Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2», sayfa 16
[E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti, li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore sentire per questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa, sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]
«Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi; nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí girammo».
Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte, e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano, secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del quale io vengo teco.
«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone «allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero «Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí bogliente, «Per un fossato che da lei deriva», cioè si fa dellʼacqua che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore; «altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera «bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma, largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè malvagia.
Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»; e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige». E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in quel cerchio sono.
[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti, la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono, quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:
…Stigiamque paludem,
dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc.
E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio, avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare» cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]
[Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile, la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in questa palude.]
[Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati, nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi siamo veri iddii e non vani. Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente sentito nel sesto del suo Eneida, lá dove egli manda i perfidi e ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi, cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati. O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono, glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle, le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico». Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti, esso fa quello che gli astrologhi chiamano «zenit capitis»; e in questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige, secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero; e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli scrisse Delle cose sacre dʼEgitto, dicendo che la palude di Stige è appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí, essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «phile», il quale è tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]
[Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che temere; e questi cotali sono glʼiddii, i quali i gentili dicevano esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio, credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]
[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare, né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]
«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso», cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean, non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi, «Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano a brano», cioè a pezzo a pezzo.
«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno che cosí si troncano, e dice: – «Figlio, or vedi Lʼanime di color cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori, e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua sospirava o si doleva.
«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali «dicon: – Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce, qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta negra», – in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la quale ella sta e che la mena.
«Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi, e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario, il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi, dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la qual muove dal polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa, non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello, che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.
«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare, e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti (cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono, «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza», cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.
II
Senso allegorico
[«Papé Satan, papé Satan aleppe», ecc. Dimostrò lʼautore nel precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise, quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio; e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]
[Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno, il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria nascosa, cioè che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa, ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá; e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone intendere.]
[Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato Dispiter, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu Opis, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼEneida quivi:
Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, ecc.
E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel suo Thebaidos, dicendo:
Forte sedens media regni infelicis in arce
dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
saevaque multisonas exercet poena catenas:
fata ferunt animas, ecc.
E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma, dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò, accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto, parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia dʼErcole furente:
Post haec avari Ditis apparet domus.
Hic saevus umbras territat Stygius canis,
qui terna vasto capita concutiens sono
regnum tuetur: sordidum tabo caput
lambunt colubrae: viperis horrent iubae
longusque torta sibilat cauda draco.
Par ira formae, ecc.]
[Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «Dispiter», quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «Opis» è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente chiamato padre di Plutone.]
[Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone; accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:
Nulli fas casto sceleratum insistere limen;
accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza ingiustizia non potersi fare.]
[Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per arricchire par che sieno.]
[Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato «oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]
[Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa «abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si genera che laudevole o degna di memoria sia.]
[Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá, le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora, ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane, sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto «guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre teste discritte, a dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano, nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino, e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi, non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano, né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire tristissimi e miseri guardiani di Dite.]
[I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]
[Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «Ut alter Orcus venisse Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur», ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo, sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]
[Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale, cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova, richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate, mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella mostrarvelo.]
[Leggesi nel Genesi che il serpente venne ad Eva, e confortolla che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼApocalissi che fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che, essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso, e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti, cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame, il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio: Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]
[Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il salmista: «Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente, provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e cosí potete veder qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a questo, si legge nellʼApocalissi: «Substulit angelus lapidem quasi molarem et misit in mare», per la qual pietra vogliono i dottori, sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «Auferam eis cor lapideum», per la quale intendono i dottori la durezza della infedelitá. E il salmista dice: «Descenderunt in profundum, quasi lapides», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del peccato.]