Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3», sayfa 19
PARADISO
Comincia la terza parte della Cantica, overo Comedia, chiamata Paradiso, del chiarissimo poeta Dante Alighieri di Firenze. E di questa terza parte comincia il canto primo. Nel quale l’autore, poi che dimostrato ha sommariamente quello che in essa intende di trattare e fatta la sua invocazione, discrive come appresso a Beatrice se ne salisse nel primo cielo, e come ella gli solvesse un dubbio per lo suo veloce montare venutogli.
Comincia il canto secondo del Paradiso. Nel quale l’autore, poi che a quegli che meno sofficienti sono alla presente considerazione ha detto che si rimangano, dimostra la cagione de’ segni bui, li quali nel corpo della luna veggiamo.
Comincia il canto terzo del Paradiso. Nel quale l’autore parla con madonna Piccarda; e ella gli solve un dubbio, mostrandogli ciascuna anima esser contenta nel luogo dove posta è in paradiso; e poi gli mostra Costanza imperadrice.
Comincia il canto quarto del Paradiso. Nel quale Beatrice solve il dubbio della doppia volontá e del tornar dell’anime alle stelle.
Comincia il canto quinto del Paradiso. Nel quale Beatrice dichiara all’autore se per alcuna permutazione si può adempiere il boto fatto. E quindi, saliti nel secondo cielo, vede l’autore molti spiriti gloriosi, de’ quali uno, offertoglisi, domanda chi el sia.
Comincia il canto sesto del Paradiso. Nel quale Giustiniano imperadore se medesimo manifesta all’autore, mostrando appresso molte cose magnifiche fatte sotto il segno dell’aquila, e quanto falli chi quello senza giustizia s’apropri; e ultimamente dice quivi esser l’anima di Romeo.
Comincia il canto settimo del Paradiso. Nel quale Beatrice chiarisce all’autore come giusta vendetta fosse giustamente vengiata; e appresso perché a Dio, a rilevare l’umana generazione dalla colpa del primo padre, piacque piú di dare se medesimo che altro modo; e ultimamente perché gli elementi sieno corruttibili.
Comincia il canto ottavo del Paradiso. Nel quale l’autor mostra come salisser nel terzo cielo; e quivi parla con Carlo Martello, il quale gli dichiara come di dolce seme possa nascere amaro frutto.
Comincia il canto nono del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come madonna Cuniza alcune cose gli predice contra i lombardi, e appresso Folco contro a’ pastori della Chiesa.
Comincia il canto decimo del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come nel cielo del sole pervenissero, dove gli parla Tommaso d’Aquino, e nominagli piú altri spiriti, li quali tutti furon gran letterati; e tra gli altri gli nomina Alberto di Cologna, Salomone e Boezio.
Comincia il canto decimoprimo del Paradiso. Nel quale Tommaso d’Aquino mirabilmente commendando onora san Francesco.
Comincia il canto decimosecondo del Paradiso. Nel quale Bonaventura da Bagnorea mirabilmente parla di san Domenico, e nomina piú altri beati spiriti, li quali quivi dice gloriarsi.
Comincia il canto decimoterzo del Paradiso. Nel quale l’autore mostra come san Tommaso d’Aquino gli chiarisse quello che di Salamon detto avea: «non surse il secondo».
Comincia il canto decimoquarto del Paradiso. Nel quale primieramente l’autore mostra come chiarito fosse come, dopo la universal resurrezione, i santi avranno quello medesimo splendore che al presente hanno, e forza visiva a riguardarlo; e appresso come, nel quinto cielo salito, vide in quello una croce, e in quella lampeggiar Cristo.
Comincia il canto decimoquinto del Paradiso. Nel quale l’autore mostra come con festa ricevuto fosse da messer Cacciaguida, suo antico, e come da lui udisse certe cose degli antichi costumi fiorentini, e dove e a che tempo nascesse, e dove abitasse, e poi morisse.
Comincia il canto decimosesto del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida mostra all’autore quali fossero le piú notabili famiglie di Firenze al suo tempo.
Comincia il canto decimo settimo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida, domandato, predice all’autore il suo futuro esilio, e che per quello gli debba seguire; e confortalo a scrivere le cose vedute e udite, a cui che elle si debbano parer gravi.
Comincia il canto decimottavo del Paradiso. Nel quale messer Cacciaguida nomina piú famosi spiriti che in quello cielo son gloriosi. E appresso l’autore, mostrato come nel sesto cielo salito sia, discrive molti santi spiriti ne’ loro movimenti fare diverse figure di lettere, e quelle finire in una M, e di quella farsi una aquila.
Comincia il canto decimonono del Paradiso. Nel quale mostra l’autor dalla sopradetta aquila essergli dichiarato quello che creder [si de’] d’uno non battezzato e che mai di Cristo alcuna cosa non udí ragionare, ma per ogni altra cosa è buono; e ultimamente quello che contro a piú cristiani dicesse la predetta aquila.
Comincia il canto vigesimo del Paradiso. Nel quale l’autor discrive come la detta aquila gli nominò alquanti degli spiriti che in essa erano gloriosi; e appresso gli mostrò come Traiano imperadore e Rifeo troiano, li quali da lei erano stati nominati, non moriron pagani come esso stimava.
Comincia il canto vigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l’autor dimostra come, pervenuto nel settimo cielo, vide una scala altissima, per la quale salivano e scendevano molti spiriti; de’ quali venne a lui Pietro Dammiano, il quale, ad alcuna sua domanda avendo risposto, alcune cose dice contro a’ pastori della Chiesa.
Comincia il canto vigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l’autore narra come parlò con san Benedetto, il quale piú altri santi spiriti contemplativi gli nominò, e piú cose gli disse in vitupèro de’ presenti religiosi; poi dietro a lui su per la scala se ne salí nell’ottavo cielo; e quindi vòlto in giú, discrive quali vedesse la terra e tutti gli altri cieli.
Comincia il canto vigesimoterzo del Paradiso. Nel quale l’autore discrive come la celeste milizia mirabil festa facesse dintorno alla Vergine Maria.
Comincia il canto vigesimoquarto del Paradiso. Nel quale l’autore, con san Pietro parlando, mostra quello che è fede e quello ch’ e’ crede.
Comincia il canto vigesimoquinto del Paradiso. Nel quale l’autore scrive come, da sa’ Iacopo apostolo domandato, dice che cosa è speranza; e appresso come, essendo sopravenuto san Giovanni evangelista, ode da lui non essere in cielo alcuno altro col proprio corpo che Cristo e la madre.
Comincia il canto vigesimosesto del Paradiso. Nel quale l’autore, a domanda di san Giovanni evangelista, dice che cosa è caritá; e appresso come, con Adam parlando, da lui ode quando creato fosse, quanto vivesse, e dove.
Comincia il canto vigesimosettimo del Paradiso. Nel quale l’autore primieramente racconta parole dette da san Piero contro alli moderni pastori; e appresso discrive come pervenisse nel nono cielo.
Comincia il canto vigesimottavo del Paradiso. Nel quale l’autore di scrive la gloriosa festa de’ nove cori degli angeli.
Comincia il canto vigesimonono del Paradiso. Nel quale Beatrice dimostra all’autore l’ordine della creazione delle cose; e appresso ragiona della natura angelica; e ultimamente parla contro alla vanitá d’assai moderni predicatori.
Comincia il canto trigesimo del Paradiso. Nel quale l’autore scrive sé esser salito nel decimo cielo; dove prima in forma d’un fiume, poi in forma d’una rosa, vede la celeste corte, e in quella la sedia d’Arrigo imperadore; del quale e di Clemente papa Beatrice alcuna cosa gli predice.
Comincia il canto trigesimoprimo del Paradiso. Nel quale l’autore dice come, in luogo di Beatrice, trovò san Bernardo, il quale gli mostrò lei sedere nel luogo a’ suoi meriti sortito; ed egli le fece orazione; poi, dicendogliel san Bernardo, volse gli occhi alla letizia de’ gloriosi.
Comincia il canto trigesimosecondo del Paradiso. Nel quale l’autor narra come san Bernardo gli mostrasse la Vergine Maria e Eva e nominatamente piú altri santi uomini e donne, e la letizia dell’agnolo Gabriello, e poi lui ad orare con seco, per grazia impetrar, disponesse.
Comincia il canto trigesimoterzo del Paradiso. Nel quale discrive l’autore l’orazione fatta da san Bernardo, e come con lo sguardo penetrasse alla divina essenzia; e fa fine.
Qui finisce la terza e ultima parte della Cantica, overo Commedia, di Dante Alighieri, chiamata Paradiso.
