Kitabı oku: «Dopo il divorzio», sayfa 4
VI
E il tempo passò: venne l'autunno e venne l'inverno. Il ricorso di Costantino, come accade sempre, fu respinto; ed egli una notte fu legato ad una catena che lo univa ad un uomo a lui sconosciuto, e venne messo in fila con altri uomini, a due a due, vestiti di tela, taciturni, simili a bestie mansuete, resi tali da una invisibile potenza. Essi andavano. Dove? Non sapevano dove. Tacevano e non sapevano perchè tacevano. Li condussero al mare, li fecero salire su un lungo piroscafo nero, li chiusero in una gabbia. Sempre come bestie. Intorno il mare di cristallo verde-cupo rifletteva i fari di rubino e di smeraldo, le cui colonne di luce slanciavansi lontane, serpeggiando fra le onde come drappi fosforescenti di perle verdi e sanguigne. E sopra, sopra l'infinito anello del mare, il cielo di cristallo azzurro-cupo incurvavasi come una immensa valle silenziosa, tutta fiorita di stelle gialle. Sulle prime Costantino non provò impressioni disgustose. Egli andava verso l'ignoto, verso il suo crudele destino; ma aveva in fondo al cuore la certezza che verrebbe presto liberato, e non disperava mai. L'andirivieni del personale di bordo, il rumore delle catene, il primo ondular del piroscafo, gli diedero un'impressione di curiosità fanciullesca. Non aveva mai viaggiato in mare. Da ragazzo scorgendo all'orizzonte la linea cinerea del Mediterraneo, talvolta sfiorata dall'ala delle vele, egli, ritto fra i cespugli selvaggi della montagna natìa, aveva sognato di attraversare quelle onde lontane, verso paesi ignoti, verso le città d'oro del continente. Egli sapeva leggere e scrivere; nel suo libro c'era dipinto S. Pietro di Roma, e nella parte riguardante la Storia Sacra un'incisione rappresentava l'antica Gerusalemme.
Ah, Gerusalemme! Verso Gerusalemme, che secondo lui era la città più grande e bella del mondo, avrebbe voluto viaggiare, allora, quando ritto fra i cespugli di monte Bellu guardava la linea cinerea del Mediterraneo. Ora egli attraversava il mare, ma come diversamente dal suo sogno! Eppure il concetto che egli conservava ancora di Gerusalemme era così lusinghiero, che se l'avessero portato là, anche legato e condannato, ad espiare la pena, si sarebbe sentito felice.
E il piroscafo rullava, ondulava, andava, tra un fragore incessante di torrente. I condannati bisbigliavano fra loro, alcuni scherzavano e ridevano.
Costantino si assopì e sognò, come sempre gli avveniva, di trovarsi a casa sua. L'avevano liberato da poco, – egli sognava, – ed era tornato a casa senza far sapere nulla a Giovanna, preparandole così una sorpresa di indicibile gioia. Ella diceva: – ma questo è un sogno, questo è un sogno! – Le spese di giustizia avevan portato via di casa tutto, tutto, anche il letto. Non importava niente, però. Tutti i beni del mondo erano nulla in confronto alla gioia della libertà, alla felicità di vivere con Giovanna e con Malthineddu. Però Costantino era stanco, stanco, e s'era coricato nella culla del bambino, e questa culla ondulava da sè, sempre più forte, sempre più forte. Giovanna rideva e diceva: – Bada che cadi, Costantino mio, agnello caro! – e la culla ondulava ancora più forte.
Sulle prime anch'egli si mise a ridere, ma ad un tratto si sentì male, provò un capogiro e cadde dalla culla inclinatasi fino al suolo. Si svegliò col mal di mare. Il mare era mosso; il piroscafo saliva e scendeva da montagne d'acqua; l'acqua saltava fino sopra i passeggieri di terza.
Tutti i condannati soffrivano: alcuni cercavano ancora di scherzare, altri imprecavano; uno, il compagno di Costantino, un uomo dal viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.
– Oh, – diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, – io sognavo di essere a casa, ed ora… ed ora!.. San Francesco bello, abbiate pietà di me…
Costantino, nonostante l'angoscia fisica e morale che provava, ebbe pietà del compagno.
– Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d'essere a casa…
– Ah, mi pare che mi sfugga l'anima, – disse un altro. – Cosa diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! – e taluni ebbero forza di ridere per il paragone.
La tempesta proseguì. In certi momenti a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, ma nello stesso tempo sentiva un dolore immenso della vita.
La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch'egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell'udire la sentenza di condanna egli aveva provato una disperazione simile. Cominciò anch'egli a gemere ed imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.
– Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato… – diceva; e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli inondava la bocca e tutta l'anima.
Verso l'alba la tempesta cessò; ma Costantino, anche dopo passatogli il male, non ritrovò pace; gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.
Il piroscafo non si fermava mai: oh, si fosse fermato almeno un momento! Un momento di tregua, pareva a Costantino, sarebbe bastato per ridonargli le forze smarrite, ma quel continuo procedere, quel continuo rullìo e quel continuo fragore di onde violentemente infrante, gli comunicavano un continuo tremore di convulsione. Cammina e cammina, passarono lunghe ore di angoscia, ritornò la notte: il compagno dal viso giallo sottile si lamentava sempre, dando a Costantino una irritazione angosciosa. Finalmente egli potè assopirsi e, cosa strana, tornò a sognare lo stesso sogno della notte prima; però questa volta Giovanna era corrucciata, e la culla ondulava quasi dolcemente. Quando Costantino si svegliò, il piroscafo pareva muoversi appena; nel gran silenzio dell'ora antelucana udì una voce dire al di fuori:
– Quella è Procida…
Egli rabbrividì di freddo, e si domandò se lo conducevano a Procida, sembrandogli d'aver sentito dire che colà vi era la galera. Anche il compagno si svegliò, rabbrividì, sbadigliò lungamente.
– Siamo giunti? – domandò Costantino. – Come stai?
– Non c'è male! Siamo giunti?
– Non so: siamo vicini a Procida: c'è la galera là?
– No. È a Nisida. Ma noi non siamo galeotti! – disse l'altro con fierezza: poi tornò a sbadigliare.
– Oh, cosa sognavo… – aggiunse, ma non proseguì raccogliendosi nel ricordo del sogno; e Costantino non parlò oltre.
I condannati vennero sbarcati a Napoli, e chiusi subito in un carrozzone nero e giallo che sembrava un sepolcro ambulante.
Costantino ebbe appena la visione di un gran tratto d'acqua ferma, verde, ombreggiata da enormi piroscafi, con barche piene di uomini luridi che gridavano cose incomprensibili; intorno alle barche, sull'acqua verde, galleggiavano erbaggi, scorze di arancia, carte, immondezze. Edifizi immensi si delineavano su un cielo profondamente azzurro.
A Napoli i condannati furono separati: Costantino fu condotto al reclusorio di X. e non rivide più il suo triste compagno di viaggio dal viso giallo e sottile.
Giunto al suo destino, il condannato fu messo in cella, dovendo scontare sei mesi di segregazione. La cella misurava appena due metri di lunghezza e sei palmi di larghezza: ci stava appena uno strano lettuccio piegabile, che di giorno veniva chiuso e fermato alla parete. Dal finestrino scorgevasi soltanto il cielo.
Fu il tempo più triste della condanna di Costantino. Egli restava ore ed ore immobile, seduto, con le gambe accavalcate, le mani intrecciate intorno al ginocchio; ma, cosa singolare, non disperava mai, non si ribellava mai. Era convinto di espiare il «peccato mortale», come egli lo chiamava, di aver vissuto a lungo con una donna senza sposarla religiosamente. Sentiva sempre in fondo al cuore la certezza che un giorno o l'altro, finita l'espiazione del peccato, risulterebbe la sua innocenza e verrebbe liberato.
Intanto, se non disperava, soffriva: e contava i giorni, le ore, i minuti, nella continua e snervante attesa di un cambiamento di cose che non arrivava mai, preso da una nostalgia accorata che lo istupidiva. E giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, viveva col pensiero vicino a Giovanna ed al bambino, ricordando con precisione profonda tutti i più minuti particolari della casa, della vita passata, delle gioie vissute. E oltre che del suo dolore soffriva per il dolore di Giovanna. Impeti di tenerezza per lei, più che per il bimbo, lo scuotevano dalla sua immobilità pensosa: allora balzava in piedi, camminava a grandi passi, e siccome questi passi erano due o tre, si fermava di botto, appoggiava e sfregava forte la testa sul muro, quasi volendolo abbattere. Erano i suoi momenti più disperati.
Poi tornava a sperare, a intrecciar nella mente sogni fantastici di liberazioni romanzesche, subitanee. Ogni volta che il guardiano entrava, Costantino si sentiva battere il cuore, aspettando la lieta novella.
Qualche volta giocava da sè alla morra, dandosi il gusto di perdere o di vincere; e dopo rideva fra sè, come un bambino: altre volte contemplava a lungo la palma della mano aperta, figurandola una grande pianura divisa in tancas2 coi muri, i fiumi, gli alberi, gli armenti, i pastori, ai quali creava una vita di avventure emozionanti.
E poi pregava, contando sulle dita, e cantava le laudi a voce alta, provandosi anche ad improvvisare dei versi religiosi.
Così compose una lauda di quattro strofe dedicata a San Costantino, dove specialmente raccomandava al santo i condannati innocenti. Il ritornello infatti diceva:
Santu Costantinu pregade,
Pro su condannadu innocente.
La composizione di questa lauda lo occupò completamente per molti giorni, rendendolo quasi felice: e quando la ebbe finita ne provò una gioia profonda. Subito sentì il bisogno di far sapere a qualcuno che aveva composta una lauda. Ma a chi dirlo? Il guardiano, un piccolo uomo napoletano, calvo, sbarbato, con un naso schiacciato e all'insù, che pareva il naso d'uno scheletro, qualche volta parlava col condannato, ma non era in grado di capir la lauda.
Nell'ora di aria era proibito assolutamente al condannato in segregazione di rivolgere la parola ai compagni. Allora egli chiese di confessarsi, per poter recitare la lauda al confessore. Il confessore, cioè il cappellano dello stabilimento, era giovine e intelligente; un settentrionale dai movimenti rapidi; alto, scarno, svolazzante, con vivissimi occhi neri. Ascoltò pazientemente Costantino, si fece tradurre la lauda; poi gli chiese se, volendosi confessare per poter recitare quei versi, non avesse peccato di vanità. Costantino arrossì e disse di no. Il confessore sorrise benevolmente, lo confortò, lodò i versi, e lo mandò via assolutamente beato.
Dopo pochi giorni il condannato chiese nuovamente di confessarsi.
– Ebbene, avete composto un'altra lauda? – chiese benevolmente il cappellano.
– No, – disse il condannato, con gli occhi bassi. – Ma vengo a chiederle una grazia.
– Qual grazia? Sentiamo.
Costantino rimase un momento col respiro sospeso, pauroso di quanto stava per chiedere; poi disse rapidamente:
– Ecco. Mandare la lauda al mio paese.
– Ah, – disse il cappellano. – Io non posso far ciò. D'altronde come potreste voi scrivere la lauda?
– Oh, io so scrivere! – esclamò il condannato, sollevando i limpidi occhi.
– Sì, ma non dico questo, fratello mio. A voi non è permesso di scrivere.
– Oh, io mi arrangerei in quanto a ciò…
– Bene, bene, ma io non posso.
Costantino prese un'aria desolata e per poco non si mise a piangere; poi si confessò, chiese se non era meglio intitolar la lauda ai Santi Pietro e Paolo, che erano stati carcerati, e chiese perdono al confessore se aveva osato fare quella tal domanda.
Il giovane cappellano diede l'assoluzione, e pregò a lungo ad alta voce, mentre il condannato pregava silenziosamente: poi si passò una mano sul capo e disse, piano, lentamente:
– Sentite. Scrivete pure la lauda, se vi riesce. E fate da bravo.
Un impeto di gioia assalì il condannato; e da quel momento egli non ebbe altro pensiero che di riuscire a scriver la lauda.
– Io ho studiato, – disse al guardiano, – ma so fare anche le scarpe. Volete che ve ne faccia un paio? O ve ne accomodi…
– Tu desideri qualche cosa, – rispose l'ometto, in napoletano. – Tu non puoi far niente.
– Siate buono, zio Serafino. Pensate all'anima immortale.
– Io penso all'anima, ma ti ho già detto che non sono tuo zio. Tu hai ammazzato tuo zio.
– Ebbene, non importa. Noi chiamiamo zio le persone importanti.
Don Serafino, però, voleva il suo titolo, che Costantino non riusciva a dargli, perchè in Sardegna appartiene solo ai nobili; e per quel giorno non si concluse nulla.
L'indomani il condannato ritornò alla carica, disse che era di famiglia nobile, che aveva studiato, che suo zio, quello della cui morte lo accusavano, dopo avergli mangiato un grosso patrimonio, lo costringeva a lavorare, a far le scarpe, rinchiudendolo in una stanzetta buia, e che una volta gli aveva scorticato interamente un piede.
E voleva farlo vedere; ma don Serafino scuoteva il capo, con segni di raccapriccio, e imprecava a bassa voce contro il morto crudele.
Così Costantino riuscì ad avere un foglio di carta, e col suo sangue e con un fuscellino scrisse le laudi per la protezione dei condannati.
L'inverno passò, e un giorno di marzo venne alla cella di Costantino una ispezione guidata da un grosso uomo che aveva due grandi occhi d'un azzurro latteo, rotondi e immobili, e il mento così corto che due baffi biondi lo coprivano interamente.
– Ehi là, – gridò al condannato, – cosa sapete fare, voi?
C'era anche don Serafino, che volgeva al condannato il suo viso di scheletro; e il condannato, ricordando tutte le fandonie narrate al guardiano, rispose che sapeva fare le scarpe.
– Ehi là, – disse l'uomo grosso dagli occhi immobili, – voi avete ammazzato vostro zio.
Il suo accento non ammetteva repliche, e Costantino aprì le braccia come per dire:
– Ehi là, io ho ammazzato mio zio, se così piace alla Vossignoria.
L'ispezione andò via, e poco dopo don Serafino fece sapere a Costantino che in breve l'avrebbero tolto di cella, diminuendogli così di più d'un terzo la segregazione. Costantino pensò di dover questa grazia alla sua buona condotta, ma don Serafino gli confidò d'aver interceduto per lui presso persone potenti, dicendo loro che il condannato era di famiglia nobile, che aveva un piede scorticato e che sapeva far le scarpe.
Pochi giorni dopo Costantino fu messo in camerata e cominciò a lavorar da calzolaio assieme ad altri condannati. Inoltre in quegli stessi giorni potè mandare sue notizie a Giovanna, essendogli permesso di scrivere ogni tre mesi. Queste circostanze lo resero momentaneamente felice. E poi veniva la primavera ed i condannati, che avevano sofferto intensamente il freddo, prendevano un'aria allegra. Nella camerata ove Costantino lavorava si scherzava quasi sempre. Solo vi erano due fratelli, due abbruzzesi, che dopo aver chiesto in grazia di esser messi a lavorare assieme, litigavano sempre per certi interessi da accomodarsi dopo la loro condanna, cioè fra dieci anni. Un giorno si bastonarono ed uno fu portato via; scontarono due settimane di cella, poi, quando si rividero all'aria, cioè nell'ora di libertà che i condannati passavano nel cortile, si accapigliarono ancora.
Durante l'ora d'aria Costantino potè conoscere un suo compatriota, un sardo, che veniva chiamato re di picche, forse perchè aveva una figura triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto, pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo.
Era un ex-maresciallo dei carabinieri, condannato per peculato: dicevasi parente d'un cardinale, il quale era segretamente amico del re e della regina. Perciò il re di picche s'aspettava di giorno in giorno la grazia, non solo, ma prometteva di far graziare altri condannati che gli regalavano sigari, denari e francobolli. Egli era addetto all'ufficio degli scrivani; potendo quindi comunicare con l'esterno favoriva certe corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e riusciva ad introdurre nello stabilimento danari, tabacco, francobolli, liquori, profittandone largamente.
A Costantino offrì subito la grazia sovrana e gli chiese se voleva mandare qualche lettera al suo paese.
– Sì, disse il giovine – ma io non ho nulla da darle: sono povero.
– Ebbene, non importa, siamo compatrioti, – disse generosamente l'altro. E subito gli raccontò le sue prodezze da maresciallo: aveva ammazzato più di dieci banditi, aveva dieci medaglie, e una volta era stato a Roma e il re lo aveva invitato al suo palco in teatro. Infine era un eroe. Però non raccontava mai la sua ultima prodezza; solo diceva di esser in reclusione per opera dei suoi nemici invidiosi. Sulle prime Costantino gli prestò fede e gli pose una forte simpatia nonostante la sua losca figura; ma siccome di giorno in giorno i racconti del maresciallo variavano e diventavano sempre più iperbolici, anch'egli (come tutti gli altri condannati che disprezzavano il re di picche, ma lo adulavano per servirsene) gli perdette la stima.
Del resto s'accorse che tutti là dentro, compresi i guardiani, erano bugiardi e felini. I condannati avevano bisogno di nascondere il loro vero essere, di immaginarsi cose fantastiche per il passato e per l'avvenire, d'ingrandirsi agli occhi dei compagni di sventura. Il destino che li aveva, contro loro volontà, riuniti in quel luogo d'odio, non destava e non lasciava destare in loro alcun affetto reciproco.
Costantino osservò con meraviglia che i condannati a pene maggiori erano i meno cattivi, sebbene i più vani e bugiardi. Dei meno delinquenti alcuni si odiavano, erano vili, facevano la spia; gli altri si servivano a vicenda finchè potevano ritrarne utile, tradendosi se occorreva, amandosi mai. Il re di picche diceva a Costantino:
– Una profonda corruzione rode quasi tutti i condannati, molti dei quali sono veri delinquenti rotti ad ogni vizio. L'aria stessa è pestifera. L'uomo che viene tolto dalla società, privato della libertà, nel luogo del castigo s'infracidisce completamente, perde ogni avanzo di senso morale, diventa bugiardo, vile, feroce, corrotto fino all'incoscienza della corruzione.
E gli raccontava cose spaventevoli.
– Secondo me, – proseguiva, – di onesti qui dentro ci siamo noi due, il Collo d'anitra e il Delegato. Tutti gli altri sono delinquenti. Guardati da loro, Costantino, caro compatriota; questo è un covo di banditi peggiori di quelli che io ho mandato a farsi benedire.
Talvolta Costantino si spaventava, pensando che se la sua onestà rassomigliava a quella del re di picche c'era poco da stare allegri. Collo d'anitra, poi, era uno studente siciliano, tisico, coi capelli bianchi, un collo lungo e un corpo da fanciullo. Leggeva sempre, era d'aspetto timido, non parlava quasi mai, ma s'abbandonava qualche volta a eccessi di collera violenta, per cui doveva subire gli amplessi di Ermelinda, come i condannati chiamavano la camicia di forza. Aveva ammazzato un professore. Anche il Delegato era meridionale, condannato per ricatto; sembrava un gentiluomo, con un gran petto sporgente e una nobile testa con un gran naso greco e il labbro inferiore sporgente e spaccato. Un'aria di sdegno gli animava il viso: ad avvicinarlo invece era affabilissimo, servile. Anch'egli, a suo dire, contava grandi e potentissime protezioni, ma era anche perseguitato da persone altolocate, e specialmente da un ministro.
Da qualche tempo, dopo aver letto varii libri di scienza, prestatigli dallo studente, s'era accinto a scrivere una grande opera scientifica, poichè anche egli apparteneva all'ufficio degli scrivani e poteva lavorare segretamente per conto suo.
Il re di picche ne diceva meraviglie.
– Ecco, – raccontava a Costantino. – Quell'uomo lì sarà la nostra fortuna. Ci scriviamo ogni giorno ed abbiamo un frasario convenuto. Ma dobbiamo esser cauti, altrimenti guai, rovineremmo tutta l'opera sua, la quale è una vera scoperta scientifica. Posso dirtene i sommi capi. – Come si è formata l'atmosfera: cioè l'aria. – Come si è formato l'oceano, cioè tutti i mari. – Origine del mondo organico. – Dimostrazione ragionata dell'esistenza d'un continente primordiale nella plaga centrale dell'oceano Pacifico. – In questo continente avrebbe avuto origine l'umanità, la cui infanzia si sarebbe svolta in quelle regioni tropicali. – Immigrazione nell'Africa e nell'Asia. – Scomparsa di questo continente per opera di un grande cataclisma. – Identificazione di questo cataclisma col diluvio biblico. – Emersione degli altri continenti. – Poi: Fine dell'atmosfera. – Fine dell'oceano. – Fine della luna. – Fine della terra.
– E fine della reclusione? – chiese sorridendo Costantino, che ne capiva poco, e credeva che il re di picche al solito raccontasse fandonie.
Ma l'altro aveva bisogno d'esser ascoltato e proseguiva tranquillo:
– Aspetta. Gli altri capitoli sono: ampliamento della dottrina evoluzionista oggi accettata. – Evoluzione della nostra specie di scimmie antropomorfe. – Cause della inclinazione dell'asse dei pianeti; meno Saturno. – Ragioni di codesta anomalia. – Macchie solari, ecc.
– Va al diavolo! – pensava Costantino, sbadigliando. E a voce alta, guardandosi attorno per il cortile asciutto, dove zampillava una fontana: – E la gazza, oggi? – chiedeva. Accennava ad una gazza addomesticata che viveva nello stabilimento, rimpinzata di cibo dai condannati, grassa e sonnolenta, che quando aveva fame chiamava a nome, con una strana voce nasale, certi condannati.
– Ebbene, sarà crepata! – disse il re di picche. – Che ti può importare di un uccello? Sei come i bambini, Costantino; tu non puoi capire l'importanza che avrà l'opera del Delegato. Indirettamente io ho avuto una magnam parte in queste sue scoperte, giacchè sono io che l'ho messo in corrispondenza col Collo d'anitra. Un sunto dell'opera siamo riusciti a mandarlo fuori, ed abbiamo scritto al primo ministro del Re d'Italia. Tu però sta zitto, sai! Vi è stato un grande scienziato che dopo aver letto il sunto disse: «È la più alta manifestazione del genio italiano». Credi pure, Costantino, caro compatriota, il Delegato è assorto ad altezze vertiginose. Egli ha amici potenti che si sono recati a Roma appositamente per ottenergli la grazia, ma anche nemici potentissimi. Però la sua opera gli otterrà presto la libertà.
I discorsi del compagno annoiavano Costantino, ma egli fingeva ascoltare il re di picche per tenerselo buono, giacchè aspettava la risposta di una lettera mandata a Giovanna.
Questa risposta giunse in maggio e riempì di gioia il condannato. Giovanna scriveva che il bambino era stato un po' ammalato, forse perchè gli affanni sofferti le avevano guastato il latte: ma ora stava bene. Isidoro Pane aveva ricevuto le laudi a San Costantino, scritte col sangue, e aveva pianto, ed ora le cantava in chiesa, accompagnato da tutto il popolo. Non si sapeva di chi fossero i versi, e Isidoro diceva di averli avuti da un vecchio con una lunga barba candida, vestito di bianco, che gli era apparso un giorno in riva al fiume. Si credeva fosse San Costantino, oppure Gesù Cristo in persona.
E Giacobbe Dejas aveva preso servizio presso i suoi ricchi parenti; e l'avvocato di Nuoro aveva espropriato la casetta del condannato, lasciandovi le donne per un piccolo fitto. I ricchi Dejas davano spesso del lavoro a zia Bachisia ed anche a lei, Giovanna, e così esse andavano avanti. Era morto di carbonchio Pietro Punia: s'era sposata Annicca detta Spalle d'argento, avevano arrestato un vecchio pastore per un furto di alveari.
Quasi tutta la lettera di Giovanna era piena di queste piccole notizie, che riempirono di soddisfazione, di piacere e d'interesse l'anima di Costantino. Gli parve respirare l'aria del suo paese; rivedere le pietre, le macchie selvaggie, le persone, le cose a cui il suo cuore era attaccato tenacemente.
Soltanto gli dispiacque che Giovanna andasse a lavorare dai Dejas; egli sapeva della passione di Brontu, della domanda respinta, ed ebbe un primo indefinito senso di timore. Giovanna gli mandava tre lire entro la lettera, ed egli, pensando che forse quel denaro proveniva da casa Dejas, lo toccò con disgusto. Poi offerse due lire al re di picche, e credeva che il compatriota li rifiutasse; ma il compatriota le prese, dicendo che servivano per la persona che s'incaricava della corrispondenza clandestina.
In un altro momento Costantino si sarebbe arrabbiato; ma in quell'ora egli sentiva un tal bisogno di scrivere a Giovanna, di corrispondere col suo piccolo mondo lontano, che avrebbe dato metà della vita purchè il re di picche lo favorisse.
Lesse e rilesse la lettera fino ad apprenderla tutta a memoria: di giorno la teneva nascosta nella suola della sua scarpa che di notte scuciva e ricuciva: e mentre lavorava taciturno, pensava continuamente alle vicende e alle persone del paesello lontano.
Talvolta s'immedesimava tanto nei suoi pensieri che dimenticava la realtà. Vedeva il vecchio pastore introdursi nel recinto degli alveari, cauto, col viso e le mani coperte di stracci. Il luogo era deserto, soleggiato. Campi verdi, costellati di fiori, di rose canine, di succhia miele, di pisello odoroso, si stendevano intorno a perdita d'occhio. E nel gran silenzio, tra i profumi fortissimi e irritanti dei puleggi selvaggi e delle erbe aromatiche, le api ronzavano.
Costantino seguiva quasi ansioso l'opera del vecchio ladro, che staccava dalle pietre piatte, su cui poggiavano, i piccoli alveari di sughero, li riuniva, li legava con una corda, li metteva in un sacco e li portava fuori del recinto… Qui Costantino non sapeva come il ladro avrebbe fatto, e mentre fantasticava intensamente, ecco, udiva una strana voce nasale, stridula, pronunziare nel cortile:
– Cos-tan-tì! Cos-tan-tì!
Egli si svegliava allora dal suo sogno, tornava alla realtà: la gazza saltellava lentamente nel cortile, grassa, tonda, starnazzando le ali azzurre.
Di notte il condannato metteva la lettera sotto il capo e riprendeva il filo dei suoi sogni. E udiva la voce sonora del suo amico pescatore cantare le laudi e qualche volta pensava se davvero Isidoro non avesse visto in riva al fiume, fra gli oleandri curvati sotto il dolce peso dei mazzi di fiori rosei, la figura di un vecchio vestito di bianco, con la lunga barba candida come la lana d'un agnellino appena nato.
Ah, era il Santo Protettore, il buon San Costantino (che egli figuravasi vecchio e candido come un patriarca, sebbene la statua del Santo nella chiesa del paesello rappresentasse un guerriero dal volto nero) che appariva a Isidoro per dirgli che pensava ai condannati innocenti. E il vecchio Santo gli avrebbe presto concesso la libertà. Ah, San Costantino bello, che voi siate benedetto!
Poi il quadro cambiava. Era il portico dei ricchi Dejas, dove si ordiva la lana filata, riducendola a lunghe matasse pronte ad esser tessute. Giovanna andava e veniva col gomitolo enorme fra le mani. E c'era Brontu seduto sul limitare della porta di cucina, a gambe aperte, e fra queste gambe stava ritto, mal fermo, ridente, il piccolo Malthineddu. Ah, ciò era orribile! Ma subito Costantino ricordava che Brontu non stava mai in paese nei giorni di lavoro, e si svegliava di soprassalto col cuore nuotante in un sentimento confuso di dolore e di gioia.