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Kitabı oku: «Una vita», sayfa 23

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– Quanto non vale una parola messa ragionevolmente a tempo e luogo!

Fu per malizia che Alfonso lo lasciò per il momento in quell’opinione.

E neppure il giorno appresso nessuno fiatò della generosità di Alfonso né egli provò il bisogno di parlarne. Non voleva riconoscerlo, ma taceva perché si compiaceva di aumentare la sua generosità; ogni parola fredda dei Lanucci gli dava un’aspra soddisfazione perché tanto maggiore sarebbe stata la loro riconoscenza al riconoscere quanto ingiustamente lo avevano trattato. Avrebbe avuto voglia di ridere quando Lucia, che l’odiava perché due volte gli aveva offerto il suo amore, gli voltava la schiena per dimostrargli il suo disprezzo non maggiore però di quello che aveva per lui la vecchia Lanucci dacché definitivamente aveva abbandonato ogni speranza di potergli appioppare Lucia. Sorrise quando dovette confessarsi che ci teneva tanto a quella riconoscenza da fare delle commedie per accrescerla. Sempre ancora egli si trovava nelle sue azioni in contraddizione con le sue teorie. Quel desiderio intenso di venir ringraziato e ammirato non somigliava punto né a serietà né a rinunzia. Continuava ad essere anche vano.

A pranzo, il giorno dopo, il vecchio Lanucci attese gravemente che Alfonso si fosse seduto; poi, seccamente, avvertì che per ragioni che gli erano state indicate, ma ch’egli non rammentava, Gralli per quel giorno non sarebbe venuto. Poi immediatamente, volgendosi ad Alfonso, continuò:

– Io non sapevo che gli fossero state promesse settemila lire di dote. Ne chiese a me e io gli dissi che non ne sapevo nulla. È vero ch’è lei che le vuol dare?

– Sì! – rispose Alfonso, – già a me non servono a nulla.

Fu un coro di ringraziamenti, ma non tutti ugualmente vivaci. Alla signora Lanucci non doveva piacere troppo di passare improvvisamente dall’odio alla riconoscenza. Stese la mano ad Alfonso e volendo supplire con una forte brevità a quanto mancava d’intensità al suo ringraziamento gli disse:

– Grazie! – Sorrise alla figliuola che aveva gli occhi pieni di lagrime e le disse: – Perché piangi? Sciocca! Così almeno avrete anche qualche po’ di denaro!

Lucia ringraziò singhiozzando. Ella s’era lusingata che Gralli fosse ritornato a lei per solo amore e il dolore di apprendere che così non era fu maggiore che non la riconoscenza. Pianse molto e si ritirò nella sua stanza dopo aver salutato Alfonso, con un grazie ch’era forte perché ripetuto.

– Quello che non capisco, – disse Alfonso, e parlava per togliersi all’imbarazzo che gli davano quei ringraziamenti, – quello che non capisco si è come queste cose stieno in relazione con l’assenza di Gralli.

Il Lanucci disse che gli sembrava che Gralli gli avesse detto qualche cosa anche per scusare la sua assenza ma che non se ne rammentava.

La scusa data dal Gralli al Lanucci e taciuta da questo fu compresa con facilità da Alfonso alla sera allorché uscì dall’ufficio. Sul Corso lo fermò Gralli che lo aveva di sicuro atteso espressamente ma che non voleva averne l’aria. Era amichevole molto ma si capiva che aveva il pensiero altrove, a cercare parole per dire cosa molto difficile.

– Come sta?

Fra di loro non avevano nulla da parlare fuori della cosa che stava tanto a cuore a Gralli. Dopo di aver risposto seccamente alla domanda fattagli e atteso inutilmente che l’altro si risolvesse a esporre il motivo per cui lo aveva atteso, Alfonso, impaziente e seccato di dover camminare per il Corso in sua compagnia, gli chiese che cosa da lui desiderasse così che a Gralli non fu concesso di preparare il suo discorsetto come avrebbe desiderato.

Gralli lo pregò di seguirlo fuori del viavai della gente e si diressero verso la fontana. Lo scirocco aveva reso più mite la temperatura e l’aria tiepida aveva chiamato dalle case molta gente.

– Oggi parlai col vecchio Lanucci e mi disse ch’egli non sa nulla della dote promessa… – Parlava lentamente per dar tempo all’altro di abituarsi alla sua diffidenza e di scusarla, ma in dieci parole aveva già espresso tutto.

– E che importa che il vecchio Lanucci ne sappia? Quando ho promesso io, basta! – gridò Alfonso infuriato capacissimo di far credere a Gralli ch’egli aveva desiderato che i Lanucci nulla sapessero del suo dono.

– Non ne ho mai dubitato io, – gridò Gralli.

Doveva essere vero perché Alfonso sapeva che Gralli s’era accontentato della sua promessa. Raccontò ad Alfonso con l’accento della sincerità che sua madre gli aveva imposto di non sposarsi se prima non avesse avuto in mano la dote.

Alfonso si mise a ridere con disprezzo; affettava di non credere a quello ch’egli già aveva compreso essere vero:

– Mi crede un mentitore dunque? In nessun caso le darei i denari in mano perché diffido io di lei per motivi migliori di quelli che lei può avere per diffidare di me.

Gralli si disperò:

– Se le cose stanno così, come faremo? Mamma è donna che quando ha detto ha scritto e dichiarò di non volerne sapere prima di aver veduto i denari! Non le basta neppure che lei faccia una promessa dinanzi al notaio.

Questo che a Gralli sembrava un ostacolo insormontabile avrebbe potuto servire ad Alfonso quale scusa per sottrarsi all’impegno preso. Non volle e indicando lui la via per mettersi d’accordo sentì gonfiarsi il petto per il sentimento della propria generosità. Gli propose di portarsi insieme il giorno appresso da un notaio e depositare presso di lui i denari con la dichiarazione che non doveva consegnarli che a Gralli e soltanto il giorno del suo matrimonio con Lucia.

Gralli accettò grato della proposta che gli piaceva e che gli sembrava dovesse piacere anche a sua madre. Andò subito dai Lanucci spintovi da Alfonso che lo avvertì ch’erano in pena per la sua assenza. Alfonso gli raccomandò di non lasciar trapelar nulla dell’avvenuto perché non molto lo avvantaggiava con Lucia. Ora che sapeva che non c’era più pericolo che i beneficati ignorassero il suo sagrificio si sentiva bene ad agire come se avesse voluto celarlo.

Quell’egoista, come Alfonso lo chiamava, fu più sincero di lui.

– Di Lucia non m’importa, – disse con ingenuità; – gli altri, se non vogliono essere sciocchi, devono comprendere che io faccio precisamente quello che debbo fare. Senza di questa dote io non potevo sposarla! – Asserì anche che andava in casa Lanucci senza timori perché dal momento che lo vedevano entrare, per quanto l’avessero con lui, i loro volti si rischiaravano.

– Mi vogliono bene, – disse con malizia.

Eppure non parve che quella sera l’avessero accolto troppo bene perché quando giunse Alfonso trovò ch’egli se ne era già andato e che tutta la famiglia, indizio di grande malumore, s’era coricata. Alfonso provò della delusione al vedere che neppure in quello stesso giorno la gratitudine dei Lanucci fosse stata tanta da indurli ad attenderlo per salutarlo.

Lucia lo aveva atteso ma chiusa nella sua stanza, non s’era accorta ch’egli era rincasato. Egli aveva già abbandonato il tinello e stava per coricarsi, allorché sulla porta si presentò la fanciulla.

– Mi permette? – chiese con timidezza a lei insolita e abbozzando un sorriso. – Vengo per ringraziarla. Mamma sa che ho da venire; anzi ho da ringraziarla anche in nome suo.

S’interruppe e si mise a piangere dirottamente. Pareva la continuazione di un pianto soffocato poco prima perché le lagrime non esitarono un solo istante a trovare la via.

Imbarazzato e commosso egli la pregò di calmarsi. Provava un sentimento disaggradevole, quasi un rimorso di aver soffocato la povera fanciulla sotto il peso della gratitudine. Le disse ch’egli non aveva fatto altro che il proprio dovere. Ella continuava a piangere tenendosi sulla bocca il fazzoletto e rimanendo sulla soglia senza appoggiarsi allo stipite.

– Non v’è nulla da ringraziare né da piangere. Saranno felici adesso, ecco tutto!

Ma Lucia riebbe subito la parola:

– Felici no! Mai! – Poi, di tempo in tempo ancora interrotta nel suo parlare dalle lagrime, raccontò che quella stessa sera ella aveva scongiurato Gralli di rinunziare alla dote e ch’egli vi si era rifiutato. – Ora non gli voglio più bene affatto, – e si rimise a piangere. Era proprio una bambina e giammai, pensando al tradimento di Gralli, Alfonso non aveva sentito tale ripugnanza. – Bene, veramente bene, – e Alfonso pensò ai sacchi di bene di cui parlavano i bambini, – veramente bene non gli volli mai. Mi dicevano e io stessa comprendevo che bisognava sposarlo, ma non mi sarei mai immaginata ch’egli fosse tanto cattivo.

Alfonso tentò di convincerla che Gralli era migliore di quanto ella credesse dicendole che se voleva del denaro era per goderne con lei. Non trovò altri argomenti. Non sapeva risolversi a usare astuzie per stornare da sé il dolce affetto ch’era nato per lui nel cuore della fanciulla e donarlo a Gralli.

Ella voleva baciargli la mano, ciò ch’egli non permise. L’attirò a sé e la baciò sulla fronte mentre fra le sue braccia la fanciulla tremava tutta. Con dignità, lentamente, sempre parlandole e pregandola di non piangere, la ricondusse in tinello e fino alla porta della sua stanza.

Ripensando al suo contegno con Gralli del quale egli non aveva sdegnato di ricercare l’ammirazione e con Lucia della quale aveva procurato di aumentare la riconoscenza, Alfonso si ripeté la domanda:

– Era quello il contegno da filosofo?

E ancora una volta dovette sorridere di sé allorché provò una grande soddisfazione per la riconoscenza del vecchio Lanucci. Costui gli si chinava dinanzi come ad essere superiore, lo stava ad ascoltare con riverente attenzione quando parlava:

– Io non ho mai visto una cosa simile dacché vivo! – aveva esclamato allorché ebbe assistito alla consegna del denaro al notaio.

– Sei molto buono! – gli disse Gustavo. – Quanti denari ti restano ora? Udita la risposta di Alfonso non volle ammettere che gli fosse stata detta la verità. E Alfonso ebbe la debolezza di perdere il fiato per farsi credere da lui.

XX

Il bilancio era stato chiuso da quindici giorni e alla banca non si sapeva ancora nulla delle rimunerazioni che annualmente in tale occasione venivano ripartite fra gl’impiegati:

– Che avessero l’intenzione di abolirle? – chiedeva Ballina impensierito. La somma ch’egli poteva sperare era mangiata dai debiti e, come egli diceva, sarebbe stato un vero fallimento per lui se fosse mancata. In quest’occasione il suo spirito diveniva anche più mordente: – Se è per sua mancanza, quel pellirossa meriterebbe la forca. – Sotto la denominazione di pellirossa era inteso Maller.

Quel buffone di Alchieri, quantunque anch’egli soffrisse nell’attesa troppo lunga di ricevere il denaro sul quale aveva calcolato, si divertiva a beffeggiare Ballina e a stimolargli il desiderio. Incaricò Santo di venir a chiamare uno ad uno tutti gl’impiegati all’infuori di Ballina e si mise d’accordo coi singoli, acciocché facessero credere di aver ricevuto chi cento chi due o trecento franchi. Ballina andava sulle furie, diceva di voler lagnarsi con Maller, enumerava i servigi ch’egli aveva prestati alla banca, le ore in cui aveva dovuto lavorare fuori d’orario. Ad Alfonso che s’era lasciato convincere di dargli ad intendere di aver ricevuto trecento franchi: – Già si sa, – disse, – ella è protetto, va in casa e dà lezioni alla signorina! È una banca scandalosa!

