Kitabı oku: «Poesie scelte», sayfa 2
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CANTO TERZO
O giovinette, gioia vereconda
Delle case materne, a cui dovrebbe
Vergin campo d’amori esser la terra,
Quand’io vi veggo rotear ne’ balli,
Di rose e gigli incoronate il crine,
Quand’io v’ascolto ne’ giocondi crocchi
Le memori narrarvi ore del chiostro,
O le speranze del futuro amante,
Non vi sorrido; ma pietà mi stringe
Dolorosa di voi, che imprenderete
La dura via tra poco. Una celeste
Larva è l’amor, che spanderà d’ebbrezza
La vostra notte; ma sull’alba gli occhi
Vi nuoteran, senza saperlo, in pianto.
Deh, se più tarda del desìo vi splende
La visïon delle ridenti nozze,
Deh non v’incresca, o giovinette, il vostro
Vergine asilo e il queto orto materno!
Deh non vi punga di mutar la pace
Di quelle mura col rumor del mondo!
Guai se una volta lacrimaste i tempi
Non redituri! E se di spose e madri
A quel tremendo ministerio eccelso
Dio vi destina, di più forte gente
Fate ricca la terra! Incliti amori
E pietose virtuti al secol novo
Date una volta; e la gentil fortezza
Degli atti vostri avrà corone e canto.
Ma fra quanta di rei turba infelice
(ahi poche e stanche) i verginali capi
Riposerete alla fiorita landa
Voi, coraggiose martiri, venute
La frale ad espïar anima d’Eva!
E tu, mio Genio, pellegrin ti reca
Sul precipite abisso. E quando ascolti
Altre misere incaute approssimarsi,
Alzati e grida col furor negli occhi
D’Edmenegarda il nome. E se la turba
Dall’impeto è travolta, allor dell’ali
Fatti un velo alla fronte, e piangi e prega.
Passan l’ore sull’uom, passano i giorni
Che triste o lieto, irremutabil sempre,
Numera il Sol. Ma le speranze, i sogni,
Gli odii, gli amori, e l’incalzarsi eterno
Delle memorie, e l’avvenir celato,
E i durissimi tedii, e il faticoso
Dibattersi dell’alma, e il trovar pace
Dopo fieri cimenti, ahi tarda e breve
E guerreggiata con orrenda gioia
Da Satàna e dall’uom; questi misteri
Non li numera il tempo. Anni ed istanti
Con pari vol misurano. Nessuno
Quei dell’altro indovina. Han vita e moto
E sepoltura in noi; sin che lo strale
Fischia della suprema ora nell’alto,
Guizza il lampo di Dio sulle tenèbre…
E quell’ambage non è più.
Chi tenta,
Poichè la rea fra le tradite braccia
Tremò, chi tenta penetrar gli abissi
Dell’anima sviata?… Ella sorride;
Chiama, con voce più soave, il nome
De’ suoi figli e d’Arrigo; e in una tinta
Lieve di rosa s’incolora il lungo
Pallor del volto. Più profonda è fatta
La battaglia del cor, che nessun vede,
Ma che improvvisa ad or ad or balena
Da un sospir divorato e da una fredda
Stilla di pianto.
E Arrigo?… Egli si sforza
D’esser lieto, e non può. Ben come un dolce
Fantasma, che talor passa per l’ombre
D’un sogno tormentoso, ei si dipinge
La fè d’Edmenegarda; e l’accarezza
Come il dormente quella bianca imago.
Ma, quasi mesta del notturno gelo,
Fugge la bella forma, e risepolto
Nelle tenèbre il sognator sospira.
«Perchè quest’ombra di sospetto a tergo
M’incalza sempre?… Ma, se rea foss’ella,
Come potrebbe sostener sol uno
De’ baci miei, nè di rossor morirne?
Avria sconvolto le sue leggi eterne
La natura ed il ciel? Come in sì breve
Ora mutar l’angelico costume?
Io demente l’accuso; e chi sa quanto
Ella si strugge, e se de’ miei s’accorse
Dubbi codardi! Io vigilai già troppo,
Nè mai l’aspetto di colui m’apparve,
Nè ombroso un gesto, un moto io mai non vidi
D’Edmenegarda mia, di quella mite
Anima che talor si fea tremante
D’un mover lieve di notturna foglia,
D’un fior che le cadesse. Oh questa è colpa,
È colpa in me, ch’io vo’ punir.»
Siffatti
Son d’Arrigo i pensieri. E cerca ovunque
Disvïarne la mente. Ecco; alla sua
Leggiadra donna d’abbellirsi a festa
Amabilmente impera.»
– «Il gaio mondo
Vola a’ teatri. Edmenegarda, altero
Fammi di te, tra tutte quante bella!
Sentirai la virtù delle immortali
Melodie di Rossini in bocca a questo
Angelo ispano! Tutt’Europa ai canti
Della Garcìa sospira.» —
Allegra accolse
E timida l’invito. Eran più giorni
Che nol vedeva, consigliero a entrambi
Il prudente timor. Forse tra’ mille
Ritrovato coi destri occhi amorosi
Quella sera l’avria.
Quanta vaghezza
D’abiti e forme! e che tesor si spande
Di profumi e di luce, e che diffusa
E terribile e mesta onda di note
Per la bella Fenice!
Inni di gloria,
Canti d’amor, selvagge ire dal petto
Fulmina Otello, e solitario cade
Di Desdemona il pianto, e sotto i salci
Freme l’arpa divina.
Oh! chi non arde,
Chi non gela a le lunghe e disperate
Note d’amor, di gelosia, di morte?
Suonano le commosse aure di grida;
Palpita Arrigo; ed ella, in quei tumulti
Soffocando il terror, giù nella folla
Furtivamente il suo Leoni affisa,
Che, chiuso in altre voluttà, non plaude,
Ma profondo sospira.
I canti estremi
Lacerarono Arrigo; e quando Otello
Con le sue mani furïose estinse
Desdemona infelice, inorridito
Pianse l’inglese e ricercò sul volto
D’Edmenegarda una pietà segreta…
Ed ella?… Indarno la chiedea dal cielo!
Da molti giorni era composto in pace
Il cor d’Arrigo; e carezzava i figli
Festevolmente, e sulle sue ginocchia
Se li togliea, facendoli amorosi
Messaggieri di baci alla lor madre.
E alfin, quel dubbio ad espïar, risolse
Per qualche dì, con dilicato affetto,
D’abbandonar la sua dolce compagna
E le venete spiagge; anche a rapirsi
Da quei duri pensieri.
A voi più volte,
O frïulane valli, inebrïato
Tornava Arrigo col desio; che un’orma
In voi trovar della natal sua terra
Gli parea sempre; e il vostro aere cortese
Gli custodiva il più soave arcano
Degli anni suoi; però che sulle sponde
Del Tagliamento un dì vide una mesta
Giovinetta vagar pensosamente,
Al mite raggio delle prime stelle
E ai fioretti del margo acconsentendo
Qualche sospiro; e dimandò chi fosse;
E più d’ogni altro gli fu caro il nome
D’Edmenegarda. E ancora una vaghezza
Lo pungea di mirar quelle divelte
Torri, che la solinga edera allaccia.
Campo una volta a baronal fortuna,
Or son nicchia notturna alle selvagge
Volpi, e per gli atrî, ove suonâr le spade,
Passa a staccar qualche frantume il vento,
Mentre in alto la bruna aquila ondeggia,
E il fulmineo serrando arco dell’ale,
Precipita alla preda. A quei castelli
Lambe le falde impäurito e passa
Il vïandante, e i colpi della scure
Sull’erma balza il legnaiuol sospende
Ad or ad or: chè dentro alla solinga
Magion de’ Savorgnani ode un feroce
Ballo di morte, e lungo quelle sale
Vede traverso i colorati vetri
Passar rossi fantasimi, agitanti
Fiaccole e spade.
Anche il pensier d’Arrigo
Dietro quelle sognate ombre correa.
Poi riposando a fantasie gentili,
Rammentava, o gagliarda Utino, l’opre
Del tuo Giovanni, che attingea dai labbri
Del divin Raffaello il benedetto
Soffio dell’arte che d’amor si pasce,
E cielo e terra, innamorando, crea.
E del merlato Spilimbergo intorno
Udìa sull’aura reverente i nomi
Del Vecellio e d’Irene, ambo immortali.
E là trovar tra i memori oliveti
Già gli parea la giovenil sua vita,
E di là, le marine onde solcando
Pregustava nel cor la inaspettata
Voluttà dei ritorni.
E così volle,
E a la sua cara ne parlò. Sostenne
Edmenegarda, tra la gioia e il pianto,
Quella battaglia: e ch’ei si rimanesse
Tremava; eppur lo scongiurò di starsi;
E gioì del rifiuto; e insiem rimorso
Di quel gaudio sentì.
Misera! il fato
Già ti chiuse ogni via, tranne quell’una
Che d’abisso in abisso ti sprofonda.
Povera foglia alla bufera in preda!
«– Dunque tu parti!… Anche per me saluta,
Arrigo mio, quei colli, e le dilette
Rive del Tagliamento, e quei beati
Campi! ma lungo il tuo restar non sia!» —
E di vera tristezza eran parole.
– «Noi ci vedremo in pochi dì. Scrivetemi,
Edmenegarda!»
«Arrigo mio, m’è nuovo
Questo tuo far. Perché nell’abbracciarmi
Non mi chiami del tu? Tetra una nube
Ti sta sul volto, nè stanotte il sonno
Ti consolò. Che hai?»
«Nulla, mia cara.
Prendi cura di te, pensami e scrivi.
Addio, fanciulli!» —
Al sen tutti li strinse
E si partìa. Ma la rinata spina
Laceravagli il cor. S’era ingannato?…
O quella notte Edmenegarda in sogno
Proferse un nome?… E ancor, per quelle sale
Passando, acuto un brivido lo colse.
«Quanto son vile! Non è ver. Sì, vile…
Sì, demente son io.»
Ma, ad ogni passo
Verso la ripa, una gelata mano
Sentia calar sul divampante petto,
A respingerlo addietro. Egli räuna
Ogni sua forza, quell’incubo orrendo
Per debellar. Nè vinta era la pugna.
«Tornarmen’io?… Pormi in agguato?… All’arti
Del sospetto discendere?… Follia!
Ma inumano è lo strazio. E in un dì solo
Io quest’inferno dissipar potrei.
Tanto è ch’io peno! E in un sol dì la vita
Potrei mutarmi in paradiso eterno!»
Lieve una piuma a traboccar bastava
Quella bilancia, e non tardò la sorte
A gittarvela su.
Già il piè d’Arrigo
Monta la prora; già la corda è sciolta;
Ei volse il capo… e fu per caso; e sopra
La man passovvi; e vide… e non s’illuse…
Vide colui, che con pupille ardenti
Lunge, in agguato, a contemplar lo stava.
Leoni sparve. Arrigo si raccolse
Un istante: ha risolto. A terra scese;
La via rifece; per ignota parte
Entrò; salì non visto: in una stanza
Orba di lume si celò; la fronte,
Quasi per molto faticar, gli cadde
Sull’ansio petto; e un’onda di pensieri
Lunghi ostinati gli muggìa d’intorno.
Immenso amor, vergogna, ira, sospetti,
E terrori e speranze, eran commiste
Quasi in un vario e vorticoso nembo
Di tenèbra e di luce; e dentro a quella
Tempestosa meteora – spïando —
Stava l’inglese all’infernal tortura
Ogni piè, che sonasse alle sue scale,
Gli era un colpo nel petto; ogni persona
Che arrivasse, una morte. E in pochi istanti
Ore ed ore passarono. Arrossiva
Già di sé l’infelice… allor che un’ombra
Rapida intese. Ei trema; la pedata
Si ferma all’uscio; e l’uscio s’apre; ei guarda,
Misero! guarda; e vede un’ombra… un uomo…
Vede Leoni trapassar!
Le fibre,
Le vene, l’ossa gli divampan tutte.
Ma sbarrata e di vetro è la pupilla;
Cadaverico il volto; e sol la vita
Da un tremor lieve delle labbra appare.
Inchiodato così stette un istante
Indi sorrise; e due gelate stille
Dagli occhi morti gli colar sul petto.
Stette ancora un istante. Alfin si mosse
Quel pallido fantasma; ad ineguali
Passi arrivò sulla tradita soglia;
E l’aperse – e li vide – e d’uno sguardo
Li fulminò. – Poi chiuse.
Annichiliti,
Trascolorati, come fredde pietre
Restäro entrambi. Edmenegarda tenta
Trar dalla gola un solo accento; è indarno.
E, a forza sollevando la convulsa
Testa, gli accenna di partir. Leoni
La man ghiacciata le serrò.
«Congiunti,
Donna, per sempre!…»
E a proseguir non valse:
E, sovra il gel delle livide labbra
Non baciato baciandola, col capo
Vertiginoso, a strascico le membra
Disviluppando, di colà si tolse.
Arrigo il vide ripassar. Fu un punto,
Ch’ei non pose sovr’esso l’omicida
Mano a strozzarlo. Ma, serrati i denti
E incrociate le braccia, ei si contenne.
E quando il seppe dileguato, un cupo
Urlo mandò qual di ferito tigre;
E sull’infame limitar, di nuovo
Ritto, immobile, apparve.
La tapina
Nol vide già: chè le cadea la fronte,
Quasi con peso d’agonia, sul petto.
Ma pur – senza vederlo – a sè davanti
Lo sentia, lo sentia, muto e tremendo.
E si sforzò di sollevar le braccia,
E congiunte le palme, senza pianto,
Senza parola, verso lui le stese.
«Non pregate, o signora. Ospite io v’ebbi
Sett’anni; or basta. Ad altre mense, ad altri
Talami andrete.»
Uscir quelle parole
Fulgoreggiando. Traboccò riversa
Edmenegarda, e una schiumosa riga
Mista di sangue sui guanciali apparve.
Un urto!… un urto ancora… e a terminarla
Sarìa bastato.
Ma il Signor non volle!
CANTO QUARTO
Vedesti mai della Città fatata
Sulle sponde amorose, ove s’innalza
Perpetuo il canto tra l’oceano e il Sole,
Vedesti mai le lucide sembianze
D’un’angelica forma ir diffondendo
Fascini arcani, e dietro lei confusi
Mille cuori agitarsi, e in rapimento
Scintillar mille sguardi, a cui dinanzi
Ella verrà nei sorridenti sogni?
Mai non vedesti una leggiadra donna
Col suo dolce compagno irsene altera,
E preceduta da due biondi figli,
Qual da una coppia di nascenti rose?
E non ti parver quelle anime amiche
Irradïate da un medesmo affetto
Quattro corde sonanti e risonanti
Sotto il ciel che le ascolta e s’innamora?
Qual core è mai che non esulti a queste
Melodie, che morir su le perdute
Soglie del paradiso, e a far men triste
La fulminata razza, un giorno ancora
Sotto le dita dell’Amor son vive?
Le sollecite madri alle fanciulle
Quella donna additavano, esclamando:
– Beate voi, se avrete una, sol una
Parte dei giorni avventurati! —
Oh certo,
Senza molto indagar, tu la vedesti
La invidïata crëatura amante
O nel rumor d’un ballo avvilupparsi,
O star composta ad una sacra pompa,
O lungo il mare vagolar solinga;
Tu la vedesti; e la più cara stella
Del felice Adriatico ti parve.
Or leva gli occhi all’ultima finestra
Di quel palagio, a cui lambe la luce
Le fondamenta brune, e, digradando
Via digradando, sul canal si perde.
Quel palagio il conosci? – È di Leoni. —
Conosci or tu quella femminea forma
Col crin dimesso, con le mani scarne,
Con la febbre nel cor, con le pupille
Macchinalmente immobili sull’acque?
Ahi! come poco ella ti par diversa
Dalla gelida pietra a cui s’appoggia!
Sol l’ignominia d’un ripudio puote
L’umano aspetto tramutar cotanto.
Invan tu cerchi nella tua memoria
Di quella donna indizio. E se una traccia
Lontan, lontano al tuo pensier balena,
È un lieve sogno qual di cosa morta
Da lunghissimo tempo, a cui tornando,
L’anima tenta di rifarne intera
La somiglianza – e più e più s’attrista.
Or, l’hai trovata?…
Quel crollar del capo,
Quel doloroso tuo lungo sospiro
Mi rispondon che sì.
– Quanta pietade
Sentirà dell’afflitta anima il mondo! —
Oh nol pensar!
Questo rettile abbietto
Non ha voci per piangere. Egli manda
Sull’infelice il suo grido di scherno,
E lo dispera col livor dei morsi,
E nell’ora del mal fischia di gioia.
Così, quando scoppiò l’orrido nembo
Sul fragil capo alla reietta, i labbri
Verecondi di mille, a cui non note
Son le vie del peccato, amaramente
Fecero il ghigno; e da quei labbri il nome
D’Edmenegarda si gittò nei crocchi,
Senza vergogna; e fu divelto a brani
Con maligna pietà dalle opulente
Peccatrici, che menano a trionfo
La tolleranza del codardo sposo.
E se qualche pudica anima ai casi
Sospirò miserata, ebbe il dileggio;
E fin si diede a quel gentil compianto,
Con demente rigor, la scellerata
Nominanza di colpa!
Ed or che il nappo
Ella finì sino alla feccia, il mondo,
Pietoso o stanco, l’obliò!…
– Che importa,
Se precipita un’alma e senza madre
Gemon due figli e pesa il vitupero
Dove rise la gioia? Ordine è questo
Di natura e dei fati! —
Or esce appena
Qualche rea celia, a ricordar la nuova
Ospite di Leoni.
Egli da canto
Caramente le siede:
«– Alza la fronte,
Ti consola, amor mio! Su quel feroce
Si scagliarono tutti. E se anco l’ira
Ti ferisse de’ tristi, io la divido
Con te, dolce amor mio! Tu la mia vita,
Tu la mia gioia; tu di me possiedi
Il giocondo avvenir. Come esser puote
Se non giocondo?… Che ci cal di questa
Così ampia terra? Anco in angusto asilo
Amor compone il paradiso!… Io tanto
T’amerò e tanto, che potrai, (lo spero!)
Dimenticare il doloroso sogno
Del tuo passato!…»
«Oh! mio Leoni…»
«Arresta —
Non turbarti, non piangere!… E se d’uopo
N’hai veramente, non badarmi; e piega
Qui la tua testa, poveretta, e piangi!…
Merto ben io che mi trafigga il dardo
De’ tuoi dolori!!» —
Edmenegarda il capo
Riscosse alquanto, e con più lunga stretta
Serrò Leoni tra le braccia:
– «Amico!…
Vedi se i giorni del patir son giunti!…
Io tel diceva!… Ma tu sempre meco
Resterai, non è ver?… Tu questa mia
Misera vita non vorrai coperta
Di più dure vergogne. Io farò forza
Per oblïar; per non ti dar mai segno
Che ti contristi!… Ma se tu mi vedi
Sospirar qualche volta… oh! non dolerti,
Te ne prego a man giunte… Io già non penso
Che a’ miei poveri figli!…»
«Angelo amato!
Perchè dirmi così?… Pria che una sola
Lieve pena costarti, io mille volte
Vorrei morir!… Ma tu… mi amerai sempre?»
«– Sin che il cor batterà. Deh così presto
Questa febbre mortal non mi consumi!»
«– Sei ben crudele, Edmenegarda!»
«Oh ridi,
Leoni mio. Ma… così piena ho l’alma
Di tanti sogni! Ed un di loro è bello;
E mi par che s’avveri; e già lo sento
Nell’esser teco!»
«E lo sarai, diletta
Compagna mia, nel dì dell’allegrezza,
Lo sarai nel dolor!…»
«Taci! Assopite
Reminiscenze tu nel cor mi desti.
Non sono ancor molto lontani i tempi,
Ch’ei così mi parlava!…»
«Or via, se m’ami,
Tu dèi lo spirto allontanar da queste
Sconsolate memorie. Odi la brezza
Che via pei flutti vagolando spira?…
Vieni a goderla.»
«Il tuo voler m’è caro,
Caro più d’ogni ben che un dì mi avesse
Potuto dar la terra!» —
E lungamente
Favellaron coi baci, entro la bruna
Lor navicella errando.
In quella sera
Fu giocondo spettacolo a vedersi
Agili gondolette, una sull’altra
Scivolanti alla corsa, e un muover chiuso,
Come di campo, e un dar vario ne’ remi,
E un urtar nelle prue con meditata
Frode leggiadra, e poi tutte svagarsi,
Come nere isolette, in seno all’acque,
E seguitarle de’ nocchieri il canto.
Ma in quella gaia compagnia, la loro
Gondoletta non venne. E tu la miri
Colaggiù, solitaria, in lontananza,
Abbandonarsi alla balìa del vento,
Come svïato pellegrin che pianga
Per lo deserto.
In quelle cento prore
L’aperta gioia sfolgorò. Qui siede
Il dolor e l’amor, fiori di tempra
Passionata e gentil, che cercan sempre
Gioie romite.
E quando quella turba
Di navicelle, dai percossi flutti,
Una ad una, scomparvero, a misura
Che il ciel più sempre si vestìa di stelle,
Quel remoto battel venne alla riva.
I languidi occhi Edmenegarda spinse
Dietro la folla che dai curvi ponti
Diradata calando, iva in dileguo.
E sgombero di genti era già il lido…
Se togli un uom, che si tenea per mano
Due fanciulletti, con le fronti chine
E vestiti a gramaglia.
Ahi, che parola
Di tremendi dolori, indossar lutto
Di persona vivente!!
Ella conobbe
L’anime offese, e serpeggiar la morte
Sentì nel cor; ma si contenne. E volti
Gli occhi sul mare, al suo tacito amico:
«Come è bello, dicea, questo lucente
Solco, che sotto all’agitar dei remi,
Qual per magica verga, esce dall’acque!»
Così volaro i tempi. E le congiunte
Anime solitarie, come due
Rondini amanti che fuggir dal falco,
Guardavano il lor nido, allontanate
Dalla guerra del mondo.
Edmenegarda,
Dopo lagrime lunghe, e procellose
Preci, e torbide gioie, e rivocati
Proponimenti, e divorar con fiero
Sforzo quell’onda di martìri, e pace
Dimandar dalla morte, e sul futuro
Spinger ratto la mente e poi ritrarla
Impäurita, e desïar che tutte
Precipitasser le create cose,
E due spiriti soli issero erranti
Sulle vaste ruine… alfin quetossi
La desolata e stanca in quel fallace
Sonno d’amore.
O Amor! come trasmodi
Nostra natura, e dentro v’intenèbri
La scintilla di Dio.
Velo d’inganni
Tesse prima il rimorso; e il cor s’avvede,
Ma, pago d’ingannarsi, il cor non bada;
O se vi bada, di badarvi ha sdegno;
E, poco a poco, il misero costume
Rende l’inganno a verità simìle.
Come fu? Come avvenne?… Indarno il chiedi.
Stanco s’addorme il bambinel tra i fiori,
E si risveglia col velen nell’ossa.
E così fu di lei, buona già tanto!
Credette pria; poi dubitò; poi disse:
«Non è ver, non è ver! – Qual fede io ruppi?
Su quale altare io lo giurai? Qual Dio
Presiedette al mio giuro? Esser non puote
Che un monarca sì grande oda ogni vano
Bisbigliar de’ mortali. Un re sì giusto
Esser non può che a servitù condanni
Questo fuoco d’amor, che da lui parte
Libero tanto ed è movenza e luce
Del suo creato! L’avvenir?… Chi ‘l vede?
Chi può giurar sull’avvenir?… Chi giura
S’ei domani vivrà? Se questo sole
Splenderà sulla terra? Ama la tigre
Il suo compagno; ma se amor la volge
Naturalmente ad altre gioie, è stolto
Chi ne la incolpa. E l’uom misero ardisce
Emendar la natura? Ama il selvaggio
La donna sua; ma talamo è la rupe,
Talamo il lido ai non vietati amplessi,
Che fan forte l’amore. E senza lacci
Sono i turbini e l’onde. E chi le doma
Starà sempre in catene?… Oh è ben scaduta
Questa di belve incivilita plebe!»
Lette in infauste pagine, e dai labbri
Del suo Leoni mille volte udite,
Tai cose ed altre a sé dicea la donna.
Non qual chi pensa in sicurezza il vero,
Ma qual chi tenta, con la mente ardita,
Suadere al cor che ogni paura è tolta.
E non sapea che quell’incerto moto,
Quel senso vago, quella nube arcana,
Che le errava sull’alma, era il più grande
De’ mortali spaventi, era l’occulto
Sentimento di Dio.
Fu di Leoni
Così cortese, delicato, intenso,
Previdente l’amor, che al caro volto
Rifioriron le rose, e un novo raggio
Vestì gli occhi diletti; e le rivenne
Desiderio dei fior.
Furono in breve
Quelle stanze un profumo, una celeste
Musica di colori, un inusato
Tesor di pompe. E qua serici drappi
E lucenti ottomane, e sulla terra
Morbide pelli a render muto il passo;
E sulle mura le dipinte imprese
Di dame e cavalieri; e di Gulnara
Sulle ginocchia del Corsaro il pianto,
E il bel crociato che in un roseo nembo
All’amoroso susurrar dei rivi
Bacia i grandi e lascivi occhi d’Armida;
E pendule dall’alto a mezzaluna
Lampade vaghe a illuminar le mense,
E argentei vasi, e d’alabastro e d’oro
Splendide conche, e bei volumi e fiori
Sparsi, confusi, ondoleggianti… e un molle
Aere indistinto, una fragranza intorno,
Un’armonia da rinnovar l’Eliso.
Fra tanti vaghi e graziosi aspetti
Ella felice si credea. Ma sempre
Quella nube fuggevole, quel moto
Misterioso, che la fea per forza,
Tornar crucciata sui passati tempi.
Indi l’acre piacer dell’adornarsi
Le rïassalse il cor.
Donna, per quanto
Scaduta sia dalla sua bella altezza,
Anco nell’onda di cocenti affetti,
Serba sempre un amor per la sua veste.
Fors’è quel senso di pudico orgoglio,
Che le insegna onorar la più gentile
Delle create cose.
Il desir novo
Indovinò Leoni; e benedette
Fur le ricchezze dal felice amante.
E ondosi drappi e gonne agili e bianche,
Come piuma di cigno, e argentei veli
E malinesi e batavi trapunti,
E lane arabe e perse, e nastri e gemme,
A ornar le trecce d’ebano e i nitenti
Omeri e il collo e le nudate braccia,
Tutto, qual per incanto, a sé davanti
Vide la bella fata; e il cor di donna
Con precipiti palpiti battea.
Ma non molto durò; chè come piombo
Le pesâr quelle vesti, e interrogarne
Il perchè non ardiva.
Una rancura
Vigile sempre nel profondo petto
La tormentava, la scotea dall’ebro
Assopimento: le dicea:
– Tu dormi,
Ma teco io sono!
Edmenegarda fece
Per non udir quell’importuno grido.
Ma, qual punta di dardo in piaga viva,
Ei riveniva.
Disperata pianse,
Meditò, corrucciossi, e forza a forza
Apertamente oppose.
– «Hai ben ragione,
Leoni mio. Noiosa è questa vita
Di servitù, chiusi dall’onde. Io stessa,
Che vivrei teco ne’ deserti, or sento
Che dritto n’hai, se la disami. Eguali
Qui gli strepiti, sempre egual la pace;
Gondole eterne e gondolieri e ciance.
Mai quell’ampio e vibrato aere, quel sole
Che non si franga dalle pietre in fiamma;
Mai quel vario veder, quell’agitato
Scalpitio de’ cavalli e quel de’ campi
Dolce tumulto; mai quelle segrete
Melodie che fa l’ôra in tra le fronde;
Né un fil d’erba, né un fior, né una dolce ombra,
Che queti il cuore! E non poter da un cocchio
Splender coll’uom che s’ama; o sulla sponda
Seder d’un rivo e udir per la pianura
Limpidi canti, e nella folta siepe
Il rosignol che piange! In mezzo all’acque
Morrebbe certo l’amator gentile!…
Oh la terra! la terra!… Ai primi padri
Già non fur le pesanti onde marine
Prima stanza d’amore!»
«E non tel dissi,
Edmenegarda mia, che ti verrebbe
Questo vivere a noia? Esserti caro
Quel che a me spiace?… Hai detto ben. La terra,
La terra è stanza dell’amor; non questa
Prigion dell’onde. Cresce, nel sonante
Tumultuar, la vita. A questo pigro
Nido di pesci abbandoniam le stolte
Anime di costor. La non curanza
Con lo spregio si paghi. Edmenegarda!…
Alla terra, alla terra!
«O mio Leoni,
Mi batte il cor di questa ebbrezza!… » —
Han d’uopo
Quei due miseri ormai del tempestoso
Romoreggiar del mondo!
E un agil cocchio,
Tratto in balìa di palafreni ardenti,
Per le città, tra il sonito e la polve,
Già li rapisce; e invidiata splende
La bellissima donna. E or le vetuste
Vie d’Antenore varca; e tu la miri
Seder superba e sfolgorante in quelle
Marmoree maraviglie, onde ai futuri
Inclito andrà del mio Japelli il nome.
Or su i berici colli, in mezzo a tanta
Allegrezza di verde, alle rugiade
Mescon dell’alba i solitari amplessi;
Or volano al beato Adige in riva,
E tra i penduli salci, ove s’estinse
L’armonia di Catullo, un molle accordo
Par che ai lor baci tuttavia risponda.
Poi de’ piani lombardi e delle valli
Cercarono il sereno aere, e la ricca
Popolosa città.
Ma il gelsomino
Sotto i vampi del sol, senza una fresca
Ala di vento che lo irrori, a terra
Debbe un giorno languir!
Sai tu le gioie
Amare e forti della bella figlia
Del Caramano, nei dipinti arémi?…
Oggi il fervido sir preme sul petto;
Pensieroso diman vede il monarca,
E sente il peso delle sue catene.
Un dì, regno sull’alma. Indi è procella
Di tetro amor – di voluttà – di sdegno —
Di fastidio – d’oblio – di rinascenti
Gioie – con vano ritornar sui tempi
Che più non sono.
Di Leoni è fatto
Nebbioso il cor. Qualche benigno accento,
Qualche cura gentil, qualche soave
Sorriso vi splendea, come una queta
Ma fuggitiva luce. Il resto è lampo,
Che vien coll’oragano a illuminarne
Gli schianti e la ruina.
O Edmenegarda,
Che cor fu il tuo – quell’amator sì umano
E caldo e mansueto or lo veggendo
Così diverso!
Gli favella?… È un dono
Inaspettato, s’ei la man le stringe,
O sorridendo le ricambia il detto. —
Gli si pone d’appresso? Ei sfoglia un libro
Sbadatamente e legge. Osa mostrargli
Qualche rancor? S’infuria; e le fa pieni
Gli occhi di pianto. Allor, come accorato,
La vien baciando; e un vivo sol repente
Le si spande nel volto, e muta in perle
Quelle rugiade del dolor.
Ma il crudo
Velen della memoria ogni conforto
D’amarezza le tinge; e più non sente
Edmenegarda, come pria, quei caldi
Impeti passionati, e l’indiviso
Nuvol dell’alma le si fa più tetro.
Aridi i fior, l’aria pesante, ingrato,
Dispettoso il tumulto, aspra la vista
Delle cose e dell’uom, torbidi i giorni,
Trangosciate le notti… e il suo compagno
Non curarsi e tacer! Questa è la spina
Più sanguinosa.
Il forvïato tralcio
Trova un olmo, e s’appoggia. Ahi! se quell’olmo
Stanco sarà di sostenerlo!…
«Oh Arrigo!…
Oh miei poveri figli! Oh mia perduta
Casa! Oh speranze della vita infrante!»
E profondo gemea. Ma nella voce
Del suo Leoni un refrigerio ancora
Sapea trovar.
Necessità od affetto,
Gli era avvinta e bastava. Anzi, in quell’alma,
Necessità ed affetto, onta e rimorso,
Pentimento e peccato era una cosa.
«Ahi, son fiere amarezze! Ecco il fedele
Prometter suo! sola mi lascia. E quando
Alta è la notte, io pallido mel veggio
Comparir, non so donde. E fa risposta
Alle parole mie con disdegnosi
Gesti, o muti sospiri, o vïolento
Suon di dolcezza… e d’ingannarmi ei crede.
Mio Dio! quanto mutato! Oh s’io sapessi
Quel ch’ei cela nel cor! Gli tedian forse
Queste rive del Garda?… O ch’io gli costo
Qualche grave pensier?…»
Sì fatte cose
Tra sé volgendo, abbandonò le stanze,
Nel giardin si recò.
Pallidamente
In grembo alle argentate acque del lago
Lucea la luna. Era diffuso il cielo.
Placida l’ôra si movea tra i rami;
E d’un novo color, sotto le stelle,
Si vestivano i fiori. Entro un cespuglio
La gentil capinera innamorata
Modulava le sue dolci canzoni.
Or sì or no, tra il folto delle piante,
Qualche lucciola intorno iva raggiando.
E vivo e terso, come argentea zona,
Mettendo un soffio di sottil frescura,
Luccicava tra l’erbe un fiumicello.
E, a compir quella pace, il caro e mesto
Suon della sera si spandea dagli alti
Campanili del Sirmio; e in una sola
Armonia fervorosa, a mille a mille,
Salir limpide voci; e cielo e terra
Pareano intesi a quel sublime accento:
«Santa Madre di Dio, prega per noi!»
Sola, non vista, in un segreto calle
Di quel giardino, la colpevol donna,
Compreso il cor d’un subito ribrezzo,
Incurvò le ginocchia, e, giunte in croce
Le ceree mani, sovra cui profuse
Giù cadevan le lagrime del volto,
Lungamente pregò.
Furon parole
Rotte, confuse, inebrïate, amare;
Furon moti e singulti.
Alfin la prece
Le uscì lucida e calda. Era pei figli
E insegnata dal core:
«O santa Madre
Dei dolorosi, non a me guardate,
Non a me, così rea! Ma i tribolati,
Ma gli innocenti, gli orfani son vostri!
Per le piaghe di Lui, che vi amò tanto,
Proteggeteli sempre. E se una volta
Sapran di me, che li lasciai nel mondo
Sì crudelmente, oh! fateli benigni
A questa loro travïata e trista,
Che aspetta pace dalla morte.»
E china
Ad un salcio la fronte e sotto i raggi
Mesti del ciel, pareva un decaduto
Spirito che pensasse al paradiso,
Quando più pesa la crudel memoria
Del commesso peccato.
Un’orma suona —
Si disperde – s’approssima – s’aggira
Pei torti calli – si raccosta – È lui.
– «Ma che fate voi là, stesa sull’erbe
Umide della notte?… Or via; sorgete.
Quel non è loco da pregar. Dimani
Torneremo a Venezia. Avrete cento
E mille chiese eternamente aperte,
Per stancar questo Dio.»
«Taci, Leoni…
Ma che ti feci io mai?… Forse gioisci
Di vedermi tremar?… Dillo una volta;
Che ti turba così?…»
«Nulla.» —
Da un cespo
Ella colse due gigli; ed un lo pose
Con umil vezzo al suo Leoni in petto.
Ma quei senza badar, foglia per foglia,
Lo stracciò con le labbra; e il nudo stelo
Lasciò cadersi, sospirando. Anch’essa,
A quella vista, il suo bel fior distrusse,
Con riboccante d’amarezza il seno,
E nessun più parlò.
Che lungo sogno
Quella notte la assalse!
In pria, da lunge,
Come in vaghi ricordi, una dimora
Nota le apparve, e due giovani amanti
E due vispi fanciulli avvicendarsi
Baci e carezze di celeste affetto.
Indi una barca, uno smaniglio infranto.
E colpevoli fremiti e fulminee
Voci dai labbri d’un fantasma uscite.
Poi mutò quella scena. E patimenti
Lunghi intravide, e care cortesie,
E ritorni alla vita, e ricambiati
Baci d’amor; ma tra quei baci un ghigno
Che le scagliava senza posa il mondo.
E ancor novi fantasmi. E il fragoroso
Suonar d’un cocchio; e nell’obliqua fuga
Città, ville, castella e colli e monti
E pianure e torrenti. Alto un tripudio
Di cacce e prandi; libera una pompa
Alle danze, alle corse; e in quella vita,
Che parea venturosa, il verme arcano
A corroderla sempre. Uno spavento
Fea trabalzar sulle agitate piume
La sognatrice; ma durava il sogno,
Che del futuro le squarciò il velame.
E sotto al raggio d’un fanal notturno,
Cinto di bari, in una cava oscura,
Scoperse un uomo (e le parea Leoni)
Gittar convulso l’ultima moneta
Sopra una carta; e stringere le pugna,
Bianco dall’ira; e bestemmiar la sorte
E giurar contro Dio.
Mise ella un grido,
Ma non seppe destarsi. E quella stanza
Maledetta fuggìa. Ma un’ampia landa
Le si pose davanti; e misurarla
Vedea quell’uomo a giganteschi passi,
E lunge lunge, oltre i morenti lembi,
Onde si distendeano, onde ed altre onde,
Senza riposo. E una raminga prora,
Come penna di corvo entro alle nebbie,
In quelle vaporose indefinite
Lontananze del mar si disperdea.
Trambasciata, sudante, ella si scosse.
Aperse gli occhi, le rivenne il senso;
Sul cor tremante delle viste cose
Ne passaron mill’altre; un gel la strinse;
E disperatamente, tra le coltri
Chiusa la testa, più pensier non ebbe.
Taciti e soli, sul venir dell’alba,
Mosser dai campi alle natie lagune.
Rifecer quelle vie senza parola;
Risolcaron quell’acque.
Egual rimasta
Era la terra. Eguale il mar. Partiti
Eran col riso dell’april; col riso
Dell’april ritornavano. Ma il core?
Ah! sui campi del core a disertarli
Era passato il vento della morte.
Quel riveder, risalutar gli alberghi
Consci di tante voluttà segrete,
Ben fu com’aura, che vagasse intorno,
Cercando i fiori dell’eliso antico.
Ma non trovò che nude alighe e pruni,
E dileguò, gemendo.
Alfin dei tempi
Destinati da Dio l’ora è suonata.
Leoni ha risoluto. Aspre le pugne,
Fieri i tumulti, amaramente mista
La vergogna al dolor, morto il passato,
L’avvenir senza speme, e messi in fondo
Il nome e la fortuna, ha risoluto.
Strascinerà vituperato i giorni,
Sotto altro ciel.
Più volte quel codardo
Meditò di morir. Ma amor lo vinse
Della misera creta ond’era cinto,
Non terror del misfatto; e ruppe il ferro.
Non fugge infamia. Dell’infamia il nome
Sol può mutar.
«La stolta ira del mondo
Mi percota. Che importa?… Non è campo
Tra noi per misurarci. Ahi! la perduta
Giovinezza del cor! Questa è la spada
Che ferisce profondo. E i lieti giorni
Non potran più rinascere… Ed io solo
Fui, che li uccisi!… Ed altre vite, ed altri
Estinti amori: e lacerato il nodo
D’anime mansuete… e la materna
Felicità d’un angelo!… Ah, la morte,
Ch’io non so darmi, saria pur pietosa,
Se mi venisse a liberar da queste
Dure battaglie! Ancor quest’oggi il pane…
Ancor quest’oggi. E poi?… No, no. Sull’onde
Getterò la mia vita. Io più non voglio
Ascoltar quella voce. È orrenda cosa
Ascoltar la sua voce! Oh le tempeste
Inghiottir mi potessero!… L’Eterno
Benedirei. Leoni! anco un istante,
E poi… lunge per sempre.»
Era soletta
Su un veron del palagio Edmenegarda
Co’ suoi mille pensier; torbidi, incerti,
Rapidi, intensi, paventosi, amari;
E, tra quelli, un occulto, un ostinato
Presentimento… ma di tal sventura,
Che nome non avea nella sua mente,
E già stavale in cor.
«Dio degli afflitti!
Non sia ver, non sia ver!»
Morta la luce
Era d’intorno. Ribattevan l’ore
Dalle squille notturne. Ella un acuto
Strido mandò – ché un rumor lieve intese;
E lieve un bacio le sfiorò le chiome.
Vede un’ombra; poi nulla. Intorno getta
Gli occhi smarriti; nulla. A fievol voce
Chiama Leoni; ma nessun risponde.
Era sogno?… Nol sa. Vero?… Ella sente
Sul capo ancora il gel di quelle labbra
Che la baciaro. In sé tutta si stringe
Impäurita; un orrido deserto
Par che la cinga… e il cor le si discioglie,
A groppo a groppo, in un dirotto pianto.
Quante cose in quel punto ella si disse!
Quante più ne pensò! Non è linguaggio,
Non è forma o color che le dipinga.
S’incrociano; si sciolgono; van ratte;
Rivengono più ratte entro la mente
Disperata e confusa; e, in geli e vampe
Tramutandosi, assalgono gli abissi
Miserandi dell’alma, ove al fin regna
In solitaria e paurosa notte
L’insensato dolor. Fûr pochi istanti;
Ma tremendi, ineffabili, nascosi
A umana idea. Traverso a quello spirto
Errava ancora un negro insuperabile
Turbine di memorie, e di pensieri.
Poi languiron le forze della vita;
E sui guanciali in un sopor profondo
Piombò.
Da quel sopor chi ne la desta?
Chi la riscote? – Non è lui. – Lo guarda…
Ma non è lui. Si risovvien di tutto.
Quegli un amico è di Leoni, e sorge;
«E’ dov’è, grida: ditelo! Non monta:
Lo sapea da gran tempo. Or via: parole,
Non sospiri; parole vi dimando!
Non mi fate morir!…»
«Egli vi lascia
Per mia bocca un addio. Di perdonargli
I patiti dolori ei vi scongiura;
E così solo e povero… veleggia
Verso la Francia!»
La misera donna
Soffocò un urlo; e rassegnata al cielo
Alzò le mani, e non avea parole
Altre che queste:
«Il meritai! Doveva
Esser così. Sotto il giudicio vostro
Io m’inchino, o Signor. Contro vi venni,
Mal nata polve, e voi saliste in ira
E m’avete percossa…
Il meritai!»
Türler ve etiketler
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30 ağustos 2016Hacim:
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