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Kitabı oku: «Racconti fantastici», sayfa 4

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– Trecento anni!

– Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le evochiamo.

– Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate.

– Le ricorderai dopo la tua morte.

– Quando?

– Assai presto.

– Quando?

– Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno.

– Ma allora?

– Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti.

– Quali?

– Li ricorderai a suo tempo.... ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l’ultima. Io ne ho attraversate sette soltanto, e sono già quarant’anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo.

– Spiegami prima questo enimma.

– È impossibile… Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle pagine sì colme di affetto.... le avrai? Se quell’uomo che ci fu allora sì fatale non t’impedirà di averle.

– Chi?

– Tuo zio.... egli.... l’uomo della valle.

– Egli? mio zio!

– Sì, e lo hai tu veduto?

– Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato.

– È il tuo sangue, Arturo, diss’ella con trasporto, sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua promessa.

Dicendo queste parole la signora del castello sparve – io mi svegliai atterrito.

Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole sconnesse che erano rimaste intelligibili, potrei ricostituire con uno sforzo potente di memoria degli interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benchè non giungessi mai ad evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti, non era più possibile che io potessi metterne in dubbio l’esistenza. Il castello nero era spesso nominato in quei frammenti, e quella passione d’amore che pareva legarmi alla signora del castello, e quel sospetto di delitto che pesava sull’uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò, per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque venti anni esatti alla mia morte.

Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell’assieme di fatti, era riuscito a persuadermi che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento od una continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa.

Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte doveva conseguentemente avverarsi.

Nell’anno 1849, viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al confluente della piccola Mosa, e m’era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente, e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de’ miei sogni e della mia esistenza trascorsa. Benchè tutto fosse mutato, benchè i campi, prima deserti, biondeggiassero adesso di messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell’istante nella mia anima conturbata.

Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: – Sono le rovine del castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io.... se....

– Dite, dite, io interruppi, sedendomi sull’erba al suo fianco. – E intesi da lui un racconto terribile, un racconto che io non rivelerò mai, benchè altri il possa allo stesso modo sapere, e sul quale ho potuto ricostruire tutto l’edificio di quella mia esistenza trascorsa.

Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d’onde fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi.

Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello – è il primo giorno di settembre, mancano sei mesi all’epoca della mia morte – sei mesi, meno dieci giorni – giacchè non dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l’impressione di un immenso terrore.»

* * *

L’autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il suo viaggio verso l’interno della Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito, assassinato da una banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo.

Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.

LA LETTERA U

(Manoscritto d’un pazzo)

U! U!

Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore?

Sì, io l’ho scritta.

Ed eccovela ancora:

U

Eccola un’altra volta

U

Guardatela, affissatela bene – non tremate, non impallidite – abbiate il coraggio di sostenerne la vista, di osservarne tutte le parti, di esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l’orrore che v’ispira.... Questo U!… questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa vocale tremenda!

E l’avete ora veduta?… Ma che dico?… Chi di voi non l’ha veduta, non l’ha scritta, non l’ha pronunciata le mille volte? – Lo so; ma io vi domanderò bensì: chi di voi l’ha esaminata? chi l’ha analizzata, chi ne ha studiato la forma, l’espressione, l’influenza? Chi ne ha fatto l’oggetto delle sue indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie? Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli anni della sua vita?

Perché.... voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua come le altre; perchè l’abitudine vi ci ha resi indifferenti; perchè la vostra apatia vi ha distolto dallo studiarne più accuratamente i caratteri.... ma io.... Se voi sapeste ciò che io ho veduto!… se voi sapeste ciò che io vedo in questa vocale!

U

E consideratela ora meco.

Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi!

E così, che ne dite?

Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio....

Ma ciò è ancor nulla, Coraggio!

Raddoppiate la vostra potenza d’intuizione; gettatevi uno sguardo più indagatore.

Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete, avvicinatevi all’arco, passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta opposta....

Che cosa avete veduto?

Attendete!

Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo le linea interna – discendetevi con coraggio, con energia – raggiungete il fondo, arrestatevi, fermatevi un istante, esaminatelo attentamente; poi risalite fino alla punta d’onde eravate partito dapprima…

Tremate? Impallidite?

Non basta ancora!

Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate dall’una all’altra; poi guardate l’assieme della lettera, guardatela d’un sol colpo d’occhio, esaminatene tutti i profili, afferratene tutta l’espressione.... e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete annichiliti da quella vista?!?!

Ecco.

Io vi scrivo qui tutte le vocali:

a e i o u

Le vedete? Sono queste?

a e i o u

Ebbene?!

Ma non basta il vederle.

Sentiamone ora il suono.

A. – L’espressione della sincerità, della schiettezza, d’una sorpresa lieve ma dolce.

E – La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono.

I – Che gioia! Che gioia viva e profonda!

O – Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza rozza, ma maschia in quella lettera!

Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!!

Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono?

Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!

Vi voglio raccontare la mia vita.

Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una colpa, e ad una pena ignominiosa e immeritata.

Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino dal primo giorno della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò tutte le sventure della mia vita.

A sette anni fui avviato alle scuole.

Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere quella lettera, di scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le vocali mi arrestava, mio malgrado, d’innanzi all’U; mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile s’impossessava di me – io non poteva pronunciare quella vocale!

Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre, diventava convulsa e tremante allorchè mi accingeva a scrivere questa. Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo divergenti; ora formavano un V diritto, ora un V capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una linea serpeggiante e confusa.

Il maestro mi dava del quadrello sulle dita – io m’inacerbiva e piangeva.

Aveva dodici anni, allorchè un giorno vidi scritto sulla lavagna un U colossale, così:

U

Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lì, e pareva guardarmi, pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi nascesse improvvisamente nel cuore: certo il tempo della rivelazione era giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi posi il capo tra le mani e incominciai a guardarla.... Passai alcune ore in quella contemplazione. Fu allora che io compresi tutto, che io vidi tutto ciò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi, giacchè il dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia ripugnanza, del mio odio; e progettai una guerra mortale a quella lettera.

Incominciai col togliere quanti libri poteva a’ miei compagni, e cancellarvi tutti gli U che mi venivano sott’occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole.

Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni.

Tre U!! Io lo abborriva per questo, Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte all’U! Egli attribuì a sè medesimo quella minaccia. Fui ricacciato.

Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un progetto relativo all’abolizione di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere dell’alfabeto.

Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta così la mia avversione a quella vocale, incominciarono contro di me una guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da tutte le parti: essi ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi, sulla lavagna – i miei quaderni, le mie carte ne erano ripieni; nè io poteva difendermi da questa persecuzione sanguinosa ed atroce.

Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era scritta una lunga fila in questo modo infernale, così:

U U U U U U U U

Divenni furente! La vista di tutti quegli U disposti in questa guisa, collocati con questa gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii salirmi il sangue alle tempia, sconvolgersi la mia ragione.... Corsi alla scuola; ed afferrato alla gola uno de’ miei compagni, l’avrei per fermo soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano.

Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale!

Mi fu impedito di continuare i miei studii.

Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare da solo. Entrai in una nuova sfera di osservazioni, in una sfera più elevata, più attiva: studiai i rapporti che legavano ai destini dell’umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le fila, ne scopersi tutte le cause, ne indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso, nel quale mi proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da altre cause che dall’esistenza dell’U, e dall’uso che ne facciamo nella scritturazione e nel linguaggio; e come fosse possibile il sopprimerlo, e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia.

Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La società ricusava da me quel rimedio che solo potava ancora guarirla.

A venti anni mi accesi d’amore per una fanciulla, e ne fui riamato. Essa era divinamente buona, divinamente bella: ci amammo al solo vederci; e quando potei parlarle, le chiesi:

– Come vi chiamate?

– Ulrica!

– Ulrica! U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla violenza atroce, continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per me, ma nondimeno trovai la forza di rinunziarvi. Abbandonai Ulrica.

Tentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un altra fanciulla. Lo credereste? Seppi più tardi che si chiamava Giulia. Mi divisi anche da quella.

Ebbi un terzo amore. L’esperienza mi aveva reso cauto: m’informai del suo nome prima di darle il mio cuore.

Si chiamava Annetta. Finalmente! Apparecchiammo per le nozze, tutto era combinato, stabilito, allorchè, nell’esaminare il suo certificato di nascita, scopersi con orrore che il suo nome di Annetta, non era che un vezzeggiativo, un abbreviativo di Susanna, Susannetta, e oltre ciò – inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia.

Immaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei nomi! – lacerai sull’istante il contratto nuziale, rinfacciai a quel mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per sempre da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato.

Ma ohimè! io non poteva più amare, la mia affettività era esaurita, prostrata da tanti esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad Ulrica; le memorie del mio primo amore si ridestarono, la mia passione si raccese più viva.... Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla felicità che mi riprometteva da questo affetto.... ma non ne ebbi la forza – ci sposammo.

Da quell’istante incominciò la mia lotta.

Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva chiamarla con quella parola. Mia moglie!… la mia compagna, la donna amata da me.... portare un U nel suo nome!… Essa che aveva già fatto un acquisto così tremendo nel mio, perchè io pure ne aveva uno nel mio casato!

Era impossibile!

Un giorno le dissi:

– Mia buona amica, vedi quanto quest’U è terribile! rinunciavi, abbrevia o muta il tuo nome!… te ne scongiuro!

Essa non rispose, e sorrise.

Un’altra volta le dissi:

– Ulrica, il tuo nome mi è insopportabile.... esso mi fa male.... esso mi uccide! Rinunciavi.

Mia moglie sorrideva ancora, l’ingrata! sorrideva!,..

Una notte mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno affannoso.... Un U gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle sue aste immense, flessuose.... mi stringeva.... mi opprimeva, mi opprimeva.... Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di giunco, corsi da un notajo, e gli dissi:

– Venite, venite meco sull’istante a redigere un atto formale di rinuncia....

Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di mia moglie.

Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi:

– Ulrica, rinuncia al tuo nome, all’U detestabile del tuo nome!

Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva.

– Rinuncia, io le replicai con voce terribile, rinuncia a quell’U.,.. rinuncia al tuo nome abborrito!!....

Essa mi guardava ancora, e taceva!

Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno: mi avventai sopra di lei, e la percossi col mio bastone.

Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza.

I giudici assolvendomi, mi condannarono ad una pena più atroce, alla detenzione in questo Ospizio di pazzi.

Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perchè ho scoperto il segreto dei loro destini! dell’avversità dei loro destini! perchè ho tentato di migliorarli?.... Ingrati!

Sì, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo, inerme! faccia a faccia col mio nemico, con questo U detestato che io vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia, in tutti gli oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere.

Sia.

Non temo la morte: l’affretto come il termine unico de’ miei mali.

Sarei stato felice se avessi potuto beneficare l’umanità persuadendola a sopprimere quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non ne avessi conosciuto i misteri.

Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli uomini; forse il mio esempio li spronerà ad imitarmi....

Che io lo speri!

Che la mia morte preceda di pochi giorni l’epoca della loro grande emancipazione, dell’emancipazione dall’U, dell’emancipazione da questa terribile vocale!!!

* * *

L’infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l’11 settembre 1865.

UN OSSO DI MORTO

Lascio a chi mi legge l’apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.

Nel 1855. domiciliatomi a Pavia, m’era dato allo studio del disegno in una scuola privata di quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno aveva stretto relazione con certo Federico M. che era professore di patologia e di clinica per l’insegnamento universitario, e che morì di apoplessia fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo amantissimo delle scienze, e della sua in particolare – aveva virtù e doti di mente non comuni – senonchè come tutti gli anatomisti ed i clinici in genere, era scettico profondamente e inguaribilmente – — lo era per convinzione, nè io potei mai indurlo alle mie credenze, per quanto mi vi adoprassi nelle discussioni appassionate e calorose che avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno – e piacemi rendere questa giustizia alla sua memoria – egli si era mostrato sempre tollerante di quelle convinzioni che non erano le sue; ed io e quanti il conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi giorni prima della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue lezioni di anatomia, adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni giovevoli alla mia arte del disegno: acconsentii benchè repugnante; e spinto dalla vanità di parergli meno pauroso che nol fossi, lo richiesi di alcune ossa umane che egli mi diede e che io collocai sul caminetto della mia stanza. Colla morte di lui io aveva cessato di frequentare il corso anatomico, e più tardi aveva anche desistito dallo studio del disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti anni quelle ossa, che l’abitudine di vederle me le aveva rese quasi indifferenti, e non sono più di pochi mesi che, colto da subite paure, mi risolsi a seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di ginocchio. Questo ossicino sferico e liscio che per la sua forma e per la sua piccolezza io aveva destinato, fino dal primo istante che l’ebbi, a compiere l’ufficio d’un premi-carte, come quello che non mi richiamava alcuna idea spaventosa, si trovava già collocato da undici anni sul mio tavolino, allorchè ne fui privato nel modo inesplicabile che sto per raccontare.

Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un magnetizzatore assai noto tra gli amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze per essere ammesso ad una delle sue sedute spiritiche. Ricevetti poco dopo invito di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più volte lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L’insistenza del mio amor proprio mi vi aveva spinto mio malgrado. Non starò a discorrere qui delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti: basterà il dire che io fui sì meravigliato delle risposte che ascoltammo da alcuni spiriti, e la mia mente fu sì colpita da quei prodigi, che superato ogni timore, concepii il desiderio di chiamarne uno di mia conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che aveva già meditate e discusse nella mia mente. Manifestata questa volontà, venni introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato solo; e poichè l’impazienza e il desiderio d’invocare molti spiriti a un tempo mi rendevano titubante sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo spirito invocato sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra natura, mi venne in memoria il dottore Federico M. col quale, vivente, aveva avuto delle vive discussioni su questo argomento, e deliberai di chiamarlo. Fatta questa scelta, mi sedetti ad un tavolino, disposi innanzi a me un foglietto di carta, intinsi la penna nel calamaio, mi posi in atteggiamento di scrivere, e concentratomi per quanto era possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di volizione, e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore venisse.

Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d’indugio mi accorsi per sensazioni nuove e inesplicabili che io non era più solo nella stanza, sentii per così dire la sua presenza; e prima che avessi saputo risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa, mossa come da una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me inconsapevole, queste parole:

«Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui delle invocazioni più esigenti mi impedivano di venire, nè potrò trattenermi ora qui, nè rispondere alle interrogazioni che avete deliberato di farmi. Nondimeno vi ho obbedito per compiacervi, e perchè aveva bisogno io stesso di voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione col vostro spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa che aveva sottratte al gabinetto anatomico di Pavia, e tra le quali vi era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex inserviente dell’Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato arbitrariamente il cadavere. Sono ora undici anni che egli mette alla tortura il mio spirito per riavere quell’ossicino inconcludente, nè cessa di rimproverarmi amaramente quell’atto, di minacciarmi, e di insistere per la restituzione della sua rotella. Ve ne scongiuro per la memoria forse non ingrata che avrete serbato di me, se voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo debito tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del Mariani. Rispondete.»

Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di fatto quella sciagurata rotella, e che era felice di poterla restituire al suo proprietario legittimo, che, non v’essendo altra via, mandasse da me il Mariani. Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come alleggerita, il mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita come dianzi, e compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era partito.

Stetti allora un altro istante ad attendere – la mia mente era in uno stato di esaltazione impossibile a definirsi.

In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di prima, benchè meno intensi; e la mia mano trascinata dalla volontà dello spirito, scrisse queste altre parole:

«Lo spirito di Pietro Mariani ex inserviente dell’Università di Pavia, è innanzi a voi, e reclama la rotella del suo ginocchio sinistro che ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete.»

Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello del dottore. Io replicai allo spirito: Io sono dispostissimo a restituire a Pietro Mariani la rotella del suo ginocchio sinistro, e lo prego anzi a perdonarmene la detenzione illegale; desidero però di conoscere come potrò effettuare la restituzione che mi è domandata.

Allora la mia mano tornò a scrivere;

«Pietro Mariani, ex inserviente dell’Università di Pavia, verrà a riprendere egli stesso la sua rotella.»

– Quando? chiesi io atterrito.

– E la mano vergò istantaneamente una sola parola «Stanotte.»

Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore cadaverico, io mi affrettai ad esclamare, mutando tuono di voce ad un tratto: «Per carità… vi scongiuro.... non vi disturbate.... manderò io stesso.... vi saranno altri mezzi meno incomodi…» Ma non aveva finito la frase che mi accorsi per le sensazioni già provate dapprima, che lo spirito di Mariani si era allontanato, e che non v’era più mezzo ad impedire la sua venuta.

È impossibile che io possa rendere qui colle parole l’angoscia delle sensazioni che provai in quel momento. Io era in preda ad un panico spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi della città suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le fiamme nei fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante – tutto mi pareva più tetro del solito. Camminai per un pezzo senza sapere dove dirigermi: un istinto più potente della mia volontà mi allontanava dalla mia abitazione. Ove attingere il coraggio di andarvi? Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la visita di uno spettro – era un’idea da morirne, era una prevenzione troppo terribile.

Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual via, mi trovassi di fronte a una bettola su cui vidi scritto a caratteri intagliati in un’impannata, e illuminati da una fiamma interna «Vini nazionali» e io dissi senz’ altro a me stesso: Entriamovi, è meglio così, e non è un cattivo rimedio; cercherò nel vino quell’ardimento che non ho più il potere di chiedere alla mia ragione. E cacciatomi in un angolo d’una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che bevetti con avidità, benchè repugnante per abitudine all’abuso di quel liquore. Ottenni l’effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva sensibilmente, i miei pensieri si dilucidavano, le mie idee parevano riordinarsi, quantunque con un disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai talmente il mio coraggio che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi avviai risoluto verso casa.

Giunto in stanza, un po’ barcollante pel troppo vino bevuto, accesi il lume, mi spogliai per metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi un occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi. Ma era indarno. Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come fossero di metallo fuso: e durante quell’assopimento incominciai ad avvedermi che dei fenomeni singolari si compievano intorno a me.

Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che era d’altronde una stearica pura, si sollevavano in giro delle spire di fumo sì fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo nascondevano, e assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo: l’atmosfera della stanza divenuta ad un tratto soffocante, era impregnata di un odore simile a quello che esala dalla carne viva abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un brontolio incessante di cui non sapeva indovinare le cause, e la rotella che vedeva lì, tra le mie carte, pareva muoversi e girare sulla superficie del tavolo, come in preda a convulsioni strane e violenti.

Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva distogliere la mia attenzione da quella rotella. I miei sensi, le mie facoltà, le mie idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto mi attraeva a lei; io voleva sollevarmi, discendere dal letto, uscire, ma non mi era possibile; e la mia desolazione era giunta a tal grado che quasi non ebbi a provare alcun spavento, allorchè dissipatosi a un tratto il fumo emanato dal lucignolo della candela, vidi sollevarsi la tenda dell’uscio e comparire il fantasma aspettato.

Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della stanza, s’inchinò cortesemente e mi disse: «Io sono Pietro Mariani, e vengo a riprendere, come vi ho promesso la mia rotella.»

E poichè il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli continuò con dolcezza: «Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della notte.... in quest’ora.... capisco che la è un’ora incomoda… ma…»

– Oh! è nulla, è nulla, io interruppi rassicurato da tanta cortesia, io vi debbo anzi ringraziare della vostra visita… io mi terrò sempre onorato di ricevervi nella mia casa…

– Ve ne son grato, disse lo spettro, ma desidero ad ogni modo giustificarmi dell’insistenza con cui ho reclamato la mia rotella sia presso di voi, sia presso l’egregio dottore dal quale l’avete ricevuta: osservate.