NOTA
I
Vita di Dante
Il testo è riveduto sul cod. 104. 6 della Biblioteca capitolare di Toledo, il quale da tempo vien giudicato molto autorevolmente di mano del Boccaccio (cfr. M. Barbi, Vita Nuova di Dante, 1907, p. LIV sg. per la descrizione del cod., e p. CLXXI sg. per la dimostrazione dell’autografia). Chi paragoni la presente edizione col testo critico di Fr. Macrí-Leone, vedrá quante lezioni risultino piú chiare e piú persuasive, in grazia appunto del codice toledano.
Un’accurata revisione della punteggiatura, favorita anch’essa dal manoscritto, ha pure aiutato in piú punti a raggiungere una piú esatta interpetrazione del pensiero dell’autore.
Si è mantenuto all’operetta il titolo tradizionale di Vita di Dante. Il codice toledano offrirebbe però questo titolo piú analitico: «De origine vita studiis et moribus clarissimi viri Dantis Aligerii Florentini poëtae illustris et de operibus compositis ab eodem»; e un’espressione del Comento (presente ediz., I, 118) condurrebbe a intitolare l’operetta Trattatello in laude di Dante.
La suddivisione dei paragrafi è generalmente quella assegnata dal citato codice.
Dei sottotitoli quelli che corrispondono alle partizioni adottate nelle precedenti edizioni, sono riportati da queste o modificati; gli altri son nuovi. Il Boccaccio non usò sottotitoli.
La grafia del ms. è stata rispettata fin quanto consentivano le norme di questa collezione1.
II
Redazioni compendiose della Vita di Dante
Il testo del cosí detto Secondo compendio è riveduto sul cod. L. V. 176 della Biblioteca Chigiana, giudicato di mano del Boccaccio, come quello toledano, e piú recente. A piè di pagina ho riportato dalla eccellente edizione di E. Rostagno (La Vita di Dante, testo del cosí detto Compendio attribuito a G. B., Bologna, Zanichelli, 1899) quei tratti che il cosí detto Primo compendio ha in piú o di lezione diversa. Son trascurate soltanto leggerissime differenze formali; sicché il lettore trova in questa edizione le due redazioni, si può dire, integralmente. Ho curato, dov’era possibile, che i capiversi agevolino i riscontri tra queste redazioni e la Vita.
Ho stampato queste Redazioni compendiose dopo la Vita, perché, come si comprende dal titolo stesso che do loro, io preferisco all’ipotesi, che fa di esse uno schema o traccia o primo getto della Vita, l’altra che tende a dimostrarle stesura piú tarda, come piú tardo sarebbe l’autografo chigiano, che contiene il Secondo compendio, rispetto al toledano, che contiene la Vita2.
Le differenze di contenuto, in quanto a sostanza biografica, dati, giudizi e apprezzamenti sui casi e sull’opera di Dante, e le novitá di distribuzione e di ordinamento della materia, non sono trascurabili; ma non bastano a dare una fisonomia diversa al lavoro, la quale si delinea assai nettamente per la omissione di esclamazioni, interrogazioni, apostrofi, ripetizioni e simili luoghi tipici di rettorica scolastica, che infiorano le pagine della Vita. Per via di tale sfrondamento, che al Boccaccio non dovette costare alcuna fatica, mentre lo stile lussureggiante della Vita ci richiama ai romanzi giovanili, quello dei Compendi si riavvicina al Comento, ch’è opera degli ultimi anni di lui.
III
Comento alla «Divina Commedia»
Il testo è riveduto sui quattro codici fiorentini Magliabechiani II. IV. 58 (M1), II. I. 51 (M2)3, VII. 1050 (S)4 e Riccardiano 1053 (R)5, tutti del principio del secolo decimoquinto. Non si è tenuto conto del Magliab. VII. 805, che è una copia tratta da R dall’erudito settecentesco Anton Maria Biscioni.
È materialmente sicuro che nessuno dei quattro codici è copia dell’altro, perché le molte omissioni, che tutti presentano (e che si spiegano quasi sempre pel ritorno della stessa parola a poche righe di distanza nella stessa colonna), non hanno riscontro a volta a volta negli altri tre.
M1 e R presentano una maggiore conformitá esteriore, perché recano chiose a margine e numeri progressivi delle lezioni, che mancano in M2 e S; ma l’insieme dell’analisi porta a credere che sian tutti e quattro apografi di quel medesimo «originale», dal quale M1 esplicitamente si afferma copiato a p. 71, e al quale si riferisce M2 a c. 27 r, col. 2a, allo stesso proposito del precedente, cioè per giustificare come la digressione sulla «fama» (pres. ediz., I, 215-217) non fosse stata copiata a suo posto6.
Altre prove piú o meno esplicite7 dan modo di constatare che l’«originale» presentava frequenti aggiunte in calce o a margine o forse in intere pagine intercalate, le quali aggiunte non sempre conformemente i vari codici hanno inserito a loro posto, e talun d’essi ha talvolta trascurato.
Son tutti maravigliosamente scorretti, nei nomi, nelle date, nelle citazioni latine, che l’amanuense di M2, che sapeva poco di grammatica, sopprime addirittura, o taglia, o riduce male in italiano. La morfologia verbale e la fonetica son trattate individualmente a capriccio. Eppure, nonostante ciò, l’assiduo, paziente e accorto confronto dei quattro codici consente di ricostruire il testo dell’«originale» con abbastanza genuinitá e fedeltá.
Senonché io mi sono dovuto persuadere che di tale «originale» i «24 quaderni» e i «14 quadernetti», ne’ quali il B. lasciò, morendo, la contrastata ereditá delle sue lezioni di Santo Stefano di Badia, rappresentano una parte soltanto. Tutto il resto, che estensivamente può sommare a poco meno che altrettanto, è sviluppo di rimandi al proprio scritto biografico su Dante, che il B. lasciò segnati sull’autografo, e di altri consimili e piú numerosi rimandi alle proprie opere di erudizione, interpetrati con larghezza eccedente il proposito e con intelligenza inadeguata; è svolgimento di appunti e compimento di ragionamenti avviati; sono chiose teologiche e di dottrina chiesastica, per le quali non pare che il B. avesse né competenza né gusto; son tratti cavati da Eusebio, da Giustino, dal lessico di Papia e da altri volumi in uso nelle scuole; sono (e qui segnatamente è caduta in inganno la critica di questo testo nostra e straniera) pagine ricavate da altri commentatori di Dante, posteriori al Boccaccio.
Una somma di prove e di indizi giustifica ed avvalora questa concezione: chiose duplicate e contrastanti; brani che si inseriscono senza alcun legame, tolti i quali il filo del ragionamento ripiglia; errori di traduzione letteralmente meccanica attraverso le cattive e spesso farraginose riduzioni dal De genealogiis, De casibus virorum illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, fontibus; altri volgari errori di traduzione e fraintendimento di testi quali l’Epistola a Can Grande, articoli dell’Elementarium di Papia, ecc.; guasti dell’armonia della forma e alterazioni, scomposizione e disorganizzazione del pensiero nelle pagine desunte dallo scritto biografico su Dante8. Nel caso delle interferenze con altri commentatori (che son poi il Buti, Filippo Villani e l’Anonimo fiorentino), un’analisi stilistica non superlativamente difficile, né, io credo, leggermente opinabile, porta a constatare che vi mancano i modi e le forme del Boccaccio e vi si ritrovano invece i modi e le forme di quegli altri scrittori, piú o meno alterate, piú o meno peggiorate. Esempio tipico è quello del bravo e onesto Da Buti, che nella pagina che cita dal Boccaccia sul nome di Commedia (la qual pagina nel testo del proemio del Boccaccio, quale ora è, non s’innesta grammaticalmente, ma emerge per forma, per dottrina e per organismo di pensiero), rimane, come doveva rimanere, inferiore al modello, mentre ragiona meglio e in piú bei periodi nelle altre pagine che confrontano e che non sono citate come desunte dal Boccaccio9. Filippo Villani trasse dal De Genealogiis, com’egli attesta citandolo, molte pagine e le ridusse ad uso di proemio al commento del primo canto dell’Inferno; e queste, con altre sue pagine, si ritrovano nel Comento, ch’egli non cita, e ch’è legittimo sospettare che non abbia conosciuto mai direttamente, perché niente ne imparò. Le lezioni errate dell’Epistola a Can Grande, che sono nel suo scritto10, si ritrovan pure nel Comento, con altri errori di versione che, se dovessero essere imputati al Boccaccio, porterebbero a questa conclusione: ch’egli, traducendo in italiano, non s’accorgeva di dire spropositatamente pensieri consacrati in chiara dizione latina nella sua maggior opera di cultura. Le pagine che raffrontano tra il proemio dell’Anonimo (ch’è, si noti, uno scritto «composito» nettamente diviso in due parti) e quello del Boccaccio, sono, direi, senza stile, le une e le altre; potrá cercarsi se quelle raffazzonature (come la storia di «guelfo e ghibellino» a pp. 51-53 del III vol.) derivino da una fonte comune ad entrambi i testi. – Esaminando sui codici quei tratti che per un motivo o per l’altro dánno piú grave ragione di sospetto, si trova che le aggiunte materialmente comprovate e riconosciute per dichiarazioni esplicite (vedi sopra) O per via di confronti (omissioni e spostamenti) vi corrispondono tutte: e ciò vorrá dire che nell’originale quei tratti non s’inserivano nel testo; e dove manchi la prova materiale dell’aggiunta, si trova d’ordinario che quei tratti son piú scorretti, con varianti piú frequenti, con una fonetica e una morfologia piú del consueto irriducibili: la qual cosa stará a significare o un’altra mano di scrittura nell’originale o per lo meno una scrittura che riusciva per qualsivoglia cagione (perché piú minuta, o piú trascurata, o interposta) meno nitida.
Sulla scorta di tal somma di prove e di indizii, scartate altre ipotesi, io mi son formata la convinzione che allo stato presente del testo del Comento si sia arrivati attraverso due momenti costitutivi ben distinti:
1o Autografo del Boccaccio, tal quale è presumibile che fosse nella sua prima stesura, con le inevitabili correzioni, sostituzioni ed aggiunte interlineari o a margine o in calce di uno scritto di primo getto; e inoltre con molti rimandi ad altri scritti, specialmente propri, con pensieri e ragionamenti svolti soltanto parzialmente o accennati per tracce e sommari, dato che lo scopo era di preparazione a pubbliche lezioni;
2o Integrazione del materiale di detto autografo (che s’è poi risoluta in rimaneggiamento di molte parti, con grande accrescimento di mole), eseguita con le qualitá di un ecclesiastico maestro di scuola, non privo di cultura, ma scarso d’ingegno: un letterato mediocre. Potrá o no dimostrarsi che costui fosse quello stesso frate, di cui è fatto il nome nella rubrica iniziale di R: «Esposizioni sopra a Dante per lo egregio dottore maestro Grazia dell’ordine di santo Francesco»11. Potrá discutersi se le sue intenzioni siano state oneste (e pur non commendabili!), quali io le credo, giudicando il suo lavoro un esercizio letterario svolto con assiduitá, con ritorni, forse in relazione con la sua professione d’insegnante. Difatti, quant’è alle sue intenzioni, se nel testo del Comento, qual è venuto a risultare dopo il rifacimento, si ritrovano noti ricordi personali del certaldese, che non è ammissibile che questi sia tornato a redigere in quella forma (avendoli altrove espressi nello stile suo proprio); ci son pure altri ricordi personali che non possono essere del Boccaccio, né a lui da un falsario, che non fosse del tutto sciocco o dimentico, attribuiti. A p. 78 del vol. II di questa edizione si legge: «E se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de’ loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo: – Vienne, tale e tale – de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto dal chiamatore, s’eran morti e andatine appresso al chiamatore». Or qui scelga pure il lettore tra la lezione «non era» e quella «non c’era», ammesse entrambi dai codici12; spieghi come vuole lo strano errore, per cui, invece di 1348, vi si legge 1340: in definitiva dovrá pur consentire che un falsario consapevole non poteva far dire al Boccaccio di non essere ancor nato l’anno della peste, ovvero di non essersi trovato in Firenze, in contrasto con la replicata affermazione del Decameron di aver visto «con i suoi occhi» quel che vi avvenne in quell’anno13. Tal prova par che basti a scagionare maestro Grazia, o chi altri sia, dall’accusa di aver falsato il Boccaccio per trarre in inganno il lettore14. Costui, anche se nato dopo l’anno della peste15, poteva essere un uomo maturo sulla fine del ’300 e i primi del ’400, cioè subito dopo Filippo Villani e l’Anonimo, quando è presumibile che al manoscritto del Boccaccio toccasse la non lieta sorte di un revisore e rifacitore.
Il manoscritto, ch’egli lasciò, sarebbe da ravvisare in quello che Lorenzo Ubaldini16 dice che «era giá in potere di Lorenzo Guidetti mentovato nel suo poema dall’Ariosto», e ch’egli qualifica per l’originale del Boccaccio. Giacché, se il Riccardiano 1053, che porta lo stemma dei Gherardi, è parte della copia del ms. Guidetti, che l’Ubaldini stesso dice posseduta da un altro fiorentino, Lottieri Gherardi, e questa copia dá il testo integrato, se ne deve concludere che il ms. Guidetti, insieme con l’autografo del Boccaccio, conteneva l’autografo di maestro Grazia, e cioè che tutto il lavorio dell’integratore venne fatto direttamente sull’originale boccaccesco. In tal caso il codice riccardiano, come gli altri tre codici fiorentini, sarebbero tutti apografi dell’originale boccaccesco e del suo rifacitore allo stesso tempo.
L’esame ch’io ne ho fatto non esclude questa conclusione, salvo la difficoltá materiale di frapporre e sovrapporre tanta scrittura a pagine scritte, senza pensare a fogli qua e lá intercalati. Sia chiaro tuttavia che anche se l’«originale» dei codici fiorentini non conteneva l’autografo del Boccaccio, ma una trascrizione, e anche se questa trascrizione fosse giá adattata alle esigenze del rifacimento e conglobata con esso, i criteri da seguire per la condotta di un’edizione del Comento permarrebbero in sostanza gli stessi.
Tornando dunque alla presente edizione, essa, prima di ogni altra cosa, riproduce il testo qual è nei detti codici fiorentini, cioè il testo integrato. L’ultima edizione, quella del Milanesi (Le Monnier, 1863), sebbene sia molto migliore delle due precedenti (Napoli, Ciccarelli, 1724, con la falsa data di Firenze, e Moutier, 1831-2), e sia condotta sugli stessi codici, sui quali è condotta la presente, non è degna di un’opera che porta il nome del Boccaccio, come gli studiosi non ignorano. Vi si trovano pagine infedelmente trascritte, con omissioni, con parole fraintese, finanche con periodi che dánno un senso opposto a quello che devono avere. Altre e piú numerose pagine appaiono appena trascritte anziché interpetrate. L’interpunzione è quanto mai disordinata. Il lettore, che vorrá esaminare parallelamente l’ediz. Milanesi e la presente, di fronte a moltissimi tratti, si domanderá se non siano cosa nuova.
Il Milanesi divise il Comento in 60 lezioni; le edizioni precedenti dividevano invece il testo in capitoli, secondo la successione dei canti, e la piú parte dei capitoli in due parti, del senso letterale e del senso allegorico.
Non vi può essere dubbio che l’intenzione dell’autore, come la vera fisonomia del suo lavoro, è meglio rispettata dalle edizioni del Ciccarelli e del Moutier, sulla fede dei codici. Difatti M1, S e R segnano in modo evidente la divisione e suddivisione per capitoli, lasciando spazi in bianco e venendo a capo pagina, interponendo rubriche o segnandole o ripetendole a margine e dando rilievo alle iniziali. M2 si contenta del capoverso e delle rubriche, che però sono omesse talvolta17.
Invece le note a margine, che segnano il numero progressivo delle lezioni, sono riferite soltanto da M1 e R; ma talune mancano, altre non si corrispondono tra i due codici. In M1 mancano i numeri 2, 7, 12, è ripetuto il 23 in luogo del 24, mancano 44, 45, 51, 52; in R, per la parte del testo ch’esso contiene, mancano 23, 24, 26, 27, 29, 33-35, 45, 51, 53, 60; non si corrispondono i numeri 25 e 30. Dunque il Milanesi, dividendo in lezioni il Comento del Boccaccio, fece cosa arbitraria, in quanto i codici non offrono gli elementi necessari e sufficienti. Peggio ancora, diversi dei suoi inizi non corrispondono con quelli segnati dai codici: p. es. l’inizio della lezione 43 dovrebbe esser segnato in corrispondenza al verso «La frode ond’ogni coscienza è morsa», sulla fede di ambedue i codici; e l’inizio della lezione 44 dove comincia la 43, sulla fede di R. D’altra parte, se si riflette che la materia del commento è organicamente distribuita tra la lettera e l’allegoria dei vari canti, la divisione in lezioni, anche nell’ipotesi che l’abbia segnata il Boccaccio, sarebbe da giudicare occasionale e secondaria; rammenterebbe quanta materia riuscí a svolgere il B. di giorno in giorno, non giá rappresenterebbe il piano dell’opera; anzi proverebbe che la stesura in iscritto riuscí piú volte diversa dalla lezione parlata, dovendosi giustificare la sproporzione ch’è tra lezioni di poche pagine ed altre che non finiscon mai. E sarebbe, per giunta, piú d’una volta assai poco felice.
Insieme con l’edizione del testo del Comento, quale è dato dai codici, io ho voluto tentare di ricuperare il testo vero del Boccaccio, liberandolo dalle sovrapposizioni subite; e ciò col distinguere per mezzo di semplici18 quei tratti che, alla prova dei codici, dei raffronti e dello stile, non giudico genuini. Parlo di tentativo, perché, all’atto pratico, questo lavoro di eliminazione, ovvio in alcuni casi, riesce in molti altri estremamente difficile e non dá (né, con gli elementi di cui disponiamo, potrebbe darla)
la piena soddisfazione della certezza. Tra le altre difficoltá c’è questa: che, quando le aggiunte non sono semplicemente giustaposte, ma conglobate, ne restano mal sicuri i limiti, o sfuggono addirittura all’attenzione, o possono soltanto ingenerare dubbi irresolubili. E nel caso di riduzioni e rifacimenti da altre opere sue, in che guisa fissare il punto dove la penna e la foga e il tempo e la disposizione di spirito han tratto il Boccaccio a segnare un «et caetera»? Niente esclude che ci siano nel Comento pagine rifatte o tradotte direttamente dal Boccaccio, accanto a pagine né tradotte né rifatte da lui stesso. E si deve pure ammettere che brani che conservano la fisonomia di aggiunte, tali fossero realmente nell’autografo del Boccaccia e di suo pugno. Delle numerose biografie, quelle intorno a nomi mitologici, che sono le piú frequenti e le piú sviluppate, provengono per la maggior parte dal De Genealogiis; le bibliche è raro che presentino garanzie di stile, e forse ho errato per eccesso di prudenza espungendone dal gruppo che se ne legge nel IV Canto (Adamo, Abel, Noé, Moisé ecc.) solamente la prima, sulla base dei raffronti col De claris mulieribus (§ De Eva); e cosí pure le altre biografie, di letterati, di principi, di grandi peccatori, ecc. lasciano spesso molti dubbi o nell’insieme o nelle parti. I miei dubbi irresoluti si estendono oltre: p. es., le chiose svolgenti l’idea che Dante mostri compassione dei dannati quando lo rimorde coscienza di essere incorso negli stessi falli, trovo che sono tutte rescindibili: e, messe insieme, dánno una fisonomia morale dell’Alighieri ben diversa da quella ch’è delineata nella Vita.
Tra le conclusioni piú certe, che dall’eseguito processo di eliminazione si possono trarre, c’è questa: che il Boccaccio non dettò un proemio al suo Comento. Sicuramente sue sono soltanto le pagine sul nome di Comedia; forse è suo anche il primo periodo, 1’«esordio». Il rimanente è accozzato da altri commenti e da altre opere boccaccesche. La mancanza del proemio si spiega pensando che il Boccaccio abbia desunto le prime lezioni dal proprio scritto biografico su Dante, e che, se volle discorrere della concezione pagana dell’inferno e offrirne il quadro mitologico e poetico, si servisse del De Genealogiis. Se tracciò appunti per riordinare e disporre a modo di lezioni siffatta materia, ch’egli possedeva da gran signore, tali appunti non paiono ormai ricuperabili attraverso il proemio composito di maestro Grazia19.
Cosí il testo del Boccaccio, sgombro del proemio non suo e liberato da ìntromissioni e sovrapposizioni, ripiglia parte del decoro che dovette avere, dettato da tanto maestro; molti ragionamenti riannodano le fila spezzate; l’eloquenza fluisce con meno sbalzi ed intoppi; il pensiero e la cultura dell’opera si risollevano all’altezza del nome ch’essa porta.
S’ha per ogni capitolo una di queste intestazioni: «Capitolo» (o «Canto»), «senso litterale», «senso allegorico», «senso morale», «secondo la lettera», «allegorico», «litterale»; una volta sola, e questa a margine: «Primo cap.o secundum litteram».
R scrive «Canto VI», «Canto VII» ecc., d’ordinario ripetendo quando incomincia il commento allegorico.