Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2», sayfa 14
Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli da esso molto offeso sia.
Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente. Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano, essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo, e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto, convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi, tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali, per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore, le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo, tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano. Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano, urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane, gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie, ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata cagione.
I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi, gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo da lui medesimo furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò, per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna, se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle, furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi, né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi. Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito. Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie, ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí, spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.
Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si puote per le cose predette, tre maniere son di golosi. Delli quali lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano, non avendo riguardo a quello che contro a questo nel Libro della Sapienza ammaestrati siamo, nel quale si legge: «Ne intuearis vinum, cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo mordebit, ut coluber». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid potest quis gustare, quod gustatum affert mortem?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato. È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente testifica Ieremia, dicendo: «Venter mero aestuans, facile despumat in libidinem»; e Salomon dice: «Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens»; e san Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente ammaestrandoci, dice: «Nolite inebriari vino, in quo est luxuria». È ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana: di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui, sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob: «Bibunt indignationem, quasi aquam». Ma, secondo che si legge nel salmo: «Amara erit potio bibentibus illam»; e come Seneca a Lucillo scrive nella ventiquattresima epistola: «Ipsae voluptates in tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum omnium depravationes» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori, abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare brievemente.
Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso «grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani: e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare convenirsi che, contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe, per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive. E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti, cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti, non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli faccia disiderare dʼesser sordi.
Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno, e guardiano della porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «creon vorans», cioè «divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane», percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.
Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole, per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai; il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E, oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di mangee e divisatori di quelle.
E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali, per soperchio bere, i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e lagrimosi.
Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto; e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che, conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale, quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta malvagia.
Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo, per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a gittar fuori.
E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande; e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú che alcuna altra gli piaccia.
Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare glʼincomposti movimenti dellʼebbro.
Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide, aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol discrivere un altro costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente, volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.
CANTO SETTIMO
I
Senso Letterale
– «Papé Satan, papé Satan aleppe», – ecc. Nel presente canto lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi: – «Maestro, – dissʼio lui».
Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra, trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide, admirative cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni, dicendo: – «Papé».
Questo vocabolo è adverbium admirandi, e perciò, quando dʼalcuna cosa ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «papé!». E da questo vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina, e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora chiamavano i lor preti «papas», quasi «ammirabili»: e ammirabili sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del quale siede il vicario di san Pietro.
«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario» o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.
«Papé Satán». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare lʼammirazione esser maggiore.
E seguita: «aleppe». «Alep» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè «a»; ed è «alep» appo gli ebrei adverbium dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.
Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta, cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e, accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina di quello, e poi, dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però admirative, e dolendosi, chiama il prencipe suo.
«Cominciò Pluto», (supple) a dire o a gridare, «con la voce chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto alla sua buona intenzione.
[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano Dispiter, fu figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e, secondo dice Eusebio in libro Temporum, il nome suo fu Aidoneo. Fu costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]
«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe: percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi: – Non ti noccia La sua paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale si suol muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia», – cioè questo balzo.
«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto, «E disse: – Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia», la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ la vendetta del superbo strupo», – cioè del Lucifero, il quale, come nellʼApocalissi si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso, insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli strupatori.
«Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio, «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde a terra la fiera crudele», cioè Plutone.
«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori, li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente ripa», cioè mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo; e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca», cioè in sé insaccato riceve.
Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa», cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena, o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.
Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina. Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da «pharos», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente, in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a quelle che sono in Peloro, ed e converso. E, come di sopra è detto, questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto: e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano [come è libeccio e ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda… Che si frange con quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose, delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero, questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non veggiono la cagione della elevazione.]
Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato, le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori, in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde predette.
«Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte e dʼaltra con grandʼurli», cioè a destra e a sinistra, miseramente per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro», cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando», quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra: – «Perché tieni?»; – e incontro a questa gridava lʼaltra: – «E perché burli?» – cioè getti via. «Cosi tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio tetro».
Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita, scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.
«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano «allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano, «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole, «metro», cioè: – «Perché tieni? – E perché burli?». – Il quale lʼautore chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «metros», graece, che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna misura, secondo la qualitá del verso.