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Kitabı oku: «La coscienza di Zeno», sayfa 3

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– Devo dirti che ho fatto testamento.

Io, per stornarlo dal suo incubo, vinsi subito la sorpresa che mi produsse la sua comunicazione e gli dissi:

– Io non avrò mai questo disturbo perché spero che prima di me muoiano tutti i miei eredi!

Egli subito si inquietò del mio riso su una cosa tanto seria e ritrovò tutto il suo desiderio di punirmi. Così gli fu facile di raccontarmi il bel tiro che m’aveva fatto mettendomi sotto la tutela dell’Olivi.

Devo dirlo: io mi dimostrai un buon ragazzo; rinunziai a fare un’obiezione qualunque pur di strapparlo a quel pensiero che lo faceva soffrire. Dichiarai che qualunque fosse stata la sua ultima volontà io mi vi sarei adattato.

– Forse – aggiunsi – io saprò comportarmi in modo che tu ti troverai indotto a cambiare le tue ultime volontà.

Ciò gli piacque anche perché vedeva ch’io gli attribuivo una vita lunga, anzi lunghissima. Tuttavia volle da me addirittura un giuramento, che se egli non avesse disposto altrimenti, io non avrei mai tentato di sminuire le facoltà dell’Olivi. Io giurai visto ch’egli non volle contentarsi della mia parola d’onore. Fui tanto mite allora, che quando sono torturato dal rimorso di non averlo amato abbastanza prima che morisse, rievoco sempre quella scena. Per essere sincero devo dire che la rassegnazione alle sue disposizioni mi fu facile perché in quell’epoca l’idea di essere costretto a non lavorare m’era piuttosto simpatica.

Circa un anno prima della sua morte, io seppi una volta intervenire abbastanza energicamente a vantaggio della sua salute. M’aveva confidato di sentirsi male ed io lo costrinsi di andare da un medico dal quale anche lo accompagnai. Costui prescrisse qualche medicinale e ci disse di ritornare da lui qualche settimana dopo. Ma mio padre non volle, dichiarando che odiava i medici quanto i becchini e non prese neppure la medicina prescrittagli perché anch’essa gli ricordava medici e becchini. Restò per un paio di ore senza fumare e per un solo pasto senza vino. Si sentì molto bene quando poté congedarsi dalla cura, e io, vedendolo più lieto, non ci pensai più.

Poi lo vidi talvolta triste. Ma mi sarei meravigliato di vederlo lieto, solo e vecchio com’era.

* * *

Una sera della fine di marzo arrivai un po’ più tardi del solito a casa. Niente di male: ero caduto nelle mani di un dotto amico che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo. Era la prima volta che si voleva da me ch’io pensassi a quelle origini, eppure m’adattai alla lunga lezione per compiacere l’amico. Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e fosco, compresi i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m’adattai a quella sofferenza per ben due ore. La mia solita debolezza! Scommetto che oggi ancora sono tanto incapace di resistenza, che se qualcuno ci si mettesse sul serio potrebbe indurmi a studiare per qualche tempo l’astronomia.

Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. A questa si accedeva per una breve strada carrozzabile. Maria, la nostra cameriera, m’aspettava alla finestra e sentendomi avvicinare gridò nell’oscurità:

– È lei, signor Zeno?

Maria era una di quelle fantesche come non se ne trovano più. Era da noi da una quindicina d’anni. Metteva mensilmente alla Cassa di Risparmio una parte della sua paga per i suoi vecchi anni, risparmi che però non le servirono perché essa morì in casa nostra poco dopo il mio matrimonio sempre lavorando.

Essa mi raccontò che mio padre era ritornato a casa da qualche ora, ma che aveva voluto attendermi a cena. Allorché essa aveva insistito perché egli intanto mangiasse, era stata mandata via con modi poco gentili. Poi egli aveva domandato di me parecchie volte, inquieto e ansioso. Maria mi fece intendere che pensava che mio padre non si sentisse bene. Gli attribuiva una difficoltà di parola e il respiro mozzo. Debbo dire ch’essendo sempre sola con lui, essa spesso s’era fitto in testa il pensiero ch’egli fosse malato. Aveva poche cose da osservare la povera donna nella casa solitaria e – dopo l’esperienza fatta con mia madre – essa s’aspettava che tutti avessero da morire prima di lei.

Corsi alla camera da pranzo con una certa curiosità e non ancora impensierito. Mio padre si levò subito dal sofà su cui giaceva e m’accolse con una grande gioia che non seppe commovermi perché vi scorsi prima di tutto l’espressione di un rimprovero. Ma intanto bastò a tranquillarmi perché la gioia mi parve un segno di salute. Non scorsi in lui traccia di quel balbettamento e respiro mozzo di cui aveva parlato Maria. Ma, invece di rimproverarmi, egli si scusò d’essere stato caparbio.

– Che vuoi farci? – mi disse bonariamente. – Siamo noi due soli a questo mondo e volevo vederti prima di coricarmi.

Magari mi fossi comportato con semplicità e avessi preso fra le mie braccia il mio caro babbo divenuto per malattia tanto mite e affettuoso! Invece cominciai a fare freddamente una diagnosi: Il vecchio Silva si era tanto mitigato? Che fosse malato? Lo guardai sospettosamente e non trovai di meglio che di fargli un rimprovero:

– Ma perché hai atteso finora per mangiare? Potevi mangiare, eppoi attendermi!

Egli rise assai giovanilmente:

– Si mangia meglio in due.

Poteva questa lietezza essere anche il segno di un buon appetito: io mi tranquillai e mi misi a mangiare. Con le sue ciabatte di casa, con passo malfermo, egli s’accostò al desco e occupò il suo posto solito. Poi stette a guardarmi come mangiavo, mentre lui, dopo un paio di cucchiaiate scarse, non prese altro cibo e allontanò anche da sé il piatto che gli ripugnava. Ma il sorriso persisteva sulla sua vecchia faccia. Soltanto mi ricordo, come se si trattasse di cosa avvenuta ieri, che un paio di volte ch’io lo guardai negli occhi, egli stornò il suo sguardo dal mio. Si dice che ciò è un segno di falsità, mentre io ora so ch’è un segno di malattia. L’animale malato non lascia guardare nei pertugi pei quali si potrebbe scorgere la malattia, la debolezza.

Egli aspettava sempre di sentire come io avessi impiegato quelle tante ore in cui egli m’aveva atteso. E vedendo che ci teneva tanto, cessai per un istante di mangiare e gli dissi secco, secco, ch’io fino a quell’ora avevo discusse le origini del Cristianesimo.

Mi guardò dubbioso e perplesso:

– Anche tu, ora, pensi alla religione?

Era evidente che gli avrei dato una grande consolazione se avessi accettato di pensarci con lui. Invece io, che finché mio padre era vivo mi sentivo combattivo (e poi non più) risposi con una di quelle solite frasi che si sentono tutti i giorni nei caffè situati presso le Università:

– Per me la religione non è altro che un fenomeno qualunque che bisogna studiare.

– Fenomeno? – fece lui sconcertato. Cercò una pronta risposta e aperse la bocca per darla. Poi esitò e guardò il secondo piatto, che giusto allora Maria gli offerse e ch’egli non toccò. Quindi per tapparsi meglio la bocca, vi ficcò un mozzicone di sigaro che accese e che lasciò subito spegnere. S’era così concessa una sosta per riflettere tranquillamente. Per un istante mi guardò risoluto:

– Tu non vorrai ridere della religione?

Io, da quel perfetto studente scioperato che sono sempre stato, con la bocca piena, risposi:

– Ma che ridere! Io studio!

Egli tacque e guardò lungamente il mozzicone di sigaro che aveva deposto su un piatto. Capisco ora perché egli mi avesse detto ciò. Capisco ora tutto quello che passò per quella mente già torbida, e sono sorpreso di non averne capito nulla allora. Credo che allora nel mio animo mancasse l’affetto che fa intendere tante cose. Poi mi fu tanto facile! Egli evitava di affrontare il mio scetticismo: una lotta troppo difficile per lui in quel momento; ma riteneva di poter attaccarlo mitemente di fianco come conveniva ad un malato. Ricordo che quando parlò, il suo respiro mozzava e ritardava la sua parola. È una grande fatica prepararsi ad un combattimento. Ma pensavo ch’egli non si sarebbe rassegnato di coricarsi senza darmi il fatto mio e mi preparai a discussioni che poi non vennero.

– Io – disse, sempre guardando il suo mozzicone di sigaro oramai spento, – sento come la mia esperienza e la scienza mia della vita sono grandi. Non si vivono inutilmente tanti anni. Io so molte cose e purtroppo non so insegnartele tutte come vorrei. Oh, quanto lo vorrei! Vedo dentro nelle cose, e anche vedo quello ch’è giusto e vero e anche quello che non lo è.

Non c’era da discutere. Borbottai poco convinto e sempre mangiando:

– Sì! Papà!

Non volevo offenderlo.

– Peccato che sei venuto tanto tardi. Prima ero meno stanco e avrei saputo dirti molte cose.

Pensai che volesse ancora seccarmi perché ero venuto tardi e gli proposi di lasciare quella discussione per il giorno dopo.

– Non si tratta di una discussione – rispose egli trasognato – ma di tutt’altra cosa. Una cosa che non si può discutere e che saprai anche tu non appena te l’avrò detta. Ma il difficile è dirla!

Qui ebbi un dubbio:

– Non ti senti bene?

– Non posso dire di star male, ma sono molto stanco e vado subito a dormire.

Suonò il campanello e nello stesso tempo chiamò Maria con la voce. Quand’essa venne, egli domandò se nella sua stanza tutto era pronto. S’avviò poi subito strascicando le ciabatte al suolo. Giunto accanto a me, chinò la testa per offrirmi la sua guancia al bacio di ogni sera.

Vedendolo moversi così malsicuro, ebbi di nuovo il dubbio che stesse male e glielo domandai. Ripetemmo ambedue più volte le stesse parole ed egli mi confermò ch’era stanco ma non malato. Poi soggiunse:

– Adesso penserò alle parole che ti dirò domani. Vedrai come ti convinceranno.

– Papà – dichiarai io commosso – ti sentirò volentieri.

Vedendomi tanto disposto a sottomettermi alla sua esperienza, egli esitò di lasciarmi: bisognava pur approfittare di un momento tanto favorevole! Si passò la mano sulla fronte e sedette sulla sedia sulla quale s’era appoggiato per porgermi la sua guancia al bacio. Ansava leggermente.

– Curioso! – disse. – Non so dirti nulla, proprio nulla.

Guardò intorno a sé come se avesse cercato di fuori quello che nel suo interno non arrivava ad afferrare.

– Eppure so tante cose, anzi tutte le cose io so. Dev’essere l’effetto della mia grande esperienza.

Non soffriva tanto di non saper esprimersi perché sorrise alla propria forza, alla propria grandezza.

Io non so perché non abbia chiamato subito il dottore. Invece debbo confessarlo con dolore e rimorso: considerai le parole di mio padre come dettate da una presunzione ch’io credevo di aver più volte constatata in lui. Non poteva però sfuggirmi l’evidenza della sua debolezza e solo perciò non discussi. Mi piaceva di vederlo felice nella sua illusione di essere tanto forte quand’era invece debolissimo. Ero poi lusingato dall’affetto che mi dimostrava manifestando il desiderio di consegnarmi la scienza di cui si credeva possessore, per quanto fossi convinto di non poter apprendere niente da lui. E per lusingarlo e dargli pace gli raccontai che non doveva sforzarsi per trovare subito le parole che gli mancavano, perché in frangenti simili i più alti scienziati mettevano le cose troppo complicate in deposito in qualche cantuccio del cervello perché si semplificassero da sé.

Egli rispose:

– Quello ch’io cerco non è complicato affatto. Si tratta anzi di trovare una parola, una sola e la troverò! Ma non questa notte perché farò tutto un sonno, senza il più piccolo pensiero.

Tuttavia non si levò dalla sedia. Esitante e scrutando per un istante il mio viso, mi disse:

– Ho paura che non saprò dire a te quello che penso, solo perché tu hai l’abitudine di ridere di tutto.

Mi sorrise come se avesse voluto pregarmi di non risentirmi per le sue parole, si alzò dalla sedia e mi offerse per la seconda volta la sua guancia. Io rinunziai a discutere e convincerlo che a questo mondo v’erano molte cose di cui si poteva e doveva ridere e volli rassicurarlo con un forte abbraccio. Il mio gesto fu forse troppo forte, perché egli si svincolò da me più affannato di prima, ma certo fu da lui inteso il mio affetto, perché mi salutò amichevolmente con la mano.

– Andiamo a letto! – disse con gioia e uscì seguito da Maria.

E rimasto solo (strano anche questo!) non pensai alla salute di mio padre, ma, commosso e – posso dirlo – con ogni rispetto filiale, deplorai che una mente simile che mirava a mète alte, non avesse trovata la possibilità di una coltura migliore. Oggi che scrivo, dopo di aver avvicinata l’età raggiunta da mio padre, so con certezza che un uomo può avere il sentimento di una propria altissima intelligenza che non dia altro segno di sé fuori di quel suo forte sentimento. Ecco: si dà un forte respiro e si accetta e si ammira tutta la natura com’è e come, immutabile, ci è offerta: con ciò si manifesta la stessa intelligenza che volle la Creazione intera. Da mio padre è certo che nell’ultimo istante lucido della sua vita, il suo sentimento d’intelligenza fu originato da una sua improvvisa ispirazione religiosa, tant’è vero che s’indusse a parlarmene perché io gli avevo raccontato di essermi occupato delle origini del Cristianesimo. Ora però so anche che quel sentimento era il primo sintomo dell’edema cerebrale.

Maria venne a sparecchiare e a dirmi che le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Così andai a dormire anch’io del tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come una ninna nanna che s’allontanò sempre di più da me, perché mi immersi nel sonno.

Non so per quanto tempo io abbia dormito. Fui destato da Maria. Pare che più volte essa fosse venuta nella mia stanza a chiamarmi e fosse poi corsa via. Nel mio sonno profondo ebbi dapprima un certo turbamento, poi intravvidi la vecchia che saltava per la camera e infine capii. Mi voleva svegliare, ma quando vi riuscì, essa non era più nella mia stanza. Il vento continuava a cantarmi il sonno ed io, per essere veritiero, debbo confessare che andai alla stanza di mio padre col dolore di essere stato strappato dal mio sonno. Ricordavo che Maria vedeva sempre mio padre in pericolo. Guai a lei se egli non fosse stato ammalato questa volta!

La stanza di mio padre, non grande, era ammobiliata un po’ troppo. Alla morte di mia madre, per dimenticare meglio, egli aveva cambiato di stanza, portando con sé nel nuovo ambiente più piccolo, tutti i suoi mobili. La stanza illuminata scarsamente da una fiammella a gas posta sul tavolo da notte molto basso, era tutta in ombra. Maria sosteneva mio padre che giaceva supino, ma con una parte del busto sporgente dal letto. La faccia di mio padre coperta di sudore rosseggiava causa la luce vicina. La sua testa poggiava sul petto fedele di Maria. Ruggiva dal dolore e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giù per il mento. Guardava immoto la parete di faccia e non si volse quand’io entrai.

Maria mi raccontò di aver sentito il suo lamento e di essere arrivata in tempo per impedirgli di cadere dal letto. Prima – essa assicurava – egli s’era agitato di più, mentre ora le pareva relativamente tranquillo, ma non si sarebbe rischiata di lasciarlo solo. Voleva forse scusarsi di avermi chiamato mentre io già avevo capito che aveva fatto bene a destarmi. Parlandomi essa piangeva, ma io ancora non piansi con lei ed anzi l’ammonii di stare zitta e di non aumentare coi suoi lamenti lo spavento di quell’ora. Non avevo ancora capito tutto. La poverina fece ogni sforzo per calmare i suoi singulti.

M’avvicinai all’orecchio di mio padre e gridai:

– Perché ti lamenti, papà? Ti senti male?

Credo ch’egli sentisse, perché il suo gemito si fece più fioco ed egli stornò l’occhio dalla parete di faccia come se avesse tentato di vedermi; ma non arrivò a rivolgerlo a me. Più volte gli gridai nell’orecchio la stessa domanda e sempre con lo stesso esito. Il mio contegno virile sparve subito. Mio padre, a quell’ora, era più vicino alla morte che a me, perché il mio grido non lo raggiungeva più. Mi prese un grande spavento e ricordai prima di tutto le parole che avevamo scambiate la sera prima. Poche ore dopo egli s’era mosso per andar a vedere chi di noi due avesse ragione. Curioso! Il mio dolore veniva accompagnato dal rimorso. Celai il capo sul guanciale stesso di mio padre e piansi disperatamente emettendo i singulti che poco prima avevo rimproverati a Maria.

Toccò ora a lei di calmarmi, ma lo fece in modo strano. Mi esortava alla calma parlando però di mio padre, che tuttavia gemeva con gli occhi anche troppo aperti, come di un uomo morto.

– Poverino! – diceva. – Morire così! Con questa ricca e bella chioma. – L’accarezzava. Era vero. La testa di mio padre era incoronata da una ricca, bianca chioma ricciuta, mentre io a trent’anni avevo già i capelli molto radi.

Non ricordai che a questo mondo c’erano i medici e che si supponeva che talvolta portassero la salvezza. Io avevo già vista la morte su quella faccia sconvolta dal dolore e non speravo più. Fu Maria che per prima parlò del medico e andò poi a destare il contadino per mandarlo in città.

Restai solo a sostenere mio padre per una decina di minuti che mi parvero un’eternità. Ricordo che cercai di mettere nelle mie mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore. Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l’amavo tanto?

Quando venne il contadino, mi recai nella mia stanza per scrivere un biglietto e mi fu difficile di mettere insieme quel paio di parole che dovevano dare al dottore un’idea del caso onde potesse portare subito con sé anche dei medicinali. Continuamente vedevo dinanzi a me la sicura imminente morte di mio padre e mi domandavo: «Che cosa farò io ora a questo mondo?».

Poi seguirono delle lunghe ore d’attesa. Ho un ricordo abbastanza esatto di quelle ore. Dopo la prima non occorse più sostenere mio padre che giaceva privo di sensi composto nel letto. Il suo gemito era cessato, ma la sua insensibilità era assoluta. Aveva una respirazione frettolosa, che io, quasi inconsciamente, imitavo. Non potevo respirare a lungo su quel metro e m’accordavo delle soste sperando di trascinare con me al riposo anche l’ammalato. Ma egli correva avanti instancabile. Tentammo invano di fargli prendere un cucchiaio di tè. La sua incoscienza diminuiva quando si trattava di difendersi da un nostro intervento. Risoluto, chiudeva i denti. Anche nell’incoscienza veniva accompagnato da quella sua indomabile ostinazione. Molto prima dell’alba la sua respirazione mutò di ritmo. Si raggruppò in periodi che esordivano con alcune respirazioni lente che avrebbero potuto sembrare di uomo sano, alle quali seguivano altre frettolose che si fermavano in una sosta lunga, spaventosa, che a Maria e a me sembrava l’annunzio della morte. Ma il periodo riprendeva sempre circa eguale, un periodo musicale di una tristezza infinita, così privo di colore. Quella respirazione che non fu sempre uguale, ma sempre rumorosa, divenne come una parte di quella stanza. Da quell’ora vi fu sempre, per lungo e lungo tempo!

Passai alcune ore gettato su un sofà, mentre Maria stava seduta accanto al letto. Su quel sofà piansi le mie più cocenti lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime.

Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali dolorosi ricordi, scopro che l’immagine che m’ossessionò al primo mio tentativo di vedere nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un’erta, io l’ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno così le locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi s’accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle. Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m’aveva riportato a quella notte, alle ore più importanti della mia vita.

Il dottore Coprosich arrivò alla villa quando ancora non albeggiava, accompagnato da un infermiere che portava una cassetta di medicinali. Aveva dovuto venir a piedi perché, a causa del violento uragano, non aveva trovata una vettura.

Lo accolsi piangendo ed egli mi trattò con grande dolcezza incorandomi anche a sperare. Eppure devo subito dire, che dopo quel nostro incontro, a questo mondo vi sono pochi uomini che destino in me una così viva antipatia come il dottor Coprosich. Egli, oggi, vive ancora, decrepito e circondato dalla stima di tutta la città. Quando lo scorgo così indebolito e incerto camminare per le vie in cerca di un poco d’attività e d’aria, in me, ancora adesso, si rinnova l’avversione.

Allora il dottore avrà avuto poco più di quarant’anni. S’era dedicato molto alla medicina legale e, per quanto fosse notoriamente un buonissimo italiano, gli venivano affidate dalle imperial regie autorità le perizie più importanti. Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un’altra sua debolezza gli dava dell’importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici. Erano degli occhi spiacevoli allora. Se aveva da dire anche una sola parola rimetteva sul naso gli occhiali ed ecco che i suoi occhi ridivenivano quelli di un buon borghese qualunque che esamina accuratamente le cose di cui parla.

Si sedette in anticamera e riposò per qualche minuto. Mi domandò di raccontargli esattamente quello ch’era avvenuto dal primo allarme fino al suo arrivo. Si levò gli occhiali e fissò con i suoi occhi strani la parete dietro di me.

Cercai di essere esatto, ciò che non fu facile dato lo stato in cui mi trovavo. Ricordavo anche che il dottor Coprosich non tollerava che le persone che non sapevano di medicina usassero termini medici atteggiandosi a sapere qualche cosa di quella materia. E quando arrivai a parlare di quella che a me era apparsa quale una «respirazione cerebrale» egli si mise gli occhiali per dirmi: «Adagio con le definizioni. Vedremo poi di che si tratti». Avevo parlato anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato. Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse intensamente a qualche cosa che s’aggirava nella sua testa e ch’egli non arrivava a formulare. Il dottore, con tanto d’occhiali sul naso, esclamò trionfalmente:

– So quello che s’aggirava nella sua testa!

Lo sapevo anch’io, ma non lo dissi per non far arrabbiare il dottor Coprosich: erano gli edemi.

Andammo al letto dell’ammalato. Con l’aiuto dell’infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

– Basta! – disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

– Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.

Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

Era perciò senza occhiali e quando l’alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L’evidenza della mia colpa m’atterrò, ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch’io perciò la deridevo.

Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. – Fra un paio d’ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, – disse.

– C’è qualche speranza dunque? – esclamai io.

– Nessunissima! – rispose seccamente. – Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po’ della sua coscienza, forse per impazzire.

Alzò le spalle e rimise a posto l’asciugamano. Quell’alzata di spalle significava proprio un disdegno per l’opera propria e m’incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell’alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

– Dottore! – supplicai. – Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l’avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull’opera sua.

Con grande bontà egli mi disse:

– Via, si calmi. La coscienza dell’infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch’è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l’infermiere resterà qui.

Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l’infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l’ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m’arrabbiai. Poteva esserci un’azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare – con quell’affanno! – la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.

Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.

Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l’ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c’erano altri posti a questo mondo!

Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:

– Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell’istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz’ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.

Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d’impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull’importanza che poteva avere l’intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz’ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.

Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!

Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev’essere stato per tale riguardo ch’io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio cuore, di quei giorni, non v’è altro residuo che l’antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.

Più tardi andammo ancora una volta al letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta una pezzuola sulla tempia per coprire le ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle subito provare se la sua coscienza avesse aumentato e gli gridò nelle orecchie. L’ammalato non reagì in alcun modo.

– Meglio così! – dissi io con grande coraggio, ma sempre piangendo.

– L’effetto atteso non potrà mancare! – rispose il dottore. – Non vede che la respirazione s’è già modificata?

Infatti, frettolosa e affaticata, la respirazione non formava più quei periodi che mi avevano spaventato.

L’infermiere disse qualche cosa al medico che annuì. Si trattava di provare al malato la camicia di forza. Trassero quell’ordigno dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo a star seduto sul letto. Allora l’ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo che subito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell’ammalato ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe bambole.