Kitabı oku: «Morgane», sayfa 4
Capitolo 6
Primi giorni di Aprile 1186, Faro di Messina23, sponda calabra
Qualche anno prima la cattedrale di Milano era stata ridotta ad un cumulo di macerie dal Barbarossa, ed era perciò sua responsabilità se tempo dopo il figlio, per celebrare il suo matrimonio, aveva dovuto accontentarsi della basilica di Sant’Ambrogio. Enrico e Costanza erano convolati a nozze il 27 di gennaio.
Il colpo era stato fatto, le casate dell’Imperatore del nord e del Re del sud erano state unite. Guglielmo si consolava perciò dalle sfortune militari con quella che credeva la sua azione diplomatica più riuscita. Se infatti Costanza, volente o nolente, aveva assolto il suo incarico, non poteva dirsi lo stesso di Tancredi. L’esercito del Regno, vittorioso a Tessalonica, aveva riluttato ad attaccare Costantinopoli. Erano stati quindi sconfitti, traditi e costretti a tornarsene a casa, lasciando tra i monti di Grecia diecimila morti e quattromila prigionieri. Nessuno lo diceva apertamente, ma era probabile che Tancredi, così desideroso di mettersi in mostra davanti al suo Re, aveva ritardato di proposito l’attacco a Costantinopoli quando gli era stato riferito che l’accordo col Barbarossa era stato concluso con successo. Posto che Guglielmo, com’era logico a questo punto aspettarsi, non avrebbe avuto figli... che senso aveva sperare di convincerlo che lui fosse la persona più adatta al trono, se proprio il Re aveva già preso la sua decisione attraverso il matrimonio di Costanza? Il contratto matrimoniale infatti parlava chiaro: in caso di mancanza di eredi, il trono sarebbe spettato alla figlia di Ruggero! Tancredi tornava in patria e malediceva suo cugino, il sovrano per il quale aveva versato il proprio sangue e al quale aveva immolato così tanti compagni. Ripensò a tutti i massacri a cui era andato incontro per soddisfare Guglielmo nelle sue scellerate guerre. La sua mente andò ai soldati caduti sulla spiaggia di Alessandria, falciati dalle scimitarre del Saladino... al naufragio mentre attendevano di attaccare Majorca24... all’alleanza con gli almohadi25, ottenuta pur sempre dopo sangue e sudore. Tancredi ne era convinto, Guglielmo aveva usato la sua brama di ascendere al trono come forza motivante nelle sue mille guerre. Ovviamente il Conte di Lecce sapeva già da tempo del fidanzamento tra Costanza ed Enrico, ma aveva creduto che ottenendo la vittoria a Costantinopoli, Guglielmo cambiasse idea, giudicando non più necessaria l’alleanza col Barbarossa. Tancredi si era illuso e Guglielmo gliel’aveva lasciato credere, pur non avendogli mai promesso niente.
I nobili del Regno, coloro che avevano accompagnato la sposa fino a Rieti e poi a Milano, ora tornavano a casa. Ovviamente lo facevano disordinatamente ed ognuno valutando il proprio tragitto ed i propri interessi. Solo in pochi si erano uniti a Roberto e agli uomini della scorta, ed ora, nel bel mezzo del mese di aprile, avendo svernato a Milano e già percorsa tutta la penisola, si trovavano sulla sponda calabrese del Faro, in attesa che le condizioni del mare permettessero la traversata.
Roberto non era per nulla desideroso di tornare a Palermo. Ora che ciò che aveva costruito e per cui aveva lottato gli era stato tolto, avrebbe voluto girovagare senza mai ritornare nella sua amata città, luogo di ricordi e fantasmi indelebili. Inoltre avrebbe dovuto affrontare gli occhi di sua moglie, donna fedele e devota che lui aveva tradito.
Al contrario, Giordano non vedeva l’ora di tornare a casa; non avrebbe dimenticato facilmente gli occhi di Costanza e desiderava che quel viaggio avesse fine. Trovava tuttavia consolazione nella vista di Ermanno, colui che aveva vinto d’astuzia dopo averci perso alla giostra.