Alfonso si affrettò a svelare la burla, rosso in volto e ben pentito di aver provocato Ballina.

Una domenica Santo venne a chiamare Bravicci a nome di Maller. Prima di andarci, Bravicci avvisò Ballina, ma costui continuò calmo a scrivere:

– Caro mio, una volta si può darmela ad intendere ma non due! – Quando Bravicci ritornato gli fece vedere due note da cento franchi, Ballina cominciò a dubitare e quando venne chiamato anche lui, andò da Maller col suo passo più franco: – Se m’ingannate, tanto peggio per voi. – Ne uscì quasi contento: – È abbastanza e non posso lagnarmi. È destino che del tutto libero di debiti io non possa essere giammai.

Starringer e Alchieri furono i più lieti; avevano ricevuto più di quanto avessero sperato.

Miceni venne a congratularsi con gli altri e a raccontare della sua sorte. Non era malcontento; lo si era lodato avvertendolo però che dacché era alla contabilità poco da lui si domandava e che perciò egli non molto sperasse dai suoi superiori.

– Io sto ancora cercando un impiego e uno di questi giorni spero di potermela battere.

L’unico che ancora non fosse stato chiamato era Alfonso, e Santo, che quel giorno faceva la parte d’araldo, invece di gridare il suo nome ad alta voce gli si avvicinò e gli disse all’orecchio qualche parola ch’egli neppure bene comprese, ma che suppose fosse l’invito di recarsi da Maller.

Dal momento in cui venne chiamato Bravicci, Alfonso era stato colto da una grande commozione. Dopo tanto tempo doveva parlare di nuovo con Maller e lo agitava l’idea che Maller avrebbe dovuto contenersi per trattarlo col calmo tono d’ufficio. Era ora ridotto a sperare aumenti di paga e una grande rimunerazione mentre pochi giorni prima aveva temuto di venir retribuito troppo abbondantemente, perché non avrebbe voluto avere l’aria di lasciarsi pagare il silenzio. Ma ora che ne aveva bisogno avrebbe cercato di godere di quanto gli avrebbero dato tenendosi sempre presente che aveva lavorato abbastanza per meritare qualunque rimunerazione.

Stava per entrare in stanza di Maller già malcontento in anticipazione, allorché Santo con un sorriso ironico lo fermò:

– Non qui! E il signor Cellani che la chiama!

Santo credeva che Alfonso non fosse stato chiamato per la rimunerazione. Ad Alfonso s’imporporò il volto, era anche peggio di quanto egli si fosse atteso. Neppure in quell’occasione Maller non voleva vederlo.

Entrò da Cellani il quale come al solito curvo sul tavolo non lo vide subito.

– Il signor Maller essendo stato chiamato improvvisamente dall’ufficio ha incaricato me di darle questo! – e pose con abbastanza mala grazia due banconote sul tavolo. Alfonso depresso le prese, mormorò un grazie appena intelligibile e uscì.

Sul corridoio ebbe un’altra prova dello sprezzo che gli veniva usato. Maller era in ufficio! Con la testa rossa fuori della sua stanza, gridando, chiamava Santo. Sembrava adiratissimo tanto che non vide Alfonso. Nella prima ira, Alfonso non seppe trattenersi; volle farsi vedere. Senza inchino e senza saluto gli chiese:

– Se vuole Santo lo chiamerò io!

Maller lo guardò un po’ sorpreso:

– Va bene! – disse brevemente e gli chiuse la porta in faccia.

Alfonso ritornò nella sua stanza senza curarsi di cercare Santo. Gli venne chiesto quanto denaro avesse ricevuto e le parole che Maller gli aveva dirette. Alfonso rispose che le parole erano state le solite e fece vedere le due banconote ricevute. Tutti trovarono ch’era poco e Alfonso rammentò a Ballina le sue parole di pochi giorni prima:

– Sono un protetto io?

Uscì con passo risoluto dopo aver esitato un istante dinanzi alla porta di Sanneo. Secondo la consuetudine avrebbe dovuto recarsi anche dal capo per ringraziare della rimunerazione ricevuta. Ma no! Sanneo non lo meritava! Doveva averlo raccomandato ben debolmente se la raccomandazione non aveva avuto altro risultato.

Uscendo all’aperto si rammentò che quando frequentava il liceo, alla chiusura dell’anno, i suoi genitori venivano in città e lo accompagnavano alla scuola a prendere il certificato. Lo attendevano poi nel giardino di faccia al liceo e quando egli sapeva di meritarlo, accorreva trionfante a ricevere le lodi del padre e l’abbraccio commosso della madre. Un anno il certificato venne guastato da una cattiva nota. Il fanciullo esitò lungo tempo ad entrare nel giardino e quando vi si risolse andò al padre e senza dire alcuna parola gli consegnò il certificato. Non rispondeva alle affettuose parole che la signora Carolina gli dirigeva per incoraggiarlo. Il padre serio serio mostrava col dito la nota nera e quando sua moglie per scusare il fanciullo dubitava che non fosse meritata e che si dovesse attribuirla all’antipatia di qualche professore, rispondeva che non ci credeva e che quando si faceva il proprio dovere tutte le cattiverie di questo mondo scomparivano. Come s’ingannava il padre! Giovine come era aveva già fatto l’esperienza che tutti gli sforzi non valevano a diminuire un odio ch’egli si era attirato senza colpa.

Proprio allora, per la prima volta s’imbatté in Annetta. In una pesante mantiglia nera, la sua figura appariva maestosa; accanto ad essa trotterellava Francesca insignificante come una serva. A lui parve impossibile di aver posseduto quella splendida creatura. Gli parve che fosse stato un sogno. Su quella bella faccia bianca, pura, non era rimasta traccia dei suoi baci. Quanta calma e quale incedere regale come se ella non avesse errato come lui e non fosse in procinto d’ingannare un altro uomo e disonorarlo.

Salutò umilmente e gli parve di averla guardata quasi a chiederle grazia. Francesca non rispose al saluto come se non lo avesse veduto; Annetta chinò la testa ma esitante come se tardasse a rammentarsi di averlo conosciuto.

Voltosi a guardarle dietro egli la vide parlare a Francesca; gli sembrò che il suo volto fosse molto pallido. Volle assicurarsene sperando di non ingannarsi perché gli sarebbe stato di grande conforto vederla agitata. La seguì a passo lento ma non rivide più la sua faccia non avendo il coraggio di accelerare il passo. La distanza fra di loro andò aumentando e quando Annetta scomparve tra la folla che a mezzodì invadeva il Corso, egli si sentì più solo e più infelice di prima. Sentiva quanto lontano egli si trovasse da lei. Non v’era più via aperta al ritorno; egli rimaneva povero e abbandonato nella vita quando avrebbe potuto essere ricco e amato. Forse era così per sua colpa.

Alla sera entrando in tinello si sentì chiamare dalla stanza di Lucia.

– Mamma se ne dimenticò, – gli disse la fanciulla con voce che a lui sembrò tremasse dall’emozione, – la prego di chiudere lei la mia porta.

La voce commossa di Lucia gli fece credere che quella porta fosse stata lasciata aperta appositamente. Guardò nella stanzetta oscura e vide luccicarvi le lenzuola per un raggio di luce ch’entrava dalla finestra. Dovette lottare per non entrarci. Non desiderava Lucia, ma un suo bacio, gli sembrava, avrebbe potuto annullare l’effetto che in lui aveva prodotto il contegno di Maller, e poi, in quell’agitazione, che cosa avrebbe fatto solo tutta la notte? Eppure non ebbe bisogno di quel bacio per calmarsi perché era bastato il piccolo sforzo fatto per riuscire vincitore nella lotta. – Ancora una rinunzia! – si disse sorridendo e la parola gli richiamò alla mente lo stato in cui s’era trovato pochi giorni prima. Era bastato tanto poco per farnelo uscire! Maller aveva spiegato l’antipatia di cui del resto aveva dato già prima dei segni non dubbi; non era avvenuto null’altro di nuovo!

Egli si coricò tutto sorpreso che finalmente gli fosse riuscito di quietarsi da sé con un freddo ragionamento. Dormì profondamente e fece un sogno fantastico come non ne aveva più fatti dalla sua infanzia. Cavalcava per l’aria su travi di legno, camminava a piede asciutto sull’acqua ed era signore di un vasto paese.

Ma il giorno appresso gli accadde cosa per cui il ragionamento più non bastò a consolarlo; era una vera disgrazia che gli toccava e allora appena poté dirsi perseguitato.

Alla mattina di buon’ora, come sempre, egli andò da Sanneo a chiedere le istruzioni per le lettere arrivate il giorno innanzi. Sanneo lo accolse con un sorriso imbarazzato, tenne dinanzi a sé il pacco di lettere guardandolo fisso non per vederlo ma per aver il tempo a riflettere. Con tono cortese pregò Alfonso che prima di ricevere le istruzioni andasse da Cellani che voleva parlargli.

– Non sa che cosa voglia dirmi? – chiese Alfonso desideroso di potersi preparare alle comunicazioni di Cellani le quali egli già aveva indovinato importantissime.

– Non lo so! – rispose Sanneo, – ma credo che in quelle stanze abbiano perduto la testa.

Però egli sapeva benissimo di che cosa si trattasse perché, con la sbadataggine che metteva in tutti gli affari che non erano d’ufficio, lo pregò di consegnare a Bravicci il fascio di carte che aveva in mano. Era cortese ma non tanto da perdere tempo e così Alfonso si aspettò al peggio. Veniva congedato.

Cellani non c’era nella sua stanza ma accorse non appena udì che Alfonso era entrato. Fu serio, molto serio, ma visto che gli dirigeva finalmente delle frasi intiere, ad Alfonso sembrò più cortese del solito.

– Ho da comunicarle qualche cosa che a lei forse farà piacere. – Ne dubitava e ad onta del suo aspetto serio la sua frase finì coll’apparire ironica. – In contabilità hanno bisogno di un impiegato pratico per il maestro centrale e il signor Maller decise che quest’impiegato sia lei.

Era un comando, non una proposta, mentre di solito i trasferimenti alla contabilità si facevano solamente col consenso degl’impiegati a cui si proponevano.

– Così che debbo lasciare la corrispondenza? – chiese Alfonso per prolungare il colloquio. Era irresoluto se protestare, non subire tranquillamente quella ch’egli già aveva riconosciuto essere un’offesa e una punizione, oppure rassegnarsi con buona grazia a cosa ch’era senza rimedio. L’ira però la vinse in lui. Il signor Cellani lo derideva volendo gabellargli per avanzamento quella umiliazione? – Ma che cosa ho fatto io per venir scacciato in tale modo dalla corrispondenza?

Cellani lo guardò sorpreso. Si avviò al suo posto stringendosi nelle spalle, impaziente, incapace di continuare a fingere:

– Lo chieda al signor Maller; io non ne so nulla, io!

Sbuffando gonfiò le guancie e si mise nervosamente a scrivere e a firmare.

– Sta bene! – disse Alfonso risoluto, – andrò a chiederlo al signor Maller!

Uscì ma già nel breve intervallo aveva calcolato il pericolo a cui si esponeva andando da Maller. Per fare quel passo aveva sempre tempo, voleva lasciarsi tempo a riflettere. Andò direttamente alla sua stanza e consegnò a Bravicci le lettere come Sanneo gli aveva ordinato. Bravicci gli raccontò che il giorno prima era stato prevenuto che doveva assumere il lavoro di Alfonso. Non ne aveva detto nulla e Alfonso gli consegnò bruscamente gli altri suoi sospesi. Era una persona che per il momento egli odiava.

– Lei venne destinato alla contabilità? – gli chiese Ballina vedendolo uscire dalla sua stanza col soprabito, il cappello e un fascio di carte in mano. – È il secondo dunque! Questo Sanneo a poco alla volta ci caccia tutti in contabilità!

Alfonso non scolpò Sanneo e anzi l’osservazione di Ballina gli suggerì la risposta ch’egli doveva dare a tutti coloro che gli avrebbero chiesto la ragione del suo trasferimento.

