Kitabı oku: «Il fanciullino(1897)», sayfa 4
X.
Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo. Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il niffolo) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello. Ché per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su se stesso, a meno che non si tratti di pazzia. E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.
Così, caro fanciullo, hanno gran torto coloro che attribuiscono, per ciò che tu non vedi se non il buono, qualche merito di bontà a colui che ti ospita. Il quale può essere anche un masnadiero, e aver dentro sé un fanciullo che gli canti le delizie della pace e dell’innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare.
XI.
Il poeta,se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura della città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell’eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini salvatici. I quali, in verità, s’ingentilivano contemplando e ascoltando la loro infanzia.
Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico, in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che poté servire di modello a Socrate, quando preferiva al spettacolo tanto anticipato, ahimè! , d’un’umanità buona, felice, tutta al lavoro e alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi. Gli uomini, al suo tempo, parrebbe che avessero impetrato, ciò che è ancora il desiderio inadempiuto de’ nostri operai, le otto ore di lavoro per ogni otto di sonno e altre otto di svago. – Oh! qualche volta presso lui il contadino aggiunge la notte al giorno! – Sì : ma che dolcezza di lavoro, quella, tra l’uomo che col pennato fa il capo a spiga a suoi rami di pino, che hanno a essere fiaccole, e la donna che o tesse la tela o schiuma il paiolo cantando. E nell’Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; eppure tutto il senso della mirabile epopea è in quel cinguettio mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma!
Ma Omero, ma Virgilio, non lo facevano apposta.
Ma il poeta non deve farlo apposta.
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. È, per usare imagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell’anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali?
Senza accorgersene, se mai.
Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro.
Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma è trascinato; non persuade, ma è persuaso.
Perché pensi alla patria e alla società, bisogna proprio che sia un momento che tutti intorno a lui ci pensino. Se no, è un guaio serio. Quello per la mamma, è il più soave degli affetti. Ma che direste voi d’uno che facesse la cronaca, giorno per giorno, di sua mamma? Stamane s’è levata, cara mamma! Io l’ho guardata, povera mamma! M’ha dato il caffè e latte, povera cara mamma! Costui è un imbecille, quando non è uno che finga e abbia bisogno di darsi l’aria di amare quella che è così facile amare! Oh! la madre è malata, la madre è lontana, la madre è morta! Ecco che allora ci si pensa, alla mamma, e ci si strugge. Oppure la mamma ha una gran consolazione; e noi siamo più che consolati, e ci sentiamo invasi da un impeto di canto.
Così per la patria. Non ci accorgiamo di lei, se non nelle sue feste e nelle sue – nostre! – disgrazie. E allora prorompe anche dal cuore del fanciullo il grido di gioia e il grido di dolore; ed è grido che ha subito mille echi. Ma il bambino non è un bambino che s’impanchi a far lezione quotidiana d’amor patrio o d’amor paterno e materno ai suoi fratellini, e anzi ai suoi zii e nonni. Chi pretende che faccia questo, vuole che il vispo fanciullo sia un vecchio noioso; vuole, insomma, che non esista la poesia. Perché la poesia, costretta a essere poesia sociale, poesia civile, poesia patriottica, intristisce sui libri, avvizzisce nell’aria chiusa della scuola, e finalmente ammala di retorica, e muore. E noi di questa pseudopoesia ne abbiamo tanta, sin da quando, morto Virgilio, invecchiando Orazio, chiusa la grande rivoluzione che cominciò, si può dire, e finì con la morte di due donne, di Giulia e di Cleopatra, la figlia e l’amante di Cesare; ebbene i corvi, quali Pindaro li avrebbe chiamati, si gettarono gracchiando sull’immenso campo di battaglia, per beccare non occhi di uccisi, ma semi di poesia. E che facevano essi? Raccontavano un fatto storico, di quelli ultimi: lo condivano con declamazioni, esclamazioni, maledizioni; e lo mettevano in esametri. Ma anch’essi capivano che non bastano i versi a far poesia: e perciò incorniciavano la loro storia verseggiata e declamata con una descrizione di alba e un’altra di tramonto; e il poema era fatto.
Ecco Giulio Montano. Questi era un poeta come tant’altri. A ogni tratto inseriva albe e tramonti. Pertanto, poiché un tale s’era seccato ch’egli avesse recitato per tutto un giorno, e diceva che non si doveva andare alle sue recite; Natta Pinario esclamò: “O che io posso essere più condiscendente con lui? Io sono pronto a starlo a sentire da un’alba a un tramonto!” Voleva dire, il buon Natta, che la seccaggine sarebbe durata poco, e che dopo due o tre versi esso poteva andare pei fatti suoi. È inutile. Già Orazio ammoniva che non bastavano le descrizioncelle, le digressioncelle, le belle toppe rosse e gialle, per far di prosa poesia. Bisogna che il fatto storico, se vuol divenir poetico, filtri attraverso la maraviglia e l’ingenuità della nostra anima fanciulla, se la conserviamo ancora. Bisogna allontanare il fatto vicino allontanandocene noi. Volete una prova a cui distinguere la poesia dalla pseudopoesia, in siffatto genere storico?
Se la narrazione, che il verseggiatore vi fa, vi commuove meno che la stessa, fatta in prosa, dallo storico e dal cronista, dite pure che il verseggiatore ha tradotto, e male; non ha poetato. E ha perduto il suo tempo e ha fatto perdere a noi il nostro.
XII.
Ma in Italia la pseudopoesia si desidera, si domanda, s’ingiunge. In Italia noi siamo vittime della storia letteraria! Per vero, né in Italia soltanto, mi pare che delle lettere si sia ingenerato un concetto falso. Le lettere sono gli strumenti delle idee, e le idee fanno di sé tanti gruppi che si chiamano scienze. Ma noi, fissati sugli strumenti, abbiamo finalmente dimenticato i fini. Siamo agricoltori che non pensano se non alle vanghe e non parlano se non di aratri, e più delle loro bellurie che delle loro utilità. Delle semente, della terra, dei concimi, non ci curiamo più. Quindi avviene che abbiamo, come fisici, filosofi, storici, matematici, così letterati; modo di dire, come coltivatori di canapa, di viti, di grano e d’ulivi, così periti di vanghe e d’aratri, i quali non s’occupano di altro, e credono che non ci si debba occupar d’altro, e stimano, io vedo, che la loro sia la più nobile delle occupazioni. E almeno li facessero essi, codesti strumenti: no, li “giudicano” e li “collezionano”.
Codest’ozio noi chiamiamo ora critica e storia letteraria. E ognuno può vedere che ci sono cose molto più utili e belle da fare: cioè coltivare e seminare. Ma c’è pure, tra le tante branche della letteratura, la poesia che sta a sé, la poesia che comprende in sé tutto ciò che si dice e scrive per diletto, amaro o dolce, suo o altrui. Questa non è rispetto alle scienze quello che lo strumento rispetto al fine. È una coltivazione, poniamo, anch’essa, ma d’altro ordine e specie. È, poniamo, la coltivazione, affatto nativa, della psiche primordiale e perenne. Ma noi la mettiamo insieme con l’altra letteratura “strumentale”, e ne ragioniamo allo stesso modo. La dividiamo per secoli e scuole, la chiamiamo arcadica, romantica, classica, veristica, naturalistica, idealistica, e via dicendo. Affermiamo che progredisce, che decade, che nasce, che muore, che risorge, che rimuore. In verità la poesia è tal maraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono.
Come mai? Così: l’uomo impara a parlare tanto diverso o tanto meglio, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio; ma comincia con far gli stessi vagiti e guaiti in tutti i tempi e luoghi. La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo da per tutto. E quindi, né c’è poesia arcadica, romantica, classica, né poesia italiana, greca, sanscrita; ma poesia soltanto, soltanto poesia, e…non poesia.
Sì: c’è la contraffazione, la sofisticazione, l’imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi. Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli, e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori. Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi. Eccola in due parole. Un poeta emette un dolce canto. Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finché viene a noia. E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto. E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni. Qualche volta il canto iniziale non è né bello né dolce; e allora peggio che mai! Ma in Italia, e altrove, non stiamo paghi a questo compendio. Ragioniamo e distinguiamo troppo. Quella scuola era migliore, questa peggiore. A quella bisogna tornare, a questa rinunziare.
No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi. Non c’è poesia che la poesia. Quando poi gli intendenti, perché uno fa, ad esempio, una vera poesia su un gregge di pecore, pronunziano che quel vero poeta è un arcade; e perché un altro, in una vera poesia, ingrandisce straordinariamente una parvenza, proclamano che quell’altro vero poeta pecca di secentismo; ecco gl’intendenti scioccheggiano e pedanteggiano nello stesso tempo. Qualunque soggetto può essere contemplato, dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima.
Voi dovete soltanto giudicare (se avete questa mania di giudicare) se furono quelli occhi che videro; e lasciar da parte secento e Arcadia. La poesia non si evolve e involve, non cresce o diminuisce; è una luce o un fuoco che è sempre quella luce e quel fuoco: i quali, quando appariscono, illuminano e scaldano ora come una volta, e in quel modo stesso.
Solamente s’ha a dire che raramente appariscono. Sì: la poesia, detta e scritta, è rara. Proprio rara la poesia pura. Ma c’è la poesia “applicata”. La poesia “applicata” è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi. Ora molto ci corre che questi siano tutta poesia. Immaginate che siano un gran mare, ognuno. Nel mare sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno. Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi, la poesia pura di rado si trova pura. Faccio un esempio. Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:
Era già l’ora che volge il disio
ai naviganti, e intenerisce il core
lo dì ch’han detto ai dolci amici addio;
e che lo nuovo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si muore.
In questa rappresentazione, che di più poetiche non se ne può trovare (Dante ci rappresenta l’ora in cui ridiveniamo per un momento fanciulli!), il tocco più poetico è l’ultimo. È l’ultimo; sebbene la squilla lontana che piange il giorno che muore, sia di quei tocchi che noi verseggiatori abbiamo fatti tornare a noia, a forza di ripeterli. E così quel suono di squilla può essere stinto e fioco per alcuno, assordato da tanti doppi. Ma tant’è. Orbene: il poeta ha dovuto mettere, per la necessità dell’arte, un pochino di lega nel suo oro puro. Quale? Quel “paia”. L’ha dovuto mettere, perché egli racconta un sentimento poetico altrui, sebbene anche di sé. E allora ha detto che la squilla pare piangere, non piange veramente. A un tratto il fanciullo (qui un poco, e molto altrove, molto presso altri), il fanciullo a mezza via si riscuote, e par che si vergogni d’essere fanciullo e di parlar fanciullesco, e si corregge. “Pare, non è, intendiamoci”. Ma caro bimbo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore.