciascun fuoco delle Comunità del Regno, e la metà di tutte le gabelle abolite, fuorchè quelle dei frutti e de' legumi, che rimasero per sempre estinte. Ed a fine di sovvenire non solo a' bisogni dell'erario regale, ma anche agl'interessi di coloro che l'aveano comprate, fu stabilito, che della rendita di tutte le accennate gabelle dovessero pagarsene ducati trecentomila l'anno per la dote della Cassa militare, applicandosi il rimanente a beneficio de' compratori, i quali dovessero per lor medesimi governarle e ripartirsene il frutto. E per quel che tocca a' fiscali, fu assegnata similmente parte della lor rendita a' compratori, ed il rimanente fu applicato alla dote della Cassa militare. In cotal guisa, e con l'imposizione del jus prohibendi sopra il tabacco, cotanto ora fruttifera, fu sovvenuto al Re ed ai sudditi, e cominciò notabilmente a restituirsi il commerzio ed il traffico da per tutto.
Non tralasciò da poi il Conte, sorgendo in un mare poc'anzi placato sovente nuovi flutti, di mettere in uso i più forti rigori; onde a tal effetto avendo stabilita una Giunta di Ministri contro gl'inconfidenti, fu poi terribile contro i colpevoli de' passati tumulti, e mostrandosi più avido di pene, che soddisfatto del pentimento, non risparmiò alcuno de' principali: imperciocchè ora imputando delitti, ora inventando pretesti, alcuni punì con pubblici supplicj, altri con segrete esecuzioni di morte, e molti costrinse a prender esilio dal Regno: ciò che gli fece acquistar nome di severo e di crudele, e che si reputasse una delle cagioni di non aver potuto prolungare tanto il suo governo, quanto e' reputava convenirsi a' suoi meriti.
CAPITOLO V
Il Conte d'Onnatte restituisce i Presidj di Toscana all'ubbidienza del Re, e rintuzza le frequenti scorrerie de' banditi. Sua partita: monumenti, e leggi, che ci lasciò
Diede agli altri maraviglia insieme, ed a lui sommo encomio la risoluzione del Conte d'Onnatte di tentar ora colle forze del Regno l'impresa de' Presidj di Toscana, essendo rimaso per le precedute scosse cotanto abbattuto e smunto. Ma dall'altro canto l'uomo savissimo considerava, che non si sarebbe potuto giammai apportar quiete nel Regno, se non si snidavano i Franzesi da que' luoghi cotanto vicini: così per gl'impedimenti, ch'essi davano alla comunicazione e traffichi con gli altri Stati della Monarchia nel Mediterraneo; come ancora per lo ricetto, che i ribelli del Regno ritrovavano in quelle Piazze, risolse per tanto il Conte d'impiegar tutti i suoi talenti a quest'impresa, spinto ancora dall'opportunità de' romori, che in questi tempi s'udivano in Francia, involta nelle confusioni, che il Principe di Condè v'aveva poste36. Applicossi perciò ad unir soldatesche, ed a preparare un'armata proporzionata al disegno, e per maggiormente accalorar l'impresa volle egli imbarcarvisi; onde dal suo esempio mossa quasi tutta la Nobiltà del Reame, corse a gara a servire in tal congiuntura il Re. Prima di partire lasciò per suo Luogotenente, D. Beltrano di Guevara suo fratello, il quale per lo spazio di quattro mesi, quanto appunto durò la sua assenza, governò il Regno con molta saviezza, e sopra tutto s'applicò a sollevare le Comunità del Regno, stabilendo, che l'annue entrate, che corrispondevano a' loro creditori, si riducessero alla ragion del cinque per cento. Riparò la Sala della Gran Corte della Vicaria, e diede altri salutari provvedimenti, che si leggono in due sue Prammatiche, che ci lasciò. Nel terzo dì di maggio adunque dell'anno 1650 si mosse da' nostri Porti l'armata verso Gaeta, dove s'unì D. Giovanni d'Austria con altri legni e milizie, che seco conduceva dalla Sicilia. Quivi fattasi la rassegna si contarono trentatrè grosse Navi e tredici Galee oltre le sette della squadra del Duca di Tursi, ch'erano andate a Finale a prender le soldatesche, che il Governador di Milano mandò a questa spedizione.
Giunta l'armata a' 25 del medesimo mese a vista dell'Elba, prima d'attaccar Portolongone, fu risoluto di ricuperar Piombino; onde data la cura al Conte di Conversano, che con titolo di Generale della Cavalleria e con 300 fanti 80 cavalli e sei tartane, tutto a sue spese, erasi accompagnato in questa spedizione, si portò egli con 1500 fanti, 400 cavalli e sette pezzi d'artiglieria, oltre le soldatesche di Nicolò Lodovisio a cui s'apparteneva quel Principato, ad investir la Piazza, e dopo molte ore d'un fierissimo combattimento, costrinse i Franzesi ad abbandonar la città, ed a ritirarsi nella Fortezza. A questo avviso non tardò il Vicerè d'andare con gente fresca a dar calore all'impresa; onde i Franzesi veduti gli assalitori schierati in ordinanza per dar l'assalto, non avendo speranza alcuna di soccorso, tosto si resero a patti di buona guerra. Il Vicerè, dopo aver introdotta la guarnigione in Piombino e restituita al Principe Lodovisio la possessione di quello Stato, ritornò all'armata.
Intanto era riuscito al suo esercito, e senz'opposizione alcuna, di por piede su l'Elba. Ma dovendosi montar su l'erto dove giace Portolongone, eransi i Franzesi posti in agguato, per maltrattare nella salita le soldatesche; scovertosi nondimeno il disegno, essendo montato a cavallo D. Dionigio Gusman, Maestro di Campo Generale del Regno, con una squadra di moschettieri, i Franzesi si ritirarono sotto la Piazza siccome fece il lor Comandante Novigliac. Montò dunque l'esercito senza contrasto e pervenuto su 'l piano, schierate le truppe, fur assaliti li ripari. Prese le fortificazioni esteriori, ed essendo i nostri alloggiati nel fosso, cominciarono i Franzesi ad entrar in trattato di render la Piazza, con le medesime condizioni concedute alla guarnigion di Piombino, e con la permissione di condurre con esso loro due pezzi d'artiglieria, quando fra lo spazio di quindici giorni, che terminavano nella metà d'agosto, non fosse sopravvenuto soccorso capace di far levar l'assedio, fu convenuta la resa. La mattina adunque de' 15 di quel mese uscì dalla Fortezza il Comandante Novigliac alla testa di 700 persone, ch'erano rimaste dal numero di 1500 lasciatevi di guarnigione, le quali giunte alla marina s'imbarcarono su alquanti legni allestiti per loro trasporto. Entrati i nostri nella Piazza, si resero a Dio le grazie del buon successo dell'impresa, la quale, benchè avesse costato molto sangue e grandissime spese, ad ogni modo avrebbe potuto allungarsi molto più, e non si sa con qual felice esito, se i Franzesi avessero voluto difendersi fino all'estremo.
D. Giovanni d'Austria ritornò in Sicilia, ed il Vicerè, dopo aver dati gli ordini necessarj per riparare la Piazza e porla in istato di resistere ad ogni insulto, ritornò in Napoli, dove giunto riprese il governo, e con sommo rigore e severe esecuzioni contro gl'inconfidenti e contro gli sbanditi, i quali travagliavano ora più che mai le due province d'Apruzzi, estinse i primi, ed abbattè i secondi.
Ma mentre il Conte con indefessa applicazione era tutto inteso a riordinare il Governo, ed abbellir la città e ristorarla de' passati tumulti, giunge improvvisamente in Napoli a' 10 di novembre di quest'anno 1653 il Conte di Castrillo, che gli era stato dalla Corte destinato successore. Si turbò egli grandemente di questo arrivo; ma seppe tanto nascondere l'interno rammarico, che non gli uscì giammai parola di bocca di risentimento, se non quando, dopo la deposizione del Governo, si ritirò nel Convento di S. Martino de' PP. Certosini. Alcuni imputavano la rimozione a' suoi rigori: altri a' mali ufficj fattigli da D. Giovanni d'Austria, col quale, dicevasi, che passasse poco buona corrispondenza: nè mancò chi dicesse, che fossero state le suggestioni o l'istanze del Papa, il quale mal soffriva, che il Conte rintuzzasse le pretensioni del Cardinal Filomarino Arcivescovo e degli altri Ecclesiastici, li quali volendo pescare in questi torbidi, s'erano resi insolenti con monitorj ed interdetti conculcando i diritti regali.
Egli in tutti que' spazj, ch'ebbe di riposo, non tralasciò di abbellire la città, ristorare i Tribunali e restituire i Regj Studi. Fece rifare il Palagio della Regia Dogana, quasi tutto rovinato nel tempo delle passate rivoluzioni, ampliando, e dando nuova forma al cortile e rifacendo il fonte, che v'è in mezzo. Nella gran Piazza del Mercato ne fece aprir uno e restaurarne un altro, e dirimpetto la Porta del Castel Nuovo ne fece aprir un nuovo. La Casa della conservazione dei grani fuori Porta Reale e l'altra della conservazione delle farine furono di suo ordine risarcite. Coprì la scuola di cavalcare nella Cavallerizza del Ponte della Maddalena. Trasportò nel Quartiere di Pizzofalcone la Polveriera, che prima era fuori Porta Capuana. Egli fu, che nel Palagio Regale fece costruire quella magnifica Scala, che non v'ha simile in tutta Europa. Egli fece quella gran Sala, ora detta de' Vicerè, abbellita poi de' loro ritratti dal Conte di Castrillo suo successore; siccome tutte le scale segrete, che si vedono in quel Palagio: quella scala coperta, che dal medesimo conduce all'Arsenale: tutte quelle stanze con loggia, che guarda il mare: ed i rastelli davanti alla Porta principale di esso, furono da lui introdotti. E quel disegno, che poi fu posto in esecuzione a' nostri tempi dal Duca di Medina Celi Vicerè, nel Borgo di Chiaja, fu tutto suo, poichè meditava già egli di abbellir tutta quella spiaggia di platani e di fonti e già ne aveva comandato il disegno all'Ingegnere Pietro Marino, e l'avrebbe posto in effetto, se li giorni del suo Governo fossero stati più lunghi. Egli in fine fece risarcire diversi ponti nel Regno, perchè fosse più comodo e sicuro il traffico per le Province.
Ma quello, di che maggiormente gli studiosi gli sono tenuti, oltre d'aver risarcito il magnifico edificio de' Regi Studi, che nel corso de' passati tumulti avea patito notabili ruine, fu la cura, che prese per fare ripigliar gli studi, riponendo in esercizio i Professori in quella Università, quasi che spenta per li precedenti disordini; con aver ordinato nel tempo della restituzione una solenne apertura, nella quale volle egli intervenire. Egli assegnò a' Lettori il soldo, e proibì di leggere in casa, ed ordinò, che gli studenti nel giorno 18 d'ottobre, dedicato a S. Luca, dovessero prendere le matricole, e presentarne fede affermativa del Cappellan Maggiore: restituì le Cattedre e per insinuazioni fattegli dal rinomato Francesco d'Andrea allora Avvocato de' nostri Tribunali, rimise in questa Università la Cattedra di Matematica nella persona di Tommaso Cornelio, celebre Filosofo e Medico di quei tempi. Nè contento d'aver restituiti i pubblici Studi, per l'amor, ch'egli portava alle lettere, s'applicò ancora a favorire l'Accademie; onde sotto di lui fu restituita in Napoli, nella Chiesa di S. Lorenzo, l'Accademia degli Oziosi, sotto il governo del Duca di S. Giovanni, nella quale si riprese dagli Accademici l'istituto di recitar erudite lezioni, dove sovente soleva egli intervenire. Siccome restituì i Regj Studi alla pristina dignità, avendo il Cappellan Maggiore D. Giovanni Salamanca aperta ne' medesimi Studi una Accademia di Legge, per far conoscere al Vicerè il profitto, che vi si faceva, sovente, quando si celebravano le funzioni Accademiche, soleva il Conte onorarle della sua presenza. E se il seguìto contagio non avesse intermessi tutti questi studi, la buona letteratura in Napoli non sarebbe così tardi fra noi poscia risorta, come si dirà nel seguente libro di questa Istoria.
Restituì ancora il Conte d'Onnatte l'autorità ed il decoro ne' nostri Tribunali; e stabilì poco men di cinquanta Prammatiche tutte savie, e prudenti, per le quali regolò i Tribunali: tassò i diritti a' Ministri subalterni: prescrisse i modi, e diede le istruzioni a' Delegati e Governadori degli arrendamenti (o sien gabelle) nuovamente riposti: comandò, che tutti i registri preservati dall'incendio dell'Archivio della Regal Cancelleria, seguìto ne' passati tumulti, e pervenuti in potere di persone private, dovesser portarsi al Segretario del Regno per riporsi nell'Archivio: impose rigorose pene a' Notai, che trascurano di registrare i contratti nei protocolli: fece molte ordinazioni per evitare i contrabbandi; e diede altri salutari provvedimenti, i quali sono additati nella riferita Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche.
CAPITOLO VI
Governo di D. Garzia d'Avellana, ed Haro Conte di Castrillo, nel quale il Duca di Guisa con nuova armata ritenta l'impresa di Napoli, ed entra nel Golfo, ma con infelice successo
La Corte di Spagna reputò, per mitigare il rigore del Conte d'Onnatte, mandar per suo successore nel Governo del Regno il Conte di Castrillo, di genio più mite ed indulgente, come colui, che datosi prima nell'Università di Salamanca agli studi legali, ed impiegato per più anni ne' Ministerj della Toga, era stato da poi promosso a quelli della Spada. Giunse egli in Napoli a' 10 di novembre di quest'anno 1653, e per dar saggio ne' principj del suo Governo, quanto gli fosse a cuore l'abbondanza, fece accrescere due once al peso del pane. Ma cure assai gravi e moleste travagliarono il suo animo in questi medesimi principj; poichè coloro, che sottratti colla fuga al rigor dell'Onnatte, eransi ricovrati in Francia, non tralasciavano in quella Corte magnificare le loro corrispondenze nel Regno, la scontentezza de' popoli per vedersi ricaduti sotto il giogo degli Spagnuoli, e la facilità, che figuravano si sarebbe avuta nel conquistargli. A queste istigazioni s'aggiunsero gli uffizj del Duca di Guisa, il quale, avendo, come si disse, ottenuta la libertà, in vece d'attender le promesse di favorire i malcontenti di Francia, per non tradire il suo natural Signore, si era portato in quella Corte, ed insinuatosi nella di lui grazia, ed abbagliato tuttavia dagli splendori della Corona del Regno, che avea sperato di poter ottenere per se medesimo, non poteva acchetarsi; onde appoggiato all'istanze di que' miseri rifugiati, aggiungeva maggiori stimoli, esagerando la moltitudine de' Porti, ch'erano nel Regno di Napoli, capaci di ricevere qualunque più grande armata: il numero degli amici, ch'egli vi teneva in ciascheduna provincia: l'affezione, che il popolo minuto portava alla sua persona, donde si prometteva una nuova sollevazione, se un'altra volta avesse avuta la sorte di comparirvi, non già disarmato, come prima, ma con forze valevoli a sostenere le risoluzioni de' malcontenti, avviliti dal timor del castigo. Indusse pertanto quella Corte a somministrargli ajuti, e fur dati gli ordini per la spedizione dell'armata, commettendone al Guisa il comando.
Il Conte di Castrillo, avvisato di questi nuovi tentativi della Francia, fu costretto a mettersi in difesa, ed oltre d'aver comandata una nuova elezione di milizie del Battaglione, così a piedi come a cavallo, e delle Compagnie d'uomini d'arme del Regno, fece arrolar nuova gente, e chiamando tutti gli Ufficiali riformati, ne compose due Compagnie, una di trecento Italiani, alla quale diede per Capitano D. Gaspar d'Haro suo figliuolo, e l'altra di Spagnuoli, della quale diede il comando al Marchese di Cortes suo genero. Furono destinate per Piazze d'armi le città di Sessa e di Teano, dove furono chiamate tutte le soldatesche del Battaglione, e le genti di guerra del Regno; e fattasene rassegna in presenza del Maestro di Campo Generale D. Carlo della Gatta, ne furono spediti duemila a rinforzare i presidj di Toscana. Tutte le province del Regno, esposte agl'insulti de' nemici, furono provvedute di soldatesche e di Capitani.
Fatte queste prevenzioni, essendo passato il mese d'ottobre, nè comparendo armata veruna de' Franzesi, si dubitò non fosse stato lor artificio di pubblicare questa spedizione, per impedire che non fossero andati soccorsi dal Regno in Catalogna ed in Fiandra, dove ardeva più che mai fra l'una e l'altra Corona la guerra. Ma si trovò poi vero il sospetto; poichè essendo convenuto al Duca di Guisa consumar maggior tempo di quello, che s'era creduto per porre in ordine l'armata, non potè trovarsi pronta, che sul principio d'ottobre a partir da Tolone, composta di sette Vascelli d'alto bordo, e quindici mercantili, e di sei Galee, con altrettante Tartane, sopra de' quali legni eransi imbarcati settecento soldati, e centocinquanta cavalli, oltre un gran numero d'armi, ed altri ordegni, che doveano servire ad armar tutti quelli, che il Duca sperava si dovessero dichiarare del suo partito, al quale effetto avea fatto imbarcare ducento Nobili per valersene da Comandanti. Sbattuta poi l'armata da tempesta, non comparve ne' nostri mari, se non agli dodici di novembre.
Il Vicerè, all'avviso, che gli diede il Governador di Gaeta, fece tosto porre in ordine sedici Galee, che erano nel Porto: fece guarnire di soldatesche tutte le marine e le città e terre del Golfo di Napoli: fece rinforzare la guarnigione della città di Pozzuoli e del Castello di Baja; e fu spedito il General dell'artiglieria D. Diego Quiroga con fanteria, cavalleria e cannoni a guardar la spiaggia de' Bagnuoli.
L'armata nemica, dopo aver costeggiate le marine di Sorrento e di Vico Equense, gettò l'ancore dirimpetto a Castell'a Mare. Fu questa città, dopo breve opposizione, renduta a patti dal Comandante, nella quale entrato il Duca di Guisa col seguito di cinquanta Cavalieri Gerosolimitani, si portò al Duomo, dove avendo con pubblica e solenne cerimonia rese a Dio le grazie, si pose a fortificar la Piazza con nuove trinciere ben guarnite di soldatesche. A tutti coloro, che non vollero rimanervi, diede ampissimi passaporti, ne' quali s'intitolava Vicerè, e Capitan Generale del Re di Francia nel Regno di Napoli. Commosse questa perdita grandemente il Popolo Napoletano, ed ancorchè si fossero non men i Nobili, che i Popolari offerti al Vicerè di sagrificar la vita e la roba in servigio del Re, non mancavano de' malcontenti che ponevano col timore in costernazione gli animi; tanto che fu obbligato il Vicerè d'imprigionare alcuni, che erano stati Capi de' passati tumulti, fra' quali, due Preti ed un Frate, che andavan facendo pratiche a favor de' Franzesi.
Perchè il Guisa non potesse allargar gli acquisti, il Vicerè, valendosi anche de' Banditi, a' quali concedè il perdono, fece occupar la montagna posta alle spalle di Castell'a Mare. Mandò poi ordine a Carlo della Gatta, al Principe d'Avellino ed agli altri Ufficiali, che dimoravano in Sessa, che provvedute le Piazze di Terra di Lavoro, marciassero col grosso dell'esercito ne' contorni di Castell'a Mare; e spedì sei Galee al Finale per prendere le soldatesche, che calavano dal Milanese. Intanto affollandosi i soccorsi, il Guisa, ancorchè uscito dalla Piazza tentasse occupar i luoghi vicini, trovò da pertutto valida resistenza, e venutisi più volte a scaramucce, con perdita de' suoi, bisognò ritirarsi. Ma sopraggiunto dapoi il General della Gatta con un esercito di dodicimila uomini, composto di Nobili, Baroni, Ufficiali, e soldati riformati, e rinforzato in appresso da altri Reggimenti, svanirono in un tratto le mal concepite speranze; onde i Generali Franzesi pensarono d'abbandonar la Piazza, e proccurar nel miglior modo, che potessero, d'imbarcarsi sopra l'armata e ricondursi in Tolone. Consideravano, che voler stendere le conquiste per terra era impresa non che dura, ma disperata; poichè tutto il paese circostante era pieno di truppe nemiche. Rimaner in quel mal sicuro Porto in quell'inverno, era lo stesso, che esporre l'armata ad un certo naufragio. Non restava loro altro che il mare libero, per non esservi Armata Spagnuola, che potesse far ostacolo; nè la stagione, che correva tempestosa, avanzata già ne' principj d'un rigido inverno, poteva lor promettere felice navigazione, sicchè potessero sicuramente condursi ad invadere altri Porti. L'inclinazione de' Popoli alla persona del Guisa, ch'era stato il principal fondamento di quest'impresa, si vedeva interamente svanita, tardi il Guisa avvedendosi della incostanza della Nazione: rimanendo non poco sorpreso di tanta mutazione e vie più sbigottito, quando intese essersi trovato affisso in Castell'a Mare un cartello, col quale si promettevano trentamila ducati a chi troncasse la sua testa.
Tenutosi per tanto Consiglio di guerra, fu da tutti gli Ufficiali franzesi deliberato d'abbandonare la Piazza, e di condur l'armata in Tolone, per non lasciarla miseramente perire in quel Porto; onde fur dati gli ordini opportuni per la partenza. A quest'avviso cominciarono le soldatesche a saccheggiar le case de' cittadini, nè si perdonarono le Chiese, le quali furono spogliate di tutte le suppellettili e vasi sagri; e fatta non picciola preda, montarono i Franzesi su l'armata la sera de' 26 di novembre; ma trattenuti per quindici giorni, e combattuti da' venti contrarj alla loro navigazione, quietatosi alquanto il mare, partirono al 10 di dicembre verso Tolone: nell'istesso tempo, che comparve nel nostro Golfo una squadra di 23 navi inglesi, la quale ad istanza del Re Filippo era stata spedita per opporsi a' Franzesi: onde non essendovi del lor soccorso più di bisogno, a' 26 di dicembre voltarono le prore verso ponente, dopo essersi trattenuta in questo Porto due giorni.
In cotal guisa terminarono i timori, che la spedizione del Duca di Guisa avea cagionati nel Regno; ma non finirono le cure del Vicerè e le occasioni di provvedere a' bisogni d'una nuova guerra. I Franzesi non cessavano con nuovi mezzi di tenere solleciti gli animi e distratte le forze: aveano a questi tempi indotto il genio guerriero di Francesco Duca di Modena ad armare, per rinovar la guerra nel Milanese; onde il Marchese di Garacena Governador di Milano, per ridur questo Principe con la forza dell'armi alla quiete era entrato ne' di lui Stati. Era a' 7 di gennaio di quest'anno 1755 morto Innocenzio X, ma con tutto ciò il Collegio de' Cardinali, ridotto in Conclave per la nuova elezione del successore, non avea tralasciato spedir Emilio Altieri, per ridurre le Parti a' più moderati consigli; ed essendo da poi a' 7 d'aprile seguita l'elezione del nuovo Pontefice nella persona di Fabio Chigi, nominato Alessandro VII, interpose costui i più fervorosi ufficj per dar riposo all'Italia. Ma nulla giovando le interposizioni del Papa, nè quelle della Repubblica di Vinezia, la quale angustiata da' Turchi mal soffriva queste contese tra' nostri Principi in Lombardia: il Duca di Modena, dichiarato Generale del Re di Francia, andò ad accamparsi sotto Pavia. Bisognò per tanto all'avviso di queste mosse, che il Vicerè, richiesto di soccorso, spedisse nel mese di maggio al Finale sopra sette Galee millecinquecento fanti: e poco da poi allestisse una Squadra di Vascelli e Galee: sopra le quali vi furono spedite quattromila persone sotto il comando del Marchese di Bajona. Nè perciò essendo cessati i bisogni, fu duopo in agosto sopra cinque Galee, e quaranta Tartane di spedir altri duemila fanti del Battaglione e millecinquecento cavalli, sotto il comando del Marchese di Cortes genero del Vicerè. Ebbe costui poscia il contento di veder bene impiegate tutte queste spese e travagli; poichè rinforzato da sì valevoli soccorsi l'esercito del Governador di Milano, ed all'incontro trovatasi da' Franzesi grandissima resistenza in Pavia, valorosamente difesa dal Conte Galeazzo Trotti, fu costretto il Duca di Modena a ritirarsi dall'impresa.