Interessato alla concretezza delle cose, Roberto quella vista la odiava. Aveva sperato di liberarsi di Ermanno una volta di passaggio da Salerno, ma questi aveva proseguito diretto a Palermo, dove diceva di essere stato convocato dal Re. Roberto diffidava da tale giustificazione e credeva che il protetto del Protonotario venisse in Sicilia per sobillare i sostenitori di Tancredi.
Il maltempo perdurava già da giorni e per ammazzare le ore spesso ci si dava alle bevute e al gioco, facendo la fortuna del taverniere del posto e dei pochi abitanti che occupavano il villaggio presso il molo. Molti degli uomini rimpiangevano le ancelle e le dame che erano rimaste con la Principessa, e questo mentre i locali si guardavano bene dal lasciare andare libere le proprie figliole.
Una sera si unì a loro un gruppo di jongleurs26 provenienti dalla corte di Francia e diretti alla corte di Re Guglielmo. Questi allietarono la bevuta raccontando la storia di Orlando e narrando le gesta di Carlo Magno. Poi, divenuta l’atmosfera giocosa per via del vino, passarono al racconto di Artù, Ginevra e Lancillotto, non risparmiando i particolari piccanti di quel triangolo amoroso. Nondimeno, gran parte dei soldati conosceva già quei racconti, diffusisi in Sicilia negli ultimi anni con un’imprevedibile fortuna, e non tutti comprendevano la lingua di quei menestrelli. Fu allora che il taverniere, un uomo dalla folta barba nera e dagli occhi neri e profondi, propose:
«La racconto io una storia.»
Perciò Roberto, che avendo da dimenticare più degli altri si era dato al vino più degli altri, rispose:
«Raccontaci quanto pesanti sono diventate le tue tasche!»
Lo disse quasi singhiozzando e battendo forte il calice pieno sul tavolo.
Roberto era un uomo che generalmente non si dava agli eccessi, e poche volte si era lasciato andare come quella sera. Se c’era una cosa che odiava, questa era non avere il pieno controllo della situazione. Tuttavia la situazione, la sua situazione, avendo agito forze più grandi di lui, non poteva più essere controllata... e questo l’aveva gettato nello sconforto.
«Padre, ognuno di noi ha bevuto molto... ma voi rischiate di diventare lo zimbello della taverna.» gli fece Giordano all’orecchio, preoccupato da come lo guardavano alcuni soldati e specialmente Ermanno.
Roberto lo allontanò con un braccio, borbottando qualcosa di indecifrabile.
«Me lo avete detto voi come vi finì da giovane per esservi lasciato andare davanti ad una coppa di vino.»
«Ti ha mandato tua madre?» chiese Roberto per deriderlo.
Quelli che erano già alticci risero di gusto, Giordano invece tornò a sedersi, sperando che quella sera i barili si vuotassero presto.
«Taverniere, la vostra storia!» esortò adesso l’uomo più fedele del Re, fingendosi serio ed interessato.
E il tizio, sedendosi su una sedia con la spalliera rivolta al petto, cominciò:
«Questi forestieri ci hanno parlato di Artù... bene, io vi dico che Morgana, la fata, vive proprio da queste parti!»
Alcuni dei soldati assentirono con la testa, altri risero. I giullari di Francia, avendo intuito l’affermazione del taverniere e ritenendosi padroni di quelle storie, dissentirono quasi irritati.
«No, è vero invece!» intervenne uno dei soldati siciliani.
«Artù cura le sue ferite sul Mons Jebel27; la gente che vive attorno alla montagna dice di averlo incontrato. E Morgana è apparsa più volte da queste parti!» completò quest’ultimo.
«Morgane...» ripeté con sufficienza uno dei jongleurs, ridendo a crepapelle per screditare quanto detto.
«Io l’ho vista! Nelle mattine d’estate, quando il sole non è ancora sorto... quello è il momento in cui mostra il suo palazzo, proprio nel bel mezzo dello stretto lembo di mare che ci divide dalla costa siciliana. È nelle profondità del mare che risiede, e si mostra solo di rado.» spiegò il taverniere con voce cupa e quasi tremante.
«Avete visto lei o avete visto il suo palazzo?» chiese uno dei più scettici.
«Nel bel mezzo del mare appare la città in cui vive, ed il suo palazzo è al centro.»
«Gente, il taverniere ha ragione!» esclamò il solito soldato che era intervenuto in precedenza.
Dunque questi si mise in piedi e disse:
«Quest’uomo dice di aver visto il suo palazzo... e non è l’unico che può dirlo! Successe un giorno di molti secoli fa, che un re dei barbari, volendo conquistare la Sicilia, si affacciò una mattina per scrutare la costa del suo prossimo approdo. Vide ciò che gli sembrò Messina a pochi passi da lui, tanto vicina che credette di potervi giungere immergendosi in mare. Costui morì annegato! È chiaro che ciò che vide non era Messina, ma il palazzo di Morgana!»
«Come fate a dire che si tratti proprio del palazzo di Morgane? Chi l’ha mai vista?» chiese uno dei giullari, cincischiando qualche parola nel latino del popolo di Sicilia.
«L’ha vista quel re barbaro che il nostro amico ci ha accennato poc’anzi. Fu proprio lei, in persona, ad invogliarlo a raggiungere la città a nuoto. E se non bastasse, vi dico che apparve al Conte Ruggero il giorno in cui passò in Sicilia per scacciare i saraceni... più di cento anni fa. Il padre di mio nonno lo sentì raccontare proprio da lui, dal Gran Conte.» rispose il taverniere.
«E che aspetto aveva? Ditecelo, buonuomo.» esortò uno di quelli che finora aveva stentato a crederci, ma che adesso sembrava convincersi.
«Aveva l’aspetto delle principesse del nord: chioma dorata e occhi azzurri come il mare. Vestiva un abito bianco e viaggiava su un carro trainato da cavalli dalla criniera turchese. Morgana è una donna bellissima, tanto ammaliante da condurre gli uomini al suo volere col solo potere dei suoi occhi. Solo una forte fede in Dio può vincerla! Quando ella mostrò la sua città sommersa al Conte Ruggero, spacciandola per i tesori di Sicilia, e si propose di aiutarlo, egli la respinse. Ruggero aveva consacrato la sua causa alla Vergine e non si fece tentare, seppure questo gli costò trent’anni di guerra.»
«Suo figlio, Re Ruggero, fece esplorare i fondali di questo mare da un palombaro. Vi dico che cercava la città sommersa in cui vive la donna che apparve a suo padre!» aggiunse il soldato che finora aveva sostenuto la verità del taverniere.
A questo punto si alzò Ermanno.
«Taverniere, è una bella storia... ma forse qui tra noi c’è chi potrebbe parlarci di un mistero che affascina la popolazione dell’intero Regno. Roberto di Rossavilla potrebbe dirci qualcosa riguardo alla setta dei giustizieri che da anni anima le notti di Palermo.»
Roberto era ebbro di vino, ma comprese chiaramente la natura della richiesta. Sentì un colpo al cuore e per un momento immaginò che Ermanno sapesse qualcosa, e che volesse esporre la sua identità davanti a tutti.
«Sono dei criminali!» tagliò corto.
«Tutto qui? Voi siete di Palermo, perciò vi chiedo... Si dice che vendichino le ingiustizie subite dal popolo.»
«La giustizia di Palermo è meglio amministrata che altrove. Possiamo farne a meno di tali pezzenti infervorati da vendette e conti in sospeso.»
«O forse la giustizia di Palermo è soggetta agli interessi personali degli uomini del Re... perlomeno così si dice.»
Roberto si alzò in piedi e domandò:
«È la prima volta che venite a Palermo; dico bene?»
«Dite bene.»
«E di cosa avete paura? Forse temete che la setta dei giustizieri vi scompigli i piani?»
«Di cosa state parlando?»
Tutti ammutolirono, in apprensione per quel principio di scambio d’accuse che avrebbe potuto condurre a cose più serie.
«Rivelatevi una volta per tutte, Ermanno!»
Prontamente Giordano affiancò suo padre, il quale si era già avvicinato di un paio di passi al cavaliere salernitano.
«Siete ubriaco fradicio, Messer Roberto, e dite quello che altrimenti terreste per voi. Sarà il Re a chiarire una volte per tutte se sono meritevole delle vostre accuse. Dunque sappiate che mi rimetterò alla volontà di Guglielmo, e qualora ottenga ragione la farò valere per ristabilire la mia reputazione dalle vostre offese.»
«Perché andare fino ai piedi del Re? Ristabilitela adesso la vostra reputazione!» intervenne Giordano, preoccupato per la sorte di suo padre.
«Dovrei battermi contro un uomo ebbro?»
«Io sono abbastanza lucido!» esclamò Giordano.
«Voi? A voi vi ho già battuto!» schernì Ermanno.
Fu in quel momento che Roberto, benché la sua mente fosse alterata dal vino, comprese che Ermanno cercasse proprio di provocarli per farsi vittima davanti agli altri. Inoltre era necessario proteggere Giordano, che immischiandosi avrebbe messo a repentaglio la propria vita.
«Avete ragione, Ermanno... parlatene al Re. Se otterrete ragione venite a cercarmi e affronteremo la questione come si conviene ai nobiluomini.»
Roberto allentava la pressione e rimandava a data futura quello che sembrava configurarsi come un duello.
Ora, perciò, fingendo allegrezza e gioia, afferrò la sua coppa di vino e prese a camminare tra i tavoli dei suoi compagni.
«Propongo di bere alla fortuna del taverniere e all’ospitalità della gente di questo villaggio, tanto gentile da concederci le loro case finché non potremo salpare. Pago per tutti questo giro, fratelli!»
Sollevò la coppa al tetto e lo stesso fecero tutti gli altri, in delirio per l’ultima proposta del loro capitano. Roberto infine tracannò il suo vino, gettandoselo in gran parte sul petto per quanto era sbronzo. Giordano invece lasciò la taverna, irritato dalle parole di sfida di Ermanno e dal comportamento di suo padre.
Quando gli uomini lasciarono la taverna, tutti avevano dimenticato gli attriti tra i Rossavilla e il protetto del Protonotario. Analizzavano invece l’aspetto del mare, finalmente calmo, segno certo che l’indomani, dopo tre giorni di attesa, le imbarcazioni sarebbero salpate per Messina.
Capitolo 7
Primi giorni di aprile 1186, Faro di Messina, sponda calabra
I soldati del Re si erano sistemati nelle case lasciate temporaneamente libere dagli abitanti del villaggio, i quali, più per paura delle sbronze di quegli uomini che per effettivo senso d’ospitalità, si erano rifugiati nel borgo di Fiumara28, a monte. In particolare, l’alloggio di Roberto era quello offerto dal taverniere.
Il nobile palermitano dovette essere retto fino alla porta, poiché barcollava e rischiava di inciampare lungo la strada accidentata. Quando infine mise piede dentro, una candela era già stata accesa sul tavolo e l’icona della Vergine, inserita in una nicchia sul muro, era illuminata di tutto punto.
«Giordano!» chiamò Roberto, credendo che il figlio lo stesse aspettando.
«Voi!» esclamò poi rabbioso quando vide che all’angolo del letto sedeva qualcuno di inaspettato e sgradito.
«Rimetto il mio collo alla sentenza della vostra spada, ma prima concedetemi un breve momento per spiegarvi ciò che vi sfugge.»
Roberto sfoderò davvero la sua spada, che pose subito al collo di Diamante. Man mano che però lui spingeva la lama in avanti, lei piegava all’indietro il suo corpo, ritrovandosi alla fine distesa sul materasso.
«Non potete aver perso tutta la vostra umanità! Solo il tempo di una candela... vi scongiuro...»
La candela alla quale si riferiva si era consumata quasi del tutto e già bruciava in maniera incostante.
«Non ho mai ucciso una donna... finirete i vostri giorni nelle segrete di una prigione!» minacciò Roberto mentre staccava la spada dal collo di lei.
«Lasciatemi spiegare, vi prego...»
«Il tempo della candela!»
Diamante si alzò e, intanto che lui le dava le spalle, disse:
«Io non c’entro nulla con l’incendio al villaggio, ve lo giuro. Qualcuno pagò i villani e questi organizzarono un modo per fare del male alla Principessa. Ma fu tutto a mia insaputa, credetemi!»
«Spariste insieme ai vostri villani però!»
«Mi portarono via di forza. Lo so... voi pattugliaste l’intera zona, ma ero stata condotta lontano da lì già al principio di quella grande confusione. Ho atteso per mesi che voi ripassaste per la stessa strada, ed invece avete deviato per altri luoghi. E così, quando seppi che eravate ritornato per un’altra via, mi misi in testa di raggiungervi... Ed eccomi qui, davanti a voi, ringraziando Dio e il mare grosso che vi hanno impedito di proseguire, cosicché potessi rincontrarvi.»
«Che cos’erano poche miglia di fronte a questa grande distanza? Perché non siete venuta a Rieti?»
«Voi non mi credete?»
«Come potrei?»
Dunque Diamante si avvicinò, lo costrinse a guardarla e, scoprendosi la coscia e il fianco destro, lo esortò:
«La candela... passate la candela innanzi al mio corpo; o se lo desiderate, accarezzatemi con la mano.»
«Forse credete che poiché sono sbronzo ceda alla vostra seduzione?»
«Nessuna seduzione... solo la pelle deforme di una che è scampata alla morte. Ecco perché non sono venuta quando ve ne stavate a Rieti.»
Roberto passò la mano sul fianco e sulla coscia di Diamante. Quando ebbe sentito la pelle ruvida e cicatrizzata, spalancò gli occhi sgomento.
«Che vi è capitato?»
«Quell’incendio fece un solo ferito... ed io credetti di star morendo davvero. Scesi sull’aia quando mi accorsi del fumo e delle prime fiamme, ma il mio vestito rimase impigliato mentre tornavo ad avvertirvi. Sopraggiunse tuttavia l’incendio e il tessuto prese fuoco. Rimasi in balia delle fiamme finché uno dei villani non mi tirò via nuda e ferita. Ed ora so che provate ribrezzo nel guardarmi; vi prego... preferisco questo, ma non accusatemi di nulla.»
Roberto si ritrovò confuso, incerto su chi avesse davanti. Lo sapeva, l’aveva capito, quella donna era capace di mentire perfino al Diavolo... però era anche vero che i segni della sua innocenza li portava addosso.
«Eravate libera... perché siete venuta a cercarmi?»
«Perché la mia condizione non può dirsi veramente libera. I soldati del papa mi braccano dal giorno in cui voi avete denunciato l’accaduto.»
Roberto non aveva denunciato un bel nulla, per cui rimase sorpreso da quell’affermazione. Non disse comunque niente, curioso di vedere fin dove portasse il discorso.
«Intercedete per me e liberatemi dalle accuse.» richiese infine Diamante.
«Dovrei rinnegare la mia parola?»
«Preferite che io venga giustiziata, piuttosto di dire che vi eravate sbagliato?»
«Fate vedere le vostre ferite pure agli uomini del papa!»
«Ho conosciuto la vostra anima, ed è una anima buona; loro invece non capirebbero. Non mi sarei consegnata a voi se non avessi pensato che vi fosse la possibilità di essere ascoltata e creduta. Rimandate il vostro uomo, lo stesso che inviaste per denunciarmi dinanzi agli uomini del papa, e fate ritrattare lui. Così forse la reputazione della vostra parola non ne uscirà compromessa ed io sarò ugualmente scagionata.»
A questo punto Roberto doveva fare in modo di sapere a chi si riferisse.
«Gli uomini che mi sono stati affidati sono tutti qui; andate voi stessa a parlargli. Voi sapete bene come conquistarvi la gente!»
Diamante turbò la sua espressione e rispose:
«Se dite che vi ho conquistato in qualche modo, allora non potete voltarvi dall’altro lato mentre vi supplico. Comunque sia, sappiate che con voi ho interrotto la mia vedovanza, e che i metodi che mi attribuite sono stati solo un’eccezione per qualcuno che ho giudicato meritevole del mio rispetto.»
«Vi darò del denaro, che offrirete al mio uomo per farlo ritrattare. Ma che costui non metta in mezzo il mio nome! E che sia consapevole del rischio che tutto questo può comportare per lui...»
«E credete che Ermanno di Salerno abbia bisogno di denaro?»
Roberto dovette faticare per nascondere la sua meraviglia. Davvero Ermanno aveva denunciato l’accaduto? Per certo l’aveva fatto per discolparsi, prendendo le distanze dall’episodio del villaggio. Temeva che Roberto parlasse, ecco perché! D’altronde, chi mai avrebbe creduto che fosse complice del misfatto dal momento che era stato lui stesso a denunciarlo?
«Come fate a sapere che inviai proprio lui?»
«Mentre curavo le mie ferite con estremo dolore e collera, mi riportarono che il vostro secondo, Ermanno di Salerno, aveva denunciato il mio nome ai soldati.»
«La discrezione è una dote rara nei giovani cavalieri! Avevo richiesto segretezza, affinché non si spargesse la voce e voi non fuggiste.»
«Dunque gli parlerete?»
Roberto era quando mai dubbioso, confusione aggravata dallo stato di ebbrezza. Accogliendo la richiesta della donna, se Ermanno e Diamante fossero stati veramente complici, ne sarebbero usciti assolti entrambi. Al contrario, se Ermanno aveva denunciato l’accaduto con intenti sinceri e davvero non conosceva Diamante, sarebbe stato Roberto ad essere accusato di complicità con la donna.
«Gli parlerò... ma domani, quando la mia mente sarà più limpida e voi più riposata.»
Diamante fece un passo avanti e l’abbracciò spontaneamente. Il suo seno era morbido e materno come lo era stato nella prima occasione e lui non poté fare a meno di ridestare alla mente il ricordo di quella notte. Ancora una volta subiva il suo fascino. Tuttavia Roberto si era ripromesso davanti a Dio che non sarebbe più finito tra le braccia di nessuno che non fosse sua moglie.
Mentre con lo sguardo indicava il letto, disse:
«Sarete stanca per il lungo viaggio...»
«E voi, Signore?»
«Io ho bisogno che il vino finisca il suo circolo.»
Dunque si sedette sul pavimento e chiuse gli occhi, spegnendo ogni possibile velleità seduttiva di Diamante.
Roberto non avrebbe dormito, non poteva. Doveva necessariamente escogitare un piano affinché la verità salisse a galla. Se Ermanno era responsabile dei fatti del villaggio e complice della donna, l’occasione era ghiotta per metterlo con le spalle al muro. Se Ermanno era sincero, allora non poteva permettere che fosse Diamante a scamparla. Se entrambi erano incolpevoli, doveva necessariamente scongiurare la condanna di un’innocente.
Non era ancora l’alba quando l’uomo più fedele del Re, ora sobrio ma rintronato dal sonno, si alzò con un’idea. Diamante dormiva su un fianco, con le ginocchia piegate e le braccia sotto la testa. A differenza dell’elaborata acconciatura della prima volta, adesso portava una semplice e comoda treccia. Allora Roberto sfoderò la sua spada e staccò le lunghe ciocche intrecciate, facendo attenzione a non svegliarla. Quei capelli biondo ramati erano un segno, ciò che più la contraddistingueva, un feticcio da presentare ad Ermanno affinché si rendesse conto che la donna si trovasse nelle sue mani.
Roberto avrebbe affermato che Diamante era stata catturata a poche miglia da lì e che adesso veniva interrogata sotto tortura per estorcerle i nomi dei mandanti e dei complici. Avrebbe detto che la treccia gli era stata recapitata dai suoi uomini a conferma della cattura della ricercata. Era sicuro che così facendo avrebbe smosso le placide acque in cui navigava Ermanno con sicurezza e arroganza. Se fosse stato colpevole, per certo si sarebbe preoccupato che il suo nome non fosse rivelato e avrebbe agito in qualche maniera; Giordano doveva stargli alle costole e controllare ogni suo movimento. Se d’altro canto Ermanno era innocente, avrebbe fugato ogni dubbio e allontanato da sé la possibilità di una contraccusa.
E Diamante, che ne sarebbe stato di lei? Fece mille ipotesi, ma poi rimandò la scelta a se e quando avrebbe potuto provare definitivamente la sua innocenza. Per certo il futuro della misteriosa donna dipendeva anche dalla reazione di Ermanno.
Roberto afferrò la lunga treccia e si diresse fuori, intento a raggiungere l’odiato rivale.
Il maltempo dei giorni precedenti aveva lasciato spazio ad un cielo sereno e ad una temperatura quasi estiva. Non era sorto ancora il sole, che presto avrebbe fatto capolino dai rilievi dell’Aspromonte, e una barca se ne stava già ormeggiata presso il molo. Roberto diede un colpo d’occhio alle condizioni del mare: leggermente increspato ma sostanzialmente calmo. Poi guardò verso la costa siciliana, e fu adesso, volgendo lo sguardo alle mura di Messina, che la sua attenzione venne catturata da qualcosa che si innalzava proprio in mezzo al mare. Una lunga cinta muraria dall’aspetto evanescente fuoriusciva dalle acque; oltre potevano vedersi quelli che parevano palazzi. Sembrava che un’altra città, più vicina e dalle forme sfocate, si anteponesse a Messina. Roberto non poteva credere a ciò che stava assistendo. La sera prima aveva riso mentre ascoltava i racconti convinti del taverniere, ma adesso quella sorta di maleficio ce l’aveva davanti. Si diresse verso i massi frangionde che proteggevano il molo e vi si inerpicò, protraendo lo sguardo in direzione della città fatata e sporgendosi sul mare. Roberto aveva già smaltito il vino, ma la sbronza e l’insonnia gli avevano causato un gran mal di testa. Mentre se ne stava assorto ed incredulo, mise un piede in fallo e scivolò dai massi. Subito dopo si ritrovò completamente immerso nelle fredde acque del Faro e in balia delle correnti incostanti che caratterizzano quel tratto di mare. Pur se era un buon nuotatore, Roberto annaspava a fatica e senza riuscire a trovare un appiglio. Paralizzato dalla suggestione di quella visione era come se i suoi arti fossero stati immobilizzati da una forza invisibile.
«Capitano!» urlò qualcuno da lontano.
Si trattava di un giovane soldato, incaricato di stare di vedetta. Questi aveva visto Roberto scivolare ma non risollevarsi. Dalla prospettiva da cui costui osservava, essendo in posizione leggermente più bassa rispetto al litorale, era possibile vedere il molo e i massi frangionde, ma non il mare.
«Capitano... Capitano!» gridò ancora mentre veniva correndo.
Era già spuntato il primo spicchio di sole e l’ombra delle case del villaggio si proiettava sul mare. A quell’ora i soldati erano per la maggioranza svegli e qualcuno cominciava ad uscire sulla strada. Sopraggiunsero adesso altri due, avvertiti dalle urla del primo. Sbucò fuori anche Giordano e dopo alcuni secondi Ermanno. Quando furono sul molo, si accorsero che Roberto teneva un solo braccio fuori dall’acqua. Si tuffarono in cinque e con imprevista fatica riuscirono dopo alcuni minuti a tirarlo fuori.
Roberto se ne stava sulla spiaggetta oltre i massi frangionde a boccheggiare supino. Attorno a lui Giordano e gli altri quattro riprendevano fiato.
«Che vi è capitato, Signore?» chiese uno, curioso e preoccupato.
Ci volle però almeno un quarto d’ora prima che potesse dire qualcosa.
Ora se ne stavano tutti sulla spiaggetta, pronti ad ascoltare. Roberto perciò si sollevò sui gomiti e disse:
«L’ho visto... l’ho visto... il palazzo di Morgana. Proprio lì, in mezzo al mare!»
«Non c’è nulla, Signore.» gli fecero notare.
«Era lì, lo giuro! La vedetta... non ha visto nulla la vedetta?»
Si fece avanti la giovane sentinella e rispose:
«Non ho visto nulla, Signore.»
Non poteva certo affermare di non essersi trovato nella posizione più ottimale all’osservazione della costa, direzione dalla quale proveniva la maggior parte dei pericoli.
«Era proprio lì, in mezzo al mare!» ribadì Roberto.
«Avete incontrato la donna, Messere?» chiese il taverniere, curioso e concitato perché la sua parola trovava la conferma di un uomo importante.
«Nessuna donna... solo il palazzo!»
«Padre, è meglio che vi cambiate d’abito, prima che vi si bagnino le ossa.» gli consigliò a bassa voce Giordano, preoccupato soprattutto da ciò che si sarebbe potuto dire su suo padre.
Dunque Roberto si alzò e, reggendosi sulla spalla del figlio, si diresse verso la sua abitazione.
«La vostra spada, padre!» esclamò Giordano, accorgendosi che l’arma non era al suo posto.
«Mi dev’essere caduta mentre cercavo di restare a galla. Ma lascia perdere per ora... Cerca invece una lunga treccia biondo rame; non dovrebbe trovarsi molto distante dal punto in cui mi avete ripescato.»
«Una treccia? Ma di cosa parlate?» domandò Giordano, perplesso e seriamente preoccupato per le condizioni mentali del padre.
«Una treccia di donna, hai capito bene! Ti spiegherò tutto più tardi.»
I due si avviarono nuovamente verso la casa in cui era ospitato Roberto e l’intera folla che si era radunata sulla spiaggetta li seguì. Fu adesso che il comandante della compagnia si voltò e ordinò:
«Requisite qualunque imbarcazione vi capiti; fra un paio d’ore faremo rotta su Messina!»
Dunque ognuno si dileguò determinato ad assolvere il nuovo compito. Solo Ermanno rimase per alcuni minuti ad osservare, incuriosito da quella strana situazione.
Si allontanò per ultimo anche Giordano, intento a ritrovare la lunga treccia biondo rame descritta dal padre.
Roberto invece entrò in casa e con sua grande sorpresa non trovò più Diamante. Il letto aveva perfino le lenzuola ben stirate, come se su quel materasso non ci avesse dormito nessuno. Roberto si guardò attorno confuso, quasi impaurito. Poi si affacciò, e, vedendo il taverniere passare da lì, gli chiese di raggiungerlo.
«Signore, qualcosa non va?»
«Avete rifatto voi il letto?»
«No, mio Signore.»
«Eppure questa è casa vostra.»
«Dormo in taverna da che ve l’ho concessa con piacere.»
«Una donna ha passato la notte su questo letto e poco fa costei era ancora qui.»
«Una donna? Mio Signore... ho ereditato un udito fuori dal comune da mio padre, che a sua volta lo ereditò da suo padre. Su questo lido frequenti sono state le incursioni dei saraceni, e dormire profondamente è un lusso che non possiamo permetterci. Posso elencarvi tutti i movimenti del villaggio che hanno avuto luogo questa notte... Beh, non mi sono accorto di nessuna donna.»
«Ha lasciato questa casa giusto poco fa, mentre me ne stavo alle prese con quel sortilegio in mezzo al mare.»
«Per quell’ora io mi aggiravo proprio qui attorno... Me ne sarei accorto, Signore.»
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