Nella nuova stanza ritrovò il suo antico compagno Miceni il quale lo accolse lieto e congratulandosi con lui di essersi finalmente allontanato dalla corrispondenza. Valeva la pena di venir pagati meno, asserì; in contabilità si stava molto meglio e di più si aveva la gioia immensa di non vedere Sanneo.

Marlucci gli fece un’accoglienza meno buona ma soltanto perché gli dispiaceva che in quella stanza ove fino ad allora erano stati in due si dovesse acconciarsi in tre. La stanza non era molto vasta. Era una stanzuccia d’angolo, non perfettamente quadrangolare perché un angolo, quello del fabbricato, era arrotondato. Il tavolo di Alfonso non era previsto e vi mancava la fiamma a gas.

Miceni gli spiegò quale sarebbe stato il suo lavoro, rapidamente, in poche parole, così che Alfonso poco o nulla ne comprese. Alfonso non aveva che da tenere il maestro centrale, lavoro che Miceni aveva avuto fino ad allora assieme a molti altri.

– Io non chiesi giammai un aiutante – disse ridendo perché le sventure altrui stimolavano sempre il suo buon umore, – e se ti mandarono qui è proprio perché Sanneo non ne volle più sapere di te. – Chiese ad Alfonso quale fosse stato il motivo del litigio, ma la forza di fingere in Alfonso non giungeva fino a fargli inventare delle storielle.

– Non parliamone, – disse e il sangue gl’imporporò il volto come se fosse stato preso da una grande ira.

Alfonso pensava che avrebbe saputo adattarsi anche alla sua novella situazione e si rammentava che in altra epoca aveva anzi desiderato di passare in quella sezione freddamente calma. Gl’impiegati la chiamavano la Siberia perché di spesso dalle altre sezioni vi erano mandati per punizione, come Miceni, oppure perché si dimostravano non idonei al loro posto, ma anche in contabilità si poteva avanzare ed anzi Cellani stesso era stato capo contabile prima di divenire procuratore della banca. In quella quiete in cui il rumore degli affari non giungeva che fortemente attenuato, egli avrebbe potuto lavorare tranquillamente e felice. La sua paga e i denari che ancora possedeva dovevano farlo vivere per parecchio tempo e non v’era ragione di precipitare le risoluzioni.

Ragionava così ma sempre agitato; bastò una prima giornata di lavoro lungo, noioso e non riuscito per fargli perdere la calma. Gli era stato spiegato il modo col quale doveva trarre le registrazioni dal giornale e portarle nel maestro, un lavoro di copiatura lungo ma facile. Ogni sera però egli doveva fare la somma delle cifre registrate in quel giorno e doveva pareggiarsi il complesso dell’avere col complesso del dare. Subito il primo giorno la prova non riuscì e tanto Miceni quanto Marlucci, dopo di averlo aiutato per qualche tempo a cercare gli errori, avevano rinunziato a trovare, come essi dicevano, il pareggio, e se ne erano andati. Miceni prima di uscire, dolente di aver perduto tanto tempo, aveva esclamato:

– Chissà quale specie d’errori sei riuscito ad inventare quest’oggi.

Ancora per qualche tempo egli continuò a confrontare le partite, ma non scoperse un solo degli errori che dovevano esservi e s’avvide che quel lavoro lo aveva esausto e che non gli riusciva di metterci tanta attenzione quanta era necessaria per confrontare due cifre. Allora si rammentò che aveva detto a Cellani di voler andare da Maller a lagnarsi dell’ingiustizia che gli era stata fatta. Non aveva rinunziato a quello sfogo e si disse che non era andato subito dal principale per non disturbarlo nelle ore di lavoro, ma che non aveva mai pensato di subire senza protestare l’ingiustizia che gli era stata fatta. Le noie ineffabili di quella giornata gli erano state procurate da quella. Anziché portarsi a casa l’inquietudine per il lavoro non definito, preferiva pigliarsi un’agitazione di altra specie. Gli faceva salire il sangue alla testa l’idea che a quell’ora Maller tranquillamente si compiaceva del suo operato e entrò nella sua stanza senza altro scopo che di far sentire la sua ira. Quando vi si trovò ebbe una paura: Maller alle sue lagnanze poteva rispondere chiaramente esponendo i motivi del suo odio! Vinse la propria agitazione. Ciò non poteva accadere e se fosse avvenuto egli avrebbe avuto anche meno riguardi di Maller. Avrebbe parlato di Annetta come se Maller non ne fosse stato il padre e poi dopo avere anche lui offeso, dopo di essersi vendicato, sarebbe uscito dalla banca a testa alta. Una soddisfazione simile non era pagata troppo cara con la vita; la perdita dell’impiego e di un impiego simile non era nulla in confronto.

Semisdraiato su un’ottomana, Maller leggeva un giornale che gli copriva mezza figura. Sollevò la testa per parlare con Alfonso e durante il colloquio più volte la lasciò ricadere dietro al giornale per stanchezza o per celare l’espressione del suo volto. Ad onta dell’avviso che Alfonso ne aveva dato a Cellani, Maller non doveva essersi preparato a quel colloquio. Si comportò indeciso, dapprima serio e freddo da superiore il quale crede che rispondendo faccia una grazia, poi inquieto e indeciso.

– Il signor Cellani mi avvisò che per ordine suo venivo trasferito dalla corrispondenza alla contabilità, – incominciò Alfonso balbettando, – vorrei pregarla di dirmi se questa è una punizione per qualche mio trascorso.

– No! – rispose Maller, – si aveva bisogno di un impiegato alla contabilità e si poteva farne a meno di uno in corrispondenza.

Ecco tutto! Per la prima volta piegò la testa dietro al giornale, ma certo perché credeva che il colloquio fosse terminato.

La freddezza di Maller calmò Alfonso. Lo trovava ben lungi dal passare a quel tono di franchezza che aveva temuto. La questione rimaneva rappresentata come se fosse stata puramente d’ufficio, e a mente fredda comprese che gli conveniva di contenersi in modo da non costringere Maller a licenziarlo; almeno se ciò era possibile dicendo tutto quello che aveva sul cuore. Si trovava in piena battaglia, e così immediatamente, conscio di esservi e tanto risoluto di battersi, non si era mai trovato.

Disse che aveva lavorato molto alla corrispondenza e che gli dispiaceva di perdere senza colpa il posto conquistato con tante fatiche. In corrispondenza sapeva di poter essere utile alla banca e di poter quindi sperare in un rapido avanzamento mentre in contabilità ridiveniva un praticante qualunque.

– Per il momento però – disse Maller che lo aveva guardato sorpreso di trovarlo tanto ardito, e con una certa curiosità, non comprendendo dove Alfonso volesse arrivare.

– Per sempre! – confermò Alfonso.

La frase risoluta gli diede la calma che l’occhiata di Maller per poco non gli aveva tolta; la sua voce non era più incerta. Disse ch’egli non era uomo che potesse vivere in mezzo a sole cifre; il suo cervello aveva bisogno di costruire frasi, periodi, perché era stato guastato da studî di cui il signor Maller pur doveva sapere qualche cosa. Tentò di sorridere perché quest’ultima osservazione doveva essere scherzosa.

Il volto di Maller aveva il colore della sua pelle punteggiata in rosso; quella doveva essere la sua pallidezza e il sorriso si agghiacciò sulle labbra ad Alfonso perché su quel volto non v’era alcuna traccia di buon umore. Comprese che ad allarmare Maller era bastata quell’allusione agli studî di cui il suo principale non avrebbe potuto sapere nulla se non fossero stati fatti insieme ad Annetta.

– Insomma ella vuole?

Maller s’era tranquillato all’aspetto spaventato di Alfonso e non appena tranquillo s’era affrettato ad aggredire.

La domanda irritò Alfonso; era forse già un rifiuto?

– Io non voglio, – disse con stizza. – Io desidero, io prego di venir rimandato alla corrispondenza. Ho bisogno di poter avanzare, – e candidamente parlò della sua difficile situazione finanziaria.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain