Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2», sayfa 12
[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da «stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono sacratissime appo i gentili, e di precipua venerazione, e massimamente appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]
[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè «adulterium, alterius ventrem terens»: cioè lʼadulterio è il priemere lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è premuto, ma del marito di lei.]
[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti, che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata «ceston», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «Et a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia, blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium», ecc. E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa sua cintura detta «ceston», a dimostrazione che quegli, li quali per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata «ceston»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono «incesto», cioè fatta senza questo ceston: ma questa generalitá è stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato «stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]
[Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente libro.]
[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]
Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della carne è naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.
Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno, se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero, e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «Sine Cerere et Baccho friget Venus».
Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito. E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio e per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata, dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla, se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne, accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali, ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser, fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi, che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta, percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.
CANTO SESTO
I
Senso Letterale
«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli, nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse; nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta quivi: «Noi aggirammo».
Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si chiuse», come nella fine del precedente canto è mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in quella, «e come che io mi guati».
«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova», sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo, nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè queste tre cose.
«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole», percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate le mani», per poter prendere e arrappare: «Graffia gli spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.
«Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso, «come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i miseri profani».
«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo, nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono rimasi profani.
«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra è dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo». Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.
«E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»; «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre, come di sopra è mostrato.
E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel sesto dellʼEneida scrive:
Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
personat, adverso recubans immanis in antro.
Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
melle soporatam et medicalis frugibus offam
obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
corripit obiectam, atque immania terga resolvit
fusus humi, totoque ingens extenditur antro, ecc.
«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».
Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼEneida fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá, che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá nel canto venticinquesimo del Purgatorio, dove questa materia si tratta.
«Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna, chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».
E disse cosí: – «O tu, che seʼ per questo inferno tratto», – cioè menato, «Mi disse, – riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire: – Guatami, e vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere; – e la ragione è questa, che – «Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «chʼio disfatto», – cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.
«Ed io a lei», cioè a quella anima: – «Lʼangoscia, che tu hai», dal tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché io non me ne ricordo, «dimmi chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia», cioè maggiore, «nulla è sí spiacente». —
«Ed egli a me», rispuose cosí: – «La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino, «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.
«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.
«Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena stanno», che fo io, e «Per simil colpa» – cioè per lo vizio della gola: «e», detto questo, «piú non feʼ parola».
«Io gli risposi», cioè gli dissi: – «Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo, mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè giusto», nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia assalita». – Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.
«Ed egli a me» (supple) rispose alla prima: – «Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme.
Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente, cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso, di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.
«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia», percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.
«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto, li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, percioché in essa distesamente si pone.]
Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace, avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.
«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra», parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti», cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro fanno alli quali pare ricever torto.
«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno, sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.
«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori accesi». – Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta dallʼautore di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò, vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra, cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá; il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare.