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Kitabı oku: «Una vita», sayfa 6

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Lucia invece meno. Per otto giorni si astenne dal rivolgergli la parola. Lo serviva a tavola come la madre le ordinava, ma senza pronunziare una parola. La signora Lanucci, per consolarlo, gli faceva l’occhietto, rideva e rivolta a Lucia diceva ironicamente:

– Ma porgi dunque quel piatto al signor Alfonso. Lo odii tanto da volerlo lasciare morire di fame?

Lucia obbediva seria seria; altrettanto serio, con un ringraziamento freddo, Alfonso si lasciava servire.

Una sera, entrando nel tinello improvvisamente perché accompagnato da Gustavo che aveva le chiavi di casa, trovò il vecchio Lanucci e la moglie accigliati e Lucia con gli occhi rossi di pianto. Evidentemente i due vecchi s’erano uniti per farle la predica. Sedette a tavola facendo le viste di non essersi accorto di nulla.

Era pentito amaramente del suo contegno, ma non sapeva chieder scuse. Alla sera quand’era solo o in ufficio, ripensandoci, rivedeva le mute domande di scusa rivoltegli dalla povera fanciulla e doveva confessare che le sue ire erano state scioccamente brutali. Concludeva ch’era suo dovere di andare incontro a Lucia, chiederle scusa, e toglierle un dispiacere che, si capiva, la rendeva infelice. Invece quando si vedeva dinanzi quel volto sciocco, senza espressione, dagli zigomi sporgenti, serio, immusonito con tutta risolutezza, la buona parola che già aveva pronta gli ritornava in gola.

Senza guardarlo in faccia, dopo una lunga esitazione, Lucia andò a lui e stendendogli la mano gli disse:

– Mi scusi, signor Alfonso, ho avuto torto; facciamo la pace!

Alfonso, commosso, gliela strinse con vivacità:

– In gran parte il torto fu mio, mi scusi lei!

Lucia gli lanciò un’occhiata raggiante di riconoscenza che la rese meno brutta ed ebbe poscia il contegno tranquillo, disinvolto, da persona che dimentica i malintesi. Rideva spesso ed era ritornata immediatamente ai suoi costumi affettati e dolci.

Egli fu meno disinvolto; gli dispiaceva di essere stato vinto in generosità. Avrebbe dovuto cedere per il primo lui, la persona colta, il maestro. Questo dispiacere, per quanto lieve, continuò ad agitarlo anche quando fu coricato. Erano sempre questi fatti insignificanti che lo inquietavano nella sua vita del resto vuota d’avvenimenti d’importanza, e ogni sera aveva di che sognare su qualche sua parola detta troppo in fretta o su qualche parola altrui di cui appena allora scopriva il vero significato, per pentirsi di non essersi vendicato di una puntura o di aver risposto troppo brusco ingiustificatamente.

In tinello si parlava e, macchinalmente, egli ascoltò. Erano la Lanucci ed il marito; egli non distingueva che il suono delle voci e soltanto quando, per recarsi alla loro stanza, passarono dinanzi alla sua porta, udì chiaramente la Lanucci che esclamava, probabilmente a conclusione di quanto fino ad allora avevano discorso, con un risolino di buon umore: – Queste sono proprio dispute da innamorati.

Di sospetti ne aveva già nutriti circa gli scopi della Lanucci su lui, ma più che scopi, fino ad allora gli erano sembrate speranze che non potevano allarmarlo ma che dovevano lusingarlo. Quelle due parole giunte per caso fino a lui, conclusione di un discorso più lungo, gli parve provassero che non soltanto si sperava da lui ma che si congiurava contro di lui, contro la sua libertà. Il contegno della madre e della figliuola era stato conforme a questo scopo. La madre aveva consegnato a lui che ingenuamente voleva insegnare, non una scolara ma una sposa.

Si rammentava di certe parole di raccomandazione che avrebbero potuto avere doppio senso. La figliuola poi aveva sopportato tutto meno che di veder interrotte le lezioni come egli aveva minacciato di fare. Ora la pace fatta con Lucia doveva avere rianimato le loro speranze.

Doveva indignarsene? Un tale attentato lo avrebbe meritato perché se fosse riuscito avrebbe apportato un enorme peggioramento della sua situazione.

Era però una situazione terribile quella in cui si trovava la famiglia Lanucci coi suoi due uomini incapaci di migliorarne le condizioni! Si sentiva tanto al sicuro dalle reti che gli tendeva la signora Lanucci, che poté liberarsi dalla preoccupazione per sé e riconoscere che avrebbe potuto vivere altri cent’anni e non offrirglisi più l’occasione di fare una buon’azione come sarebbe stata quella di sposare Lucia. Quale avvenire sarebbe stato quello di costei? Probabilmente sarebbe rimasta vecchia zitella e avrebbe conservato inutilmente sino alla fine della sua vita tutti quei suoi modi di società, come li chiamava la madre. Nei suoi sogni egli era capace delle azioni più eroiche, ma il giorno appresso ebbe un contegno meno disinvolto del solito ma non più affettuoso. Quando era solo vedeva la situazione con tutt’altri occhi che quando si trovava con Lucia. Prima scusava, perdonava, giungeva persino a sentire rimorso di non poter agire nobilmente, rammentava l’amore di Lucia che si era manifestato tanto nella pazienza con cui aveva sopportato le sue brutalità, quanto nella violenza del suo dolore allorché aveva dovuto riconoscere di non poter raggiungere la sua meta. Quando era dinanzi a Lucia ne vedeva gli zigomi sporgenti. Stava all’erta! Non sentiva desideri; era libero e voleva rimanerlo.

– Sono ammalato!

Per giungere a questa conclusione aveva dovuto fare molte osservazioni su se stesso. La sua profonda tristezza che tutto gli faceva apparire grigio, smorto, fino ad allora gli era sembrata naturale conseguenza del suo malcontento, l’insonnia derivava dall’agitazione in cui metteva il suo cervello con lo studio di sera e infine lo stato anormale, febbrile che qualche volta osservava nel suo organismo era, come egli aveva pensato sempre, il bisogno di fatica e di aria pura che i suoi muscoli ed i suoi polmoni si ostinavano a chiedere. Altre volte però gli bastava di essere libero per qualche ora per riavere la sua vivacità e la sua quiete. Ora, invece, una visione dominava sempre, monotona, e gli toglieva la facoltà di prender parte al presente, di udire ed esaminare la parola altrui. Sanneo, dopo che per lungo tempo gli aveva dato delle istruzioni, con voce mutata gli chiedeva: – Ha capito? – Quel mutamento di voce strappava Alfonso alle sue fantasticherie e diceva di sì tanto per venir lasciato più presto in pace e ripiombare nei suoi sogni. Ma non aveva capito niente. Non aveva udito nulla e non era capace neppure d’inquietarsene. Se ne andava lento al suo posto con passo piccolo per guadagnare tempo e interrompere le care visioni il più tardi possibile. Si ostinava tuttavia di passare le sue sere in biblioteca, ma ne usciva come ne era entrato, senza idee nuove perché per l’idea nuova il suo cervello era chiuso. Non sapeva che rievocare cose vecchie e ciò per completare qualche sogno da megalomane in cui si vedeva far mostra della sua scienza dinanzi a terzi. I suoi nervi erano indeboliti per modo che gli davano persino qualità da pazzo. Temeva ed evitava i propri simili quando non li conosceva e bastava che di sera un uomo gli passasse accanto per farlo sussultare dallo spavento. Si sentiva male all’oscuro e il minimo rumore lo faceva trasalire. Rannicchiato nel suo letto, con la testa sotto le coperte, rimaneva per delle ore senza saper conquistare il sonno. Era una conquista difficile! Come pensare a nulla? Si coricava talvolta veramente stanco e gli pareva che a dormire non gli mancasse che di chiudere gli occhi. Gettatosi sul letto, il sonno lo abbandonava e quando dopo ore giungeva a chetarsi su un punto del letto, doveva accontentarsi di un sonno senza intensità in cui il cervello continuava un lavorìo sordo, indistinto, ma non perciò meno affaticante.

– Ella è indisposto, mi pare, – gli disse Cellani vedendolo pallido e stralunato, – si prenda qualche settimana di vacanza, se ne ha bisogno.

Alfonso non accettò subito e dovette alla sera andare a chiedere a Cellani quello che alla mattina aveva rifiutato.

Alquanto bruscamente anche Sanneo gli accordò il chiesto permesso. Già da parecchio tempo aveva dovuto dare un aiutante ad Alfonso nella persona di certo Carlo Alchieri tenente d’artiglieria, pensionato per debolezza di petto. Era entrato da Maller non bastandogli per vivere la piccola pensione che gli era stata accordata. Era un giovane dal volto da vecchio con barba intera d’un colore indeciso; all’apparenza del resto era robusto. Fu l’unico a bestemmiare allorché udì del permesso accordato ad Alfonso. Era spaventato perché sapeva che gli sarebbe toccato di sopportare tutto il lavoro da solo. Sanneo non era uomo da togliere gli altri corrispondenti dalle loro occupazioni abituali per dare aiuto ad uno temporaneamente ammazzato dal lavoro, – naturalmente – come si esprimeva Sanneo, cioè senza suo intervento, per il fatto che l’impiegato conciato in questo modo era supplente, rango ufficiale, dell’impiegato che mancava.

Bastò l’uscire all’aria aperta sapendo di poterci rimanere per parecchio tempo e di esserci per scopo di salute per togliere Alfonso alla sua inerzia. Aveva intero il desiderio di riconquistare la salute. Fino ad allora non s’era doluto del suo indebolimento sembrandogli come a certi religiosi dell’India che l’annientamento della materia apporti necessariamente un aumento dell’intelligenza. Ma non era da intelligente quello stato di noia in cui le cose gli apparivano monotone e grigie.

Il sole s’era appena levato che con violento sforzo di volontà Alfonso balzò dal letto. Non sapeva dove andrebbe e il caso lo avrebbe condotto; di montagne intorno alla città non ne mancavano.

Si propose da prima di seguire una compagnia di soldati che uscivano all’esercizio. Il suono del loro passo pesante e misurato sul selciato lo infastidì. Salì la via Stadion quasi di corsa per allontanarsi da essi che seguivano la stessa via. Voleva giungere all’altipiano. La fatica per quel primo giorno sarebbe stata bastante. Non aveva passato ancora le ultime case della città, dall’aspetto da villaggio, basse, qualcuna col fienile, colorite con colori vivaci per quanto poco puri, e aveva già mutato idea. Desiderava il verde del colle che giaceva alla sua destra, non il paesaggio sconsolante dell’altipiano. Varcò su un ponte di legno un torrente dal letto largo ma quasi asciutto; soltanto una piccola vena d’acqua limpida correva la sua via capricciosa in mezzo alle pietre bianche. Attraversò dall’altra parte un viale largo e sotto ai suoi piedi finalmente sentì la terra nuda, l’erba viva cedere al suo peso. Già stanco e affannato si gettò a terra. Si trovava in un boschetto di alberelli giovani dai tronchi sottili ma dalle corone abbastanza ricche mormoranti nella brezza mattutina. A questo rumore si univa il mormorìo di una piccola caduta d’acqua in un serbatoio, una casetta bassa distante da lui di pochi passi.

Lo riprese il desiderio di correre, l’ambizione di giungere lontano. Salendo, gli alberi divenivano più fitti e più robusti. Qua e là gli arbusti gl’impedivano il passo ed egli si faceva la via correndo con impazienza febbrile. Non sapeva più il passo calmo dell’uomo forte. Varcò un altro viale ed un altro boschetto sempre salendo senza meta. Il sangue gli turbinava nella testa e gli mancava il fiato, ma non si lasciò costringere che a brevissime pause. La stanchezza non lo vinse che dinanzi ad un’alta muraglia che gli chiudeva il passaggio. Saliva da meno di un’ora e si gettò a terra sfinito; il riposo gli sembrava ora ben meritato.

Per parecchi minuti gli durò la fatica greve che lo spaventò per il violento battito del cuore e alle tempie. Si levò la giubba, la stese sotto al suo capo e si coricò accanto ad una quercia. Poco dopo, pur continuando l’agitazione nel sangue, i polmoni gli si aprirono ad un profondo respiro. Da molto tempo non aveva respirato così profondamente. Guardò il piccolo prato intorno a sé e vedendolo così chiaro, verde, ridente, ne godette come se fosse stato suo, destinato a sua abitazione. Un lembo della città era visibile. Una ventina di case ammucchiate, poi altre singole sparse sul colle dirimpetto. In fondo un pezzo di mare azzurro con barche immobili. Il cielo chiaro senza nubi fino all’orizzonte, il verde della campagna, quelle case gettate là a caso gli ricordavano un’oleografia in cui i colori erano stati eguagliati dalla macchina, l’idea del pittore diminuita nella riproduzione e scomparsa la vita, il movimento.

S’addormentò come un bambino, sorridente e coi pugni chiusi.

Sognò fantasticamente di Maria. La riconobbe a certo vestito dai colori vivaci. Gli diceva ch’ella già sapeva ch’egli all’appuntamento non aveva potuto venire per forza maggiore. Lo scusava e l’amava.

VIII

Alchieri agitato e smanioso, un fascio di carte in mano, correva verso la cassa quando vide Alfonso che col cappello in mano entrava da Sanneo ad annunziargli che ritornava all’ufficio. Diede un grido di gioia, volle fermare Alfonso che passò oltre senza accorgersi di lui, poi, immediatamente tranquillato sedette accanto a Giacomo, d’ispezione sul corridoio e tutto intento a compitare a mezza voce un giornale. Non trovando altri, fu a lui che Alchieri raccontò che da quindici giorni era la prima volta che egli si sedeva per riposare e non per scrivere.

Sanneo salutò Alfonso con cordialità e ritornando ad un enorme registro su cui gettava i suoi larghi caratteri gli chiese se stesse bene. Senz’attendere la risposta, a frasi interrotte dal lavoro che ad intervalli richiamava tutta la sua attenzione, gli parlò di alcune lettere che aveva lasciato in sospeso ma cui bisognava rispondere quanto prima possibile. Poi gliene consegnò alcune accompagnandole di spiegazioni che Alfonso non comprese che a mezzo. Sanneo si riferiva a cose avvenute prima della sua assenza, epoca che ad Alfonso sembrava lontana ben più di quindici giorni. Lo congedò con una buona nuova:

– Continuerà a farsi aiutare dal signor Alchieri che lavora benino… mi pare.

Alchieri lo fermò sul corridoio. Voleva abbracciarlo per ringraziarlo ch’era ritornato precisamente come aveva promesso:

– Non ne potevo più.

Poi anch’egli si mise a spiegargli degli affari e là, sul corridoio, gli consegnò tutte le lettere che egli aveva in mano per guardare dei saldi di conti o per avvisare delle tratte. Non vedeva l’ora di liberarsene.

Con quelle lettere in una mano, il cappello nell’altra, Alfonso andò a salutare Cellani.

Lo trovò che stava aprendo la posta. Con delle enormi forbici, con un solo taglio, apriva una parte della copertina, ne toglieva il contenuto che gettava da una parte e, prima di deporre la copertina, per prudenza, la guardava contro la luce. Anch’egli continuò a lavorare pur parlando con Alfonso, ma quando questi, sempre con la sua abituale timidezza, disse un grazie rammentando che il permesso lo doveva a lui, si alzò, e sul volto pallido un sorriso amichevole, andò a stringergli la mano. Sembrava che la sua figura lunga da sportsman in riposo, elegante ma debole, venisse portata più che muoversi da sola, tanto poca energia c’era nei suoi movimenti e tanto esattamente, senza esitazioni, passò per un piccolo spazio fra tavolo e sedia.

– Lei ha una cera bellissima – disse ad Alfonso guardandolo quasi con invidia nel volto toccato dal sole. Aveva fretta di ritornare al suo posto. Stringendogli ancora una volta la mano, gli disse ridendo: – Adesso… – e con la penna nella sinistra accennò di scrivere con grande rapidità.

Alfonso trovò che Alchieri aveva diminuito i suoi sospesi e sedendo al suo posto incuorato dalla gentile accoglienza di Cellani si propose di definirli e di non lasciare che altri se ne accumulassero. In soli quindici giorni, Alchieri, che usciva da una caserma, aveva introdotto nel lavoro un sistema preferibile di molto a quello di Alfonso e ad Alfonso fu facile, almeno per il primo tempo, di conservarlo. La maggiore tranquillità nel suo organismo rinforzato dall’aria aperta lo rendeva capace di un’attenzione maggiore per quanto sempre forzata.

Anche essendo in ufficio continuava la sua cura d’aria aperta come egli la chiamava. Faceva ogni mattina una passeggiata di più ore e solitamente verso l’altipiano perché gli occorreva la fatica della salita. Col suo passo misurato, l’aveva riconquistato, percorreva tutta la lunga strada d’Opicina spaziosa e comoda, la quale, lunghissima, con debole salita, in un solo giro, enorme semicerchio intorno alla città, lo portava sino all’altipiano. Alfonso riposava ove da questa via si staccava un viottolo verso Longera.

Di là vedeva il vasto altipiano muto e deserto con le sue innumerevoli piccole colline di sassi, di tutte le forme, appuntite, rotonde, appiattate, mucchi di sassi piovuti dall’alto e disposti dal caso che aveva fabbricato anche lo stesso monte Re all’orizzonte, con la sua larga schiena e la dolce salita da una parte, dall’altra la caduta perpendicolare quasi.

Alfonso non varcava mai quel punto e ciò non soltanto perché il tempo gli mancava. Di là vedeva anche la città con le sue case bianche, il mare abitualmente tanto calmo di mattina come se le poche ore di giorno non fossero ancora bastate a destarlo. Il verde dei promontori a sinistra della città ed il colore del mare contrastavano singolarmente con i sassi grigi dell’altipiano.

Scendeva in città quieto come in altri tempi non lo era stato che uscendo dalla biblioteca. Passava senza entrarvi accanto a Longera, un villaggio oblungo, già quasi a valle, il quale si stringeva al monte come se vi cercasse riparo, le sue casette ammonticchiate, quando facilmente avrebbe trovato aria e spazio invadendo i campi circostanti. Nelle strade del villaggio a quell’ora cominciava il formicolìo e da lontano si vedevano accennate tutte le esteriorità dell’attività e dei destini umani in quelle poche figure che si movevano per le stradicciuole del piccolo luogo. La rapida corsa di un giovinetto che Alfonso poté seguire da un lato all’altro del villaggio, l’uscita dalla sua casa di un contadino in cappello e che prima di muoversi, con tutta calma esaminava il cielo forse per sapere se dovesse prendere seco anche l’ombrello; in una stradicciuola più remota un uomo e una donna che cianciavano insieme forse già a quell’ora d’amore; in un cortile si batteva del grano e là c’era tanto movimento che da lontano poteva prendersi per allegria. Poi Alfonso passava per il ridente San Giovanni con le sue case sparse, la sua chiesuola bianca, di settimana vuota e abbandonata, di domenica tanto piena che tutti i devoti non ci capivano e le contadinelle vestite di lana nera marginata di larghe fascie di seta azzurra o rossa ingombravano il piccolo piazzale e facevano le loro devozioni all’aperto.

Il nuovo metodo di vita di Alfonso era dannoso ai suoi studi perché il primo risultato del suo spesso aggirarsi all’aria aperta fu il bisogno di quest’aria e l’incapacità di rimanere a lungo in quella rinserrata. Talvolta, uscito dall’ufficio si avviava verso la biblioteca, ma di rado sapeva vincere la sua ripugnanza fino a restarci oltre mezz’ora; lo prendeva un’inquietezza invincibile che lo portava all’aperto a incantarsi su qualche molo, senza idee e senza sogni, unica preoccupazione quella di assorbire molto di quella brezza marina di cui s’immaginava di sentire immediati i benefici effetti.

Poi se ne andava a casa e ancora a cena aveva talvolta il proposito di passare la notte su qualche libro, ma la stanchezza lo vinceva e dormiva le nove, dieci ore di sonno tranquillo, benefico tanto che non sapeva averne rimorso.

Eppure fu precisamente allora che la sua ambizione si concretò nel sogno di un successo. Aveva trovata la sua via! Avrebbe lui fondato la moderna filosofia italiana con la traduzione di un buon lavoro tedesco e nello stesso tempo con un suo lavoro originale. La traduzione rimase puramente allo stato di proposito, ma fece qualche cosa del lavoro originale. Il titolo intanto: L’idea morale nel mondo moderno e la prefazione in cui dichiarava lo scopo del suo lavoro. Era uno scopo teorico senza veruna intenzione di utilità pratica e questa gli sembrava già una novità per la filosofia italiana. Voleva, questo alla breve il contenuto del libro e fino ad allora Alfonso stesso non ne sapeva di più, voleva provare che l’idea morale nel mondo non ha altro fondamento che da un’imposizione necessaria per il vantaggio della collettività. L’idea non era molto originale ma il modo di svolgerla poteva divenirlo se esclusivamente inteso alla ricerca della verità senz’alcuna preoccupazione delle possibili conseguenze per la vita pratica: coraggio e sincerità non gli mancavano. Scrivendo aveva tutto quel coraggio che nella vita gli mancava e nei suoi studî fatti al solo scopo di imparare non poteva aver perduto la sincerità. Gli elementi che costituiscono il successo letterario non conosceva e poco curava. Voleva lavorare, lavorare bene e il successo sarebbe venuto da sé.

Lavorava bene ma lavorava poco. Ricorreva troppo di spesso col pensiero all’opera completa quando le frasi che ne aveva fatte si potevano contare sulle dita. Così, in sogno, vedeva aumentati i pregi di quest’opera che perché non ancora fatta non poteva essere stata danneggiata dalle resistenze della penna. Dopo qualche mese, vedendo che il risultato dei suoi sforzi era compreso tutto in quelle tre o quattro paginette di prefazione ove prometteva di fare e di provare ma ove nulla era fatto o provato, venne preso da un grande scoramento. Quelle pagine rappresentavano il lavoro di mesi perché altro in quel frattempo egli non aveva fatto. Non una sola volta aveva stancato il suo cervello con lo studio e quelle pagine erano il solo progresso che egli avesse fatto verso la sua meta. Era tanto poco che equivaleva ad una rinunzia tacita ad ogni ambizione.

Pigliava anche più legittimamente l’aspetto di rinunzia per il fatto incontestabile che alla banca egli si trovava meglio e che odiava meno quel lavoro che da bel principio aveva scoperto in antagonismo a quello intellettuale cui voleva dedicarsi. L’aiuto e l’esempio di Alchieri avevano cooperato a renderglielo meno odioso ma anche, riteneva, la cessazione quasi intera dell’attività più intelligente.

Per lungo tempo inutilmente tentò di ripigliare le letture alla biblioteca civica, magari lasciando per allora in disparte il suo lavoro filosofico. Una sera Sanneo lo sgridò per un errore da lui fatto. Per quanto dovesse riconoscere di meritare quei rimproveri, si irritò del modo, di una parola più brusca. Altre volte, se ne rammentava, si toglieva all’avvilimento in cui lo gettavano tali accidenti della vita d’impiegato, applicandosi con maggior fervore ai suoi studi che dovevano toglierlo alla sua posizione subalterna. Fu quel fatto che dopo lunga assenza lo portò di nuovo alla biblioteca.

Si dedicò alla lettura di un giornale bibliografico italiano. La lingua non gli obbediva e bisognava darsi esclusivamente a letture italiane. Lesse per un’ora circa con attenzione spontanea, era effetto della brutalità di Sanneo, una discussione sull’autenticità di certe lettere del Petrarca e quando