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Kitabı oku: «Una vita», sayfa 2

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III

La famiglia Lanucci, presso la quale Alfonso stava a fitto, abitava un piccolo quartiere di una casa di città vecchia, verso San Giusto. Egli aveva perciò da camminare per oltre un quarto d’ora per andare all’ufficio da casa.

La signora Lucinda Lanucci aveva dimorato per un’estate, poco prima di maritarsi, nel villaggio, in compagnia di una famiglia presso la quale stava quale governante. Aveva fatto allora la conoscenza della madre di Alfonso, la quale le aveva raccomandato il figliuolo. Forse la lettera di raccomandazione della signora Carolina non sarebbe valsa gran che, se i Lanucci non fossero stati alla ricerca d’un inquilino per una stanzuccia che v’era in casa oltre il bisogno della famigliuola. Alfonso capitò dunque a proposito e venne accolto bene.

Negli ultimi anni, traviato dall’ambizione dell’indipendenza, il signor Lanucci aveva abbandonato un impiego non splendido ma ch’era bastato a nutrire la famigliuola e s’era messo a fare l’agente, a rappresentare ogni e qualunque specie di case, in tutti gli articoli. Il poveretto scriveva tutto il giorno offerte a case di cui toglieva gl’indirizzi dalle quarte pagine dei giornali, ma guadagnava sempre meno che a suo tempo da impiegato, e perciò l’umore in famiglia era triste, le sue condizioni essendo precarie dopo di essere state discrete.

Quest’umore aveva aumentato la nostalgia in Alfonso, perché è la gente triste che fa tristi i luoghi.

Lo trattavano affettuosamente, ma in Alfonso il signor Lanucci destava una compassione dolorosa, specialmente quando lo vedeva costringersi a usargli cortesie, a sorridergli, a dimostrare interessamento ai fatti suoi, mentre comprendeva che non ne poteva venir considerato che quale un cespite di rendita.

La signora Lanucci, avvezza da lungo tempo a consolare il marito dell’infruttuosità dei suoi sforzi, aveva assunto la medesima parte con Alfonso e finito col partecipare tanto intensamente delle sorti del giovine, che ne parlava come di affari proprii. L’invito del signor Maller, di cui Alfonso le aveva parlato, aveva destato in lei le maggiori lusinghe; ne parlava come se da quell’invito la fortuna dell’impiegato venisse assicurata. Ci era tanto poco avvezza, che la buona fortuna la sorprendeva.

Lucinda poteva avere quarant’anni forse, ma, piccola e grassa e pel grigio abbondante dei capelli, ne dimostrava di più. Non era stata mai bella. Aveva apportato al marito qualche poco di dote ch’era stata assorbita da una speculazione in lotti turchi. Era intelligente, vivace, amava di parlare molto e la sua faccia pallida da sofferente le aveva subito conquistata la simpatia di Alfonso.

Pareva volesse bene al marito; al figliuolo Gustavo, diciottenne, il buona lana come ella lo chiamava, diceva di volerne poco; il suo maggior affetto era per la figliuola Lucia, sedicenne, la quale lavorava da sarta in case private. La madre guadagnava più di tutti quale maestra in una scuola popolare, ma senza i proventi di Lucia i mezzi non sarebbero bastati. La signora Lucinda era desolata di veder la figliuola costretta a passare la gioventù sulla macchina da cucire mentre ella l’aveva passata meglio, perché, da benestante, aveva studiato e s’era divertita. Nelle ristrettezze ella non aveva potuto far nulla per l’educazione di Lucia, ma di questo non si lagnava non avvedendosi che il risultato corrispondeva alla spesa fatta. Ella era intelligente e non s’accorgeva che il discorrere della figliuola era insipido, disgraziato. La vedeva bella mentre allora Lucia era magra, anemica, come tutti in famiglia, bionda di un biondo tendente al rosso e, causa la magrezza, con la bocca che voleva arrivare alle orecchie. La madre, per deliberato proposito, – era democratica sfegatata, – aveva un contegno da popolana e bestemmiava anche; la figliuola aveva appreso con facilità, nelle case borghesi ove frequentava, le forme esterne da signorina, le quali in quella casa stonavano. Gustavo, rozzo e semplice, spesso la derideva; si guadagnò l’antipatia della madre più per questo che per la sua scioperataggine.

Alfonso trovò il suo vestito nero steso sul letto, piegato accuratamente. La signora Lanucci aveva pensato a tutto, dalla cravatta agli stivali lucidi preparati a piedi del letto. Anche Alfonso si sentiva agitato dalla visita che doveva fare. Non aveva le illusioni nutrite dalla signora Lanucci, ma, per contagio, era agitato più che la cosa non valesse. Smise il suo vestito d’ogni giorno e lo gettò sul letto come se non avesse avuto da indossarlo più.

Quando entrò nel piccolo tinello ove desinava la famigliuola, poté illudersi di essere vestito molto bene. Il signor Lanucci lo guardò e volle apparire ammirato dell’aspetto di Alfonso. Gustavo, sucido, con la bocca piena, gli si avvicinò con un sorriso veramente benevolo. A lui il signorino non destava invidia, perché egli aveva tutt’altri desiderî: qualche soldo in tasca per poter passare la serata in osteria e null’altro. Allora Gustavo era inserviente presso un gabinetto di lettura e sembrava stesse per far giudizio nel nuovo posto, ove, purtroppo, poco c’era da guadagnare ma pochissimo da lavorare.

Con la camicia di bucato, il solino alto, l’abbondante capigliatura bruna ravviata, vestito di nero, Alfonso era un bel giovanotto. Teneva in mano i guanti chiari comperati quel giorno per consiglio di Miceni. Un occhio più esercitato avrebbe scorto su quel vestito nero qualche tratto lucido logoro, e di più che il taglio non era moderno, il collo troppo aperto, la stoffa poi non buona, tanto che cedeva alla rigidezza della camicia. In famiglia Lanucci non si aveva l’occhio esercitato a queste piccolezze.

La giovinetta Lucia aveva terminato di mangiare, s’era allontanata un poco dal tavolo, appoggiata allo schienale della seggiola, le mani incrociate. Non fece motto che rivelasse ch’ella si fosse accorta della teletta speciale di Alfonso. Le sue relazioni col giovine erano ottime, e quando era in casa lo serviva volontieri. Le piaceva renderglisi utile perché per ogni passo ch’ella per lui facesse, egli la ringraziava in modo sempre ugualmente vivace. Del resto la gentilezza di modi fra di loro divenne anche eccessiva, perché Lucia trovava finalmente la persona con cui trattare nel modo spiato ai borghesi e incoraggiato dalla madre. Gustavo diceva ch’ella con Alfonso si sfogava.

Il signor Lanucci doveva aver passato la cinquantina. Si tingeva, avendo la tintura gratis in campioni ch’egli si faceva rimettere da case che offriva di rappresentare, e i suoi capelli erano neri dove l’età non li aveva imbianchiti, giallognoli dove senza tintura sarebbero stati bianchi. Portava una barba piena lunghetta, condizionata in quanto a colore come la capigliatura. Di sera, per leggere, si metteva degli occhiali rozzi, troppo grandi per la distanza fra’ due occhi, piccoli, grigi che quasi poggiavano al naso.

Fece dei complimenti ad Alfonso e lo pregò di sedere accanto lui, onore non accordato più a Gustavo dopo che aveva perduto un impiego discreto procuratogli con somma fatica. Era l’unico castigo che sapeva infliggergli, non avendo per altri né energia, né testa.

Gustavo, senza parlare, – teneva il broncio al padre perché questi lo teneva a lui, – consegnò ad Alfonso una lettera. Alfonso non l’aprì con grande premura. Era tanto preoccupato che non ebbe la pazienza di decifrare i caratteri malsicuri della madre; rimise in tasca la lettera dopo averla scorsa rapidamente.

– Che presto! – disse la signora Lanucci con leggero accento di rimprovero.

– È molto piccola! – rispose Alfonso arrossendo; – vi saluta tanto!

Il vecchio aveva cominciato a raccontare dei lavori della sua giornata. Era la storia di ogni sera. Per giustificarsi dinanzi alla moglie, raccontava quanto avesse brigato per fare affari. Tutto sommato, quel giorno aveva guadagnato un grosso pacco d’aghi che una piccola fabbrica gli aveva inviato in natura per senseria di un affare conchiuso da lui. Nella mattina aveva fatto delle visite in case private, presentandosi con una lettera di raccomandazione datagli da un suo amico procuratore in una casa commerciale, il quale egli riteneva avesse dell’influenza in paese. Aveva offerto del cognac, ma senza esito. In tavola faceva bella mostra di sé il campione. A mezzodì il Lanucci aveva ricevuto la posta, cioè il pacco d’aghi e la lettera di una Società d’assicurazioni, che lo costituiva suo rappresentante. Subito al pomeriggio s’era messo alla ricerca di persone che volessero assicurarsi. Con la nota dei conoscenti ch’egli aveva sempre seco, il vecchio aveva percorso la città. Gli amici gli avevano spiegato perché non volessero assicurarsi, dimostrandogli d’essere già assicurati o di non poter sottostare a una spesa tanto elevata; gli altri o non l’avevano accolto, – Lanucci amava recarsi dalle persone che tenevano domestici alla porta, – o rimandato con poche e secche parole come si fa coi mendici. Quest’ultima osservazione non era del Lanucci, il quale raccontava con la calma dell’uomo perseverante pronto a ricominciare il giorno dopo. Però nella giornata aveva fatto qualche cosa: aveva scritto alla sua Società d’assicurazioni comunicandole che nulla ancora aveva concluso, ma che sperava bene e che la senseria non gli bastava, visto ch’era tanto difficile di fare affari.

– Poveri i centesimi della posta! – mormorò la signora Lanucci facendo l’occhietto ad Alfonso, col quale aveva già parlato delle speranze e delle manìe del marito.

Ella aveva seguito però con grande attenzione il racconto e gli occhi le brillavano d’ira all’udire di tanti sforzi fatti invano. Il signor Lanucci raccontava con lentezza, parlando continuava a mangiare, deponeva la forchetta dopo ogni boccone e scandeva le sillabe per far risaltare maggiormente la sua attività e la sua astuzia. Ridiceva tutti gli argomenti da lui adoperati per convincere. Con l’uno aveva parlato in genere dei vantaggi delle assicurazioni e della colpa che commette chi non si assicura; con l’altro – era un amico o un noto filantropo – del proprio bisogno di venir incoraggiato; con tutti aveva esaltata la Società che rappresentava. La signora Lanucci lo stava ad ascoltare allontanandosi alquanto dal tavolo e sgretolando accanitamente coi denti dei pezzettini di pane.

Ogni parola nella famigliuola provocava facilmente delle dispute.

– Poveri i centesimi? Perché? Hai un modo curioso tu di trattare le cose! Come se fosse impossibile che io faccia degli affari!

L’ira accumulatasi in lui durante la giornata si scatenò. Rimaneva fermo al suo posto senza gesticolare, ma gli tremavano le labbra. Gustavo rideva nel piatto.

Alfonso lo calmò; trovandosi anche lui di tempo in tempo in imbarazzi finanziarî, comprendeva il dolore del vecchio. Gli disse che la signora aveva voluto scherzare, non offenderlo, e che certamente essa più di tutti aveva il desiderio di veder prosperare i suoi affari.

Dalle parole di Alfonso il Lanucci fu portato a tutt’altro ordine d’idee; si rammentò che il confortatore poteva divenire un suo cliente e gli chiese se non avesse l’intenzione di assicurarsi, – forse contro gli accidenti?

La signora Lanucci protestò:

– Eh! vuoi lasciarlo in pace con i tuoi affari?

Il Lanucci rimase interdetto; altrettanto imbarazzato era Alfonso, dolente dell’imbarazzo del Lanucci che supponeva fosse già pentito della poca delicatezza dimostrata.

– Lo lasci parlare, – disse alla signora, – è interessante e non ci si perde niente!

Aveva trovato il modo di ridurre la cosa a una questione puramente accademica.

– Ma sì! – accentuò il Lanucci, – io non lo costringo mica ad assicurarsi o ad assicurarsi per mio mezzo! Farà lui dove vorrà! Però una persona che può è male abbastanza che non si assicuri. Può cadergli una tegola sul capo; se non è assicurato non guadagna nulla dovendo stare a letto, mentre se è assicurato fa un buon affare.

Alfonso, per cavarsela, con tutta sincerità gli spiegò le sue condizioni finanziarie. La signora Lanucci protestava, il vecchio invece con tutta calma cercava obbiezioni, però negando anche lui che il rifiuto avesse bisogno di motivazioni.

Ogni sera la famiglia Lanucci usciva dopo cena per pigliare, dicevano, un po’ d’aria. Non era questo solo lo scopo della passeggiata. La signora ne aveva introdotto l’uso per compensare Lucia dell’oretta sul Corso in compagnia delle altre sartine cui l’aveva costretta di rinunziare. Anche Gustavo li accompagnava, ma poi non rientrava. Alfonso lui pure qualche volta, annoiandovisi ma fingendo tanto bene di divertirsi da finire col crederci lui stesso.

La signora Lanucci si alzò da tavola e, indossato uno zambelucco sdruscito ma greve, attese in piedi che Lucia avesse terminata la sua teletta più complicata di molto. Il vecchio nel suo pastrano troppo piccolo che la moglie gli aveva aiutato ad infilare continuava a parlare, sempre ancora sperando di terminare la giornata con un affare; ma Alfonso, che per un istante era stato là là per cedere, si rammentò ad un tratto di tutte le dolorose difficoltà del suo stato finanziario e con voce alquanto alterata espose in cifre le sue entrate e i suoi esborsi concludendo che assolutamente non poteva neppur sognarsi di aumentare le spese. Per timore di vedersi gettato in nuovi imbarazzi finanziarî ebbe frasi incisive; non voleva udire altri ragionamenti diffidando della propria fermezza. Poi gli parve che il signore ed anche la signora Lanucci lo salutassero più freddamente del solito, quantunque la signora non omettesse di augurargli la buona fortuna. Lucia lo salutò con un inchino e, augurandogli il buon divertimento, gli porse con gesto studiato la mano affilata.

Alfonso rimasto solo, per lasciar trascorrere ancora qualche poco di tempo prima di recarsi dai Maller che, forse, ancora non avevano terminato di cenare, rilesse la lettera della madre.

Nella lettera la vecchia Nitti parlava molto delle speranze ch’ella riponeva in Alfonso; diceva di aver scritto alla signorina Francesca Barrini governante di casa dei Maller per raccomandarlo. Poi, per tutta la lettera aveva sparso saluti da singoli amici del villaggio di cui la vecchia signora con tutta pazienza indicava nome e cognome con l’aggiunta – ti saluta tanto, – infine due linee di baci ed abbracci e la firma: – tua madre Carolina.

Di sotto però, preceduta da un P.S. c’era la frase: – Da due giorni non sto molto bene; oggi però sto meglio.

IV

Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito.

La casa del signor Maller era situata in via dei Forni, una via della città nuova, composta di case mancanti d’eleganza all’esterno, grigie, di cinque piani con a pianterreno dei magazzini spaziosi. Non era molto illuminata e, di sera, cessato il movimento dei carri asportanti merci, poco frequentata.

Era piovuto nella giornata e Alfonso, per non infangarsi, camminava rasentando le mura delle case. Trovata la casa, egli rimase alquanto sorpreso nell’atrio. Era illuminato che pareva giorno. Largo, diviso in due parti separate da una scalinata, aveva l’aspetto di un anfiteatro in miniatura. Era completamente deserto e, salendo la scalinata, non udendo che il suono e l’eco dei propri passi, Alfonso credette di essere l’eroe di qualche racconto di fate.

Prima persona che gli si presentò sulle scale fu un vecchio rubizzo dalla barba bianca ben conservata, che scendeva canticchiando. – Chi cerca? – gli chiese, e il tono di quella voce bastò per far capire ad Alfonso che ad onta del suo vestito nero in quella casa si riconosceva in lui alla prima occhiata l’uomo povero.

– Abita qui il signor Maller? – chiese timidamente.

Il volto del vecchio divenne anche più serio; non era possibile che una persona pulita non sapesse dove abitava il signor Maller; cominciava già ad annusare l’accattone.

Si trovavano all’ultima scala per arrivare al primo piano; dal pianerottolo Santo sporse il suo capo ispido come un cardo:

– È un impiegato – gridò; – venga, venga, signor Nitti.

– Oh! Santo! – esclamò Alfonso lieto d’imbattersi in volto conosciuto, e salì le scale in premura.

Il portiere si lisciò la barba:

– Ah! così? – e senza salutare continuò a scendere, dopo pochi passi rimettendosi a canticchiare.

Santo, appoggiato negligentemente alla balaustrata, attese Alfonso senza mutar positura e quando lo ebbe accanto gli disse:

– La introdurrò io – sempre ancora immobile; poi, riflettendo: – È stato invitato dal signor Maller? – domanda che fece credere ad Alfonso che ci fosse una stanza apposita destinata a ricevere gl’impiegati invitati dal signor Maller.

Improvvisamente Santo si mise a camminare celermente verso una porta a destra.

– Scusi un istante, – gridò, e, lasciandolo sulla soglia, entrò nel corridoio con passo frettoloso, aperse la prima porta e la sbatacchiò dietro di sé. Rimasto solo, Alfonso si trovò in una semioscurità nel corridoio tappezzato a colori smorti con due porte per parte ed una in fondo, piccole, colorate in nero lucido. Udiva alla destra lo scoppio della voce di Santo a cui rispondevano la voce e le risate di una donna; le parole non arrivava a comprendere, risonavano confuse come in un vuoto.

Santo uscì ridendo sgangheratamente; aveva la bocca piena. Attraverso all’uscio socchiuso Alfonso scorse una cucina ricca di vasellame di rame lucente, un focolare e accanto una donna grassa e bionda, illuminata dalla luce rossastra del fornello; con un cucchiaio in mano minacciava Santo. Santo continuò per un pezzo a ridere sotto i baffi. Si diresse verso la porta di fondo.

Giunsero in una stanza quadrata con mobili piccolissimi fatti per esseri che di certo mai erano esistiti. Piccola e morbida, pareva un nido. Era tappezzata con una stoffa azzurra che ad Alfonso parve raso e i tappeti erano tanto alti, soffici che si provava il desiderio di sdraiarvisi.

– È la stanzuccia di ricevimento della signorina Annetta, – disse Santo; – non si entra però mica da questa parte. Qui è l’ingresso per la servitù. L’ho condotta da questa parte per poter farle vedere subito qualche stanza; è la parte più bella della casa.

Lo guardò con un sorriso da protettore, attendendosi di venir ringraziato.

Sul tavolinetto c’erano delle chincaglierie chinesi. Sembrava che il gusto della signorina Annetta fosse orientale. Sulle tappezzerie, al chiarore della candela accesa da Santo, Alfonso vide dipinti su un fondo azzurro due piccoli chinesi; l’uno seduto su una corda fissata a due travi ma molle e pendente come se i chinesi non pesassero, l’altro in atto di arrampicarsi su per un’erta invisibile.

– Qui dorme la signorina – disse Santo giunto nell’altra stanza, e tenne in alto la candela per diffondere la luce.

Inquieto Alfonso chiese:

– È permesso di venire in questa stanza così, senz’altro?

– No! – rispose Santo con superbia – a tutti è proibito meno che a me.

Il suo volto era sfavillante dall’orgoglio per quelle cose belle. Faceva ammirare la tappezzeria vellutata; si diresse anche verso il letto e stava per aprire i panni leggeri, rosei, che ne formavano il padiglione, ma Alfonso glielo impedì.

– Oh! – fece Santo con un gesto che doveva significare disprezzo ai voleri dei padroni ma che stonava con le sue parole. – Giovanna mi disse che sono ancora tutti di là, in tinello.

Pure, scosso dalla paura di Alfonso, si diresse verso la porta di uscita. Ad onta della sua agitazione, quel letto commosse Alfonso e fino all’uscita vi tenne rivolto lo sguardo. Così chiuso era veramente virginale. Accanto ad esso v’era un inginocchiatoio in legno oscuro.

Si sorprese di trovare nell’altra stanza la biblioteca. Grandi armadi contenenti libri coprivano quasi per intero le pareti. La suppellettile ne era semplice: un grande tavolo coperto da un panno verde nel mezzo e d’intorno delle sedie comode e due ottomane.

Improvvisamente entrò il signor Maller.

Non avevano udito il rumore del suo passo. Chiese bruscamente a Santo che cosa facesse in quel luogo.

– Ho voluto far vedere al signor Nitti la biblioteca, – rispose Santo balbettando.

Aveva perduto la sua disinvoltura da padrone; stava rigido in posizione di attenti, tenendo la candela molto bassa. Palesemente mentendo aggiunse:

– Siamo entrati per di là – e accennò alla porta di mezzo.

Alfonso si avanzò:

– Venivo a disturbarla… – e s’interruppe credendo di avere già espresso tutto il suo pensiero.

– Il signor Nitti! – e il signor Maller con gesto signorilmente cortese gli porse la mano, – benvenuto! – Parlava affabilmente ma con poca vivacità. – Mi dispiace di non poter rimanere con lei come avrei desiderato; ho da vedere qui qualche cosa e poi debbo andarmene. Troverà la mia figliuola e la signorina che ella già conosce di là in tinello; a rivederla; – e già a mezzo volto verso il tavolo gli strinse la mano.

Santo rigido alla porta di mezzo chiese:

– Ho da lasciare qui il lume?

– No, accendi il gas!

S’era sdraiato sull’ottomana più vicina e aveva preso in mano un giornale.

Alfonso si trovò sul corridoio per il quale era entrato: aiutato da Santo si levò il soprabito. Mentre lo introduceva nel tinello costui trovò il tempo di esclamare:

– Che peccato di aver incontrato il signor Maller; valeva la pena di vedere la sua stanza da letto. Sarà per un’altra volta però, – e gli ammiccò in segno di protezione.

Il tinello era illuminato da una lumiera a gas di tre fiamme. Non v’era nessuno. Santo entrò con passo cauto, si guardò d’intorno comicamente sorpreso, corse al tavolo, alzò un lembo del tappeto che lo copriva, guardò al di sotto:

– Non c’è nessuno.

Vedendo che Alfonso, seccato da quel modo di riceverlo non sapeva sorridere al suo scherzo, si avviò per uscire:

– Le signorine devono essere salite al secondo piano, andrò ad avvertirle. Si accomodi intanto.

Alfonso rimase in piedi sapendo quanto valesse l’invito di Santo. Era intimidito dalle ricchezze vedute e non sognava più il contegno da persona spiritosa. Desiderava di esserne fuori, ed era poco piacevole il suo sentimento. In quella casa bisognava contenersi modestamente, da subalterno. Un occhio più esercitato avrebbe scorso in quell’addobbo qualche cosa di eccessivo, ma era la prima volta che Alfonso vedeva di tali ricchezze e si lasciava abbagliare.

Il tinello più che le stanze di Annetta portava le traccia d’essere abitato. Il pianino era aperto e sul leggìo v’era della musica; delle carte di musica giacevano anche su una sedia accanto all’istrumento. I mobili erano varii, alcune sedie di paglia, altre foderate. Si sentiva perfino un lieve odore di cibo.

Un grande numero di fotografie era disposto in forma di ventaglio aperto sulla parete al di sopra del pianino; i quadri, quattro o cinque, erano appesi troppo in alto, e ciò per lasciar posto agli alti schienali dei mobili.

Non s’intendeva affatto di pittura Alfonso, ma aveva letto qualche volume di critica artistica e sapeva cosa significasse, nell’idea, scuola moderna. Rimase colpito dinanzi a un quadro che non rappresentava altro che una lunga via appena segnata attraverso un terreno sassoso. Non v’era alcuna figura; sassi, sassi e sassi. Il colore era freddo e la via sembrava perdersi all’orizzonte. Una mancanza di vita sconsolante.

Perduto nella contemplazione, più meravigliato che ammirando, non sentì ch’era stata aperta la porta; poi, per imbarazzo, esitò alquanto a voltarsi quando s’accorse che qualcuno era entrato.

– Signor Nitti! – disse una voce dolce e dolcemente.

Rosso come se fosse stato fino allora con la testa ove aveva i piedi, Alfonso si voltò. Era la Signorina, come la chiamavano, l’amica di sua madre, non la signorina Maller; quella doveva essere più giovine. La signorina Francesca avrebbe dovuto avere circa trent’anni, quantunque Alfonso non avrebbe saputo dire perché gli sembrasse di dovergliene dare tanti. Aveva una carnagione pallida, e se non da persona sana, da persona giovane, occhi chiari, azzurri; il colore biondo oro dei suoi capelli dava una grande dolcezza a quella fisonomia non regolare. Di statura era piccola, troppo se la figurina non fosse stata perfettamente proporzionata e non avesse tolto così il desiderio di modificarla in qualunque modo si fosse.

Gli porse la mano bianca paffutella:

– Il figliuolo della signora Carolina? Dunque mio buon amico? Nevvero?

Alfonso s’inchinò.

– E al villaggio tutti bene?

Chiese di dieci persone, suoi buoni amici, dei quali da anni non sentiva parlare; li nominava indicandone alcuno col nomignolo, tutti caratterizzando con la citazione di qualche loro qualità speciale. Poi chiese dei luoghi; li nominava con parole di rimpianto citando le belle ore che ci aveva passate. Chiese di una collina posta ad un’estremità del villaggio e stette a udire ansiosamente la risposta come se avesse temuto di dover apprendere che nel frattempo fosse crollata.

Ad Alfonso la signorina Francesca parve subito adorabile. Nessuno gli aveva fino ad allora ravvivato in quel modo il ricordo della patria; i ricordi lontani e poco vivaci della signora Lanucci non ravvivavano niente. Egli viveva solo, sognando dolorosamente il suo paese, e, a forza di pensarci, trasformandolo. La signorina parlandone rettificava il suo ricordo e gli sembrava gliene desse una novella impressione. Era commossa anch’essa da quei ricordi.

Come Alfonso poscia apprese, era stato quello l’anno più felice della sua vita. Era stata ammalata e, in seguito a prescrizione medica, la povera famigliuola cui apparteneva con grandi sacrifizi l’aveva mandata in campagna. Lì aveva goduto un anno di assoluta libertà.

Gli prese di mano il cappello e lo fece sedere.

– La signorina Annetta verrà subito. Ella attende da molto tempo?

– Da mezz’ora! – disse Alfonso con sincerità.

– Chi l’ha introdotta? – chiese la signorina corrugando le sopracciglia.

– Il signor Santo.

Dava a Santo del signore in omaggio alla persona cui parlava.

Entrò la signorina Annetta e Alfonso si levò in piedi confuso; l’aveva molto agitato la lunga preparazione.

Era una bella ragazza, quantunque, come egli disse a Miceni, il suo volto largo e roseo non gli piacesse. Di statura alta, con un vestito chiaro che dava maggior rilievo alle sue forme pronunciate, non poteva piacere ad un sentimentale. In tanta perfezione di forme Alfonso trovava che l’occhio non era nero abbastanza e che i capelli non erano ricci. Non sapeva dire il perché, ma avrebbe voluto che lo fossero.

Francesca presentò Alfonso. Annetta s’inchinò leggermente mentre stava per sedersi. Era palese che non aveva neppure l’intenzione di dirigergli la parola. Si mise a leggere un giornale che aveva portato seco. Ad Alfonso sembrò ch’ella non leggesse e che i suoi occhi fissassero sempre il medesimo punto sul foglio. Si lusingò ancora ch’ella fosse imbarazzata quanto lui e che volesse cavarsela facendo mostra di leggere. Ella però aveva il volto tranquillamente sorridente.

Meno disinvolta, Francesca volle riprendere il discorso interrotto.

– E abitano sempre ancora quella casa lontana tanto dal villaggio?

Alfonso ebbe appena il tempo di affermarlo. Lasciandosi andare a un risolino di compiacenza che fino ad allora con fatica aveva rattenuto, Annetta disse a Francesca:

– Ero da papà. Si parte doman l’altro; ha acconsentito e promesso.

Francesca parve sorpresa aggradevolmente. La voce di Annetta meravigliò Alfonso; se l’era aspettata meno dolce in un organismo tanto forte.

Le due donne parlavano a bassa voce. Alfonso comprese che Annetta doveva aver strappato con qualche astuzia un consenso al signor Maller. Ignorato del tutto, egli si trovò imbarazzato. Guardò un quadro alla sua destra: il ritratto di un vecchio dai tratti grossolani, gli occhi piccini, la testa calva.

Parve che Francesca indovinasse il suo malessere e volesse riparare alla scortesia di Annetta ch’era stata la prima a parlare a mezza voce. Gli raccontò che avevano progettato un viaggio per Parigi e che, dopo aver resistito per lungo tempo, il signor Maller finalmente acconsentiva di accompagnarle e di lasciare per otto o dieci giorni le sue occupazioni, in piena stagione di lavoro. Si volse di nuovo ad Annetta.

– Ha detto espressamente che io vi accompagnerò?

Anche da lei quel viaggio doveva essere stato molto desiderato.

– Ma certo, – rispose Annetta con un sorriso che Alfonso fu costretto a trovare buono.

Per un intervallo di tempo che a lui parve di un’ora almeno, dovette assistere passivamente al chiacchierio delle due donne, ora fingendo di prestarvi attenzione ed ora volgendo modestamente gli occhi altrove, cioè quando Annetta abbassava la voce e avvicinava la bocca all’orecchio di Francesca. Si sentì sollevato allorché Santo entrò e annunziò l’avvocato Macario.

– Che entri, che entri! – gridò Annetta con gioia, – ci farà ridere.

L’avvocato Macario, un bell’uomo di quarant’anni forse, vestito con grande accuratezza, alto e forte, una fisonomia bruna piena di vita, salutò Annetta imitando Ferravilla: – Oggi più bella del solito… ahi! – Strinse la mano a Francesca la quale subito gli presentò Alfonso; poi, invece di nominare l’avvocato: – I più bei mustacchi della città.

– Se sapesse la fatica che mi costa di conservarli in tale stato; glielo racconto io, altrimenti anche questo le racconterebbe la signorina.

Alfonso atteggiò il volto ad un sorriso; stava peggio di prima. La disinvoltura di Macario non gli toglieva l’imbarazzo e glielo faceva sentire meglio.

Annetta aveva deposto il giornale. Si appoggiava indolentemente con ambedue le braccia al tavolo:

– C’è una novità, caro cugino! ti sorprenderà!

Aveva l’aspetto di deriderlo.

Macario finse dispiacere: