Vittorio Il Barbuto

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Vittorio Il Barbuto
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Copyright © 2017 Guido Pagliarino

All rights reserved

Libro pubblicato da Tektime

Guido Pagliarino

Vittorio il Barbuto

romanzo breve

Terza Edizione, distribuita da Tektime, libro ed ebook vari formati

© del manoscritto della prima stesura 1998 Guido Pagliarino

1a edizione, solo in volume cartaceo, copyright © GDS Edizioni 2010-2012, ISBN 9788896961537

2a edizione, profondamente riveduta e variata e pubblicata solo in ebook di vari formati, ISBN epub 9781311752932, copyright © 2015 Guido Pagliarino

Il logo e l'immagine di copertina di tutte le edizioni sono stati realizzati elettronicamente dall'autore copyright © Guido Pagliarino

Gli avvenimenti, i personaggi, i nomi di persone, enti, ditte e società e di loro prodotti e servizi che appaiono nell'opera sono immaginari e ogni eventuale riferimento alla realtà presente o passata è casuale e involontario

Indice

Prefazione dell’autore

Guido Pagliarino, Vittorio i l Barbuto, romanzo breve

Capitolo I

Capitolo II

Capitolo III

Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

Capitolo VII

Capitolo VIII

Capitolo IX

Capitolo X

Capitolo XI

Capitolo XII

Capitolo XIII

Capitolo XIV

Capitolo XV

Capitolo XVI

Capitolo XVII

Note

P REFAZIONE DELL’AUTORE

Il romanzo si basa sulle figure del vice questore Vittorio D’Aiazzo e del suo amico Ranieri Velli, personaggi che agiscono anche in altre opere dell'autore. Si sviluppa nell’anno 1972, dopo Il romanzo “Il metro dell’amore tossico”, ambientato nel 1969, e la storia in parte si svolge a New York e in parte a Torino come già la vicenda del citato lavoro; vi ritroviamo inoltre, insieme ai due personaggi principali, diverse figure comprimarie fra cui l’interessato editore Mark Lines e il gelido miliardario Donald Montgomery, già direttore dell’FBI di New York e ora membro del Senato e candidato alla Presidenza degli Stati Uniti contro il presidente uscente M. N. Richard:

La sera del 30 marzo 1972 viene uccisa con arma da fuoco, durante un banchetto elettorale organizzato dal Montgomery, una giovane, ricca signora sua grande elettrice, moglie del ricchissimo Peter White, donna sistematicamente adultera che aveva amato negli anni ‘50 Vittorio e nel 1969 Ranieri: un misterioso individuo è apparso all’improvviso sulla porta del salone da pranzo, dopo aver ammazzato una guardia giurata che l’ostacolava, ha freddato la donna ed è fuggito riuscendo a eclissarsi. Dell’assassino, mascherato nella parte superiore del volto, appaiono evidenti ai convitati, fra cui siede Ranieri Velli, solo la taglia massiccia, l’altezza modesta e la gran barba grigiastra, tratti caratteristici del vice questore Vittorio D’Aiazzo; e per di più, in quelle stesse ore questi non era in Italia ma proprio a New York assieme alla sua fidanzata Marina Ferdi, vedova del defunto commissario Verdoni già vice di Vittorio; niente di meno, il nome del D’Aiazzo risulta incluso nella lista degl’invitati al riservatissimo banchetto. A parte Ranieri Velli, cui fa velo l'amicizia, i testimoni ravvisano e indicano come assassino il vice questore che viene accusato d’omicidio, assieme alla sua compagna, dal procuratore niuyorchèse Maxwell, amico e sostenitore del Montgomery. Quest'ultimo brama dimostrare che non s’è trattato, come invece insinua con insistenza il presidente uscente Richard, d’un falso attentato alla sua persona organizzato da lui stesso, per pubblicità elettorale, e purtroppo finito male per errore di mira dello sparatore. Il procuratore distrettuale è del tutto intenzionato a far condannare Vittorio sulla base d’un presunto movente passionale, l’odio per la donna che l'aveva a suo tempo abbandonato. Il vice questore e la fidanzata sono estradati a New York per il processo istruttorio che, com’è largamente noto al pubblico anche grazie a tanti film e telefilm, negli Stati Uniti avviene in aula, presenti giuria e giudice. Qui siamo ancora solo alle prime battute del romanzo. Diverse pagine tra le successive presentano fasi del dibattimento. La giovane avvocata del D’Aiazzo, la signora Sarah Ford, ipotizza in primo luogo un delitto passionale da parte del marito pluritradito della vittima, il signor White. Quanto a Ranieri Velli, desideroso d’aiutare l’amico ma impossibilitato ad agire personalmente fuori d’Italia, investiga a mezzo dell’agenzia dei ‘private eyes’ Taylor & Taylor. Indagano informalmente anche due collaboratori di Vittorio, i commissari Aldo Moreno e Mauro Sermoni, cercando di dimostrare l’innocenza del superiore e imbattendosi a un certo punto, a Torino, in importanti indizi che, uniti ai dati raccolti da Ranieri e dall'avvocato, condurranno alla soluzione.

G.P.

Guido Pagliarino

Vittorio il Barbuto

romanzo breve

CAPITOLO I

Era il 30 marzo 1972 ed erano quasi le 19, ora di New York. Tra breve sarebbe iniziato il banchetto elettorale del governatore Montgomery e io e Mark Lines, mio editore negli Stati Uniti, uomo magro cinquantenne di media altezza dai folti capelli sale e pepe, stavamo giungendo all’Hotel Wellington, il cui salone delle conferenze era stato adattato per l’occasione a locale da conviti.

Donald Montgomery, giovane e ambizioso miliardario in dollari, era in testa alle elezioni primarie del suo partito, in corso da gennaio, in vista delle presidenziali di novembre, e nutriva la forte speranza d’entrare alla Casa Bianca battendo l’attuale presidente, M. N. Richard, che intendeva presentarsi per il secondo mandato.

Una volta scesi dal taxi, dopo che, come nel suo carattere, aveva lasciato a me l’incombenza di pagare, Mark m’aveva detto: “L’amico Donald spererebbe vivamente in qualche tua parola pubblica di simpatia, dato che ti salvò la vita nel corso di quel brutto affare”: me l’aveva buttata lì solo a quel punto, mentre quella mattina, essendo io nel suo ufficio per gli accordi sulla pubblicazione del mio ultimo libro e la cessione dei relativi diritti cinematografici, s’era limitato a trasmettermi l’invito al banchetto. Sapevo che il Lines era non solo un amico, ma uno dei grandi elettori del Montgomery e non m’ero stupito per la sua richiesta, ma un poco essa m’aveva contrariato; avevo tuttavia accondisceso, perché era vero che, nel luglio del 1969, il governatore, allora direttore dell’FBI per quello stesso Stato di New York che adesso guidava, m’aveva salvato la pelle, minacciata da un pazzo criminale internazionale: sia pure non lui da solo, ma assieme a molti suoi agenti e al mio amico Vittorio D’Aiazzo, vice questore a Torino che, in quei giorni, era in missione a New York a caccia di quel folle1.

 

Nel salone del banchetto c’era un vociare tale che, entrando, m’era scoppiato subito uno dei miei mali di testa. Gli ospiti s’erano zittiti all’arrivo del governatore, ma solo per alzarsi in piedi e tributargli un applauso così fragoroso da essere, per me, una stilettata nel cervello.

Tra gli altri sedevano al nostro tavolo due attori quarantenni, Burt Cooper, famoso interprete teatrale prestato qualche volta al cinema, alto, magro e di pochi capelli ch’egli teneva rasati, e Robert Avallone, detto il toro per la sua straordinaria muscolatura, interprete solo cinematografico. Non era stato per caso ch’erano stati posti assieme a noi; essi avevano infatti interpretato un film basato sulla mia avventurosa esperienza americana di tre anni prima, il Cooper nella parte del matto che aveva cercato d’uccidermi dopo avermi torturato, e il toro quale mio alter ego; poi il solo Avallone, sempre nella parte di me stesso, Ranieri Velli, scrittore e giornalista italiano e, in passato, poliziotto agli ordini dell’amico D’Aiazzo, era stato protagonista d'un secondo e terzo film ispirati a miei successivi romanzi, anch’essi sostanzialmente autobiografici. Non c’era alcuna somiglianza fisica tra noi due; intanto, l’attore era barbuto e io no, anzi detestavo i peli sul viso tanto che, poiché pure l’amico Vittorio portava la barba, più volte l’avevo spinto a radersi, anche se invano; inoltre l’Avallone era bruno e io biondo, portava i capelli molto lunghi mentre io li avevo cortissimi e con sfumatura alta, ed era alto un metro e settanta centimetri mentre io arrivavo all’uno e novanta; ma era stato scelto lui dalle produzioni perché, a quel tempo, era il divo che indirizzava più soldi ai botteghini: il pettegolo Mark, quando avevamo preso posto, poco prima che l’attore giungesse, avendo notato il cartellino sul tavolo col suo nome, m’aveva riferito che Robert portava la barba per nascondere una profonda cicatrice al mento infertagli con una rasoiata quando, ancora adolescente, era stato uno dei tanti teppistelli del Bronx; m’aveva inoltre invitato a osservare, quand’egli fosse arrivato, le speciali scarpe ortopediche che indossava per sembrare più alto di otto centimetri. Più che l’Avallone però, aveva attratto il mio interesse Burt Cooper che non m’era parso affatto tranquillo: s’era guardato attorno alcune volte, circospetto, mentre raggiungeva la nostra tavola, e a più riprese anche in seguito, con viso costantemente inquieto.

Dopo gli antipasti, sebbene non provassi gran simpatia per il Montgomery che, per come l’avevo conosciuto in passato, consideravo un freddo robespierre, su nuovo invito di Mark avevo accettato d’alzarmi e recarmi al leggio che affiancava il tavolo dominante, dove sedeva il Montgomery coi suoi, per pronunciare verso di lui parole di stima e di ringraziamento per avermi salvato la vita. Ovviamente, cogliendo l’occasione, avevo anche parlato del mio romanzo in prossima uscita e del film che ne sarebbe stato tratto. Al termine, mentre si levavano gli applausi di prammatica, ero tornato senz’altro al tavolo, mentre il Montgomery s’era alzato ed era andato a sua volta al leggio: qui aveva ringraziato me per la stima, poi aveva evocato nei dettagli quel caso criminale, calcando sul peso della propria partecipazione. Dopo di lui s’era alzato un suo collaboratore e, giunto al suo fianco, aveva sottolineato che nel 1969 l’intervento “intelligente e sprezzante del pericolo” del governatore contro quel pazzo, noto criminale cosmopolita, era stato essenziale per la salvezza della salute nazionale e la difesa della democrazia. A quel punto il mal di testa m’era talmente salito che avevo solo desiderato andarmene a letto, anche perché la mattina dopo avevo il volo per Torino. Stavo per dire a Mark che, educazione o no, me ne sarei andato, quando…

CAPITOLO II

Eravamo tutti balzati in piedi al rintronare degli spari e, in un attimo, c’eravamo ritrovati sotto i tavoli, compreso Donald ‘Sprezzante-del-pericolo’ Montgomery.

L’attore Burt Cooper, accovacciato di fronte a me e a Mark, tremava visibilmente, continuando a girare la testa a destra e a sinistra e ansimando forte a bocca semiaperta; poi: “Hanno mirato al nostro tavolo?” aveva chiesto con voce appena udibile.

“Non saprei”, gli aveva risposto il suo collega Robert Avallone, accosciato alla sua destra e che, come Mark e me, era riuscito a mantenere sufficiente sangue freddo.

I colpi erano partiti da uno dei quattro ingressi del salone, piantonati ciascuno da una guardia all’esterno, ma lasciati aperti: un uomo dal barbone grigiastro con occhiali neri sul naso, ch’ero riuscito appena a intravedere, vestito con un elegante completo ma con uno stonato berretto di lana in testa, risultato un passamontagna quando se l’era calato sul volto durante la fuga, e che indossava inoltre visibilissimi guanti bianchi, era corso via riuscendo, grazie alla sorpresa, a uscire dall’albergo senz’essere bloccato: sparando in aria, aveva avuto la strada aperta. Nella foga, esploso l’ultimo colpo, aveva lasciato cadere l’arma scarica sul marciapiede, estraendo contemporaneamente un’altra pistola; aveva puntato questa alla testa d’un passante, perché la scorta del governatore che gli era corsa dietro si bloccasse; aveva fermato un’auto di passaggio, o forse d’un complice? e abbandonato l’ostaggio, era salito e s’era dileguato, sparando dal finestrino qualche colpo a vuoto.

Fuori dalla porta da cui erano risuonati gli spari, nel largo corridoio, era rimasta a terra, freddata da un solo colpo in testa, la guardia che aveva avuto l’incarico di custodirla. Dentro, giaceva morta a terra una bella signora trentaquattrenne che, a suo tempo, avevo ben conosciuto e che, fin ad allora, in mezzo a tutta quella gente non avevo notato, una donna ch’era stata, tanti anni prima, la moglie del mio amico Vittorio D’Aiazzo: nel 1958, non ancora ventenne, ella l’aveva abbandonato per un facoltoso americano, s’era divorziata e risposata con lui negli Stati Uniti; era poi divenuta una ricca vedova e, da pochi mesi, come avevo saputo da Mark, s’era risposata con un altro magnate, un certo Peter White, non presente al banchetto perché sostenitore del presidente Richard, mentre lei era stata una grande elettrice del Montgomery.

Più volte, dopo l’abbandono, Vittorio m’aveva parlato di “Bimba” come usava chiamarla durante il matrimonio, durato appena un anno; oppure di “mia moglie”, come ancora la definiva dato che lui, cattolico rigoroso diversamente da me, agnostico, continuava a considerarsene il marito: “Il matrimonio in chiesa è un sacramento e non lo si può sciogliere!” m’aveva detto con enfasi in un paio d’occasioni. Adesso, era vedovo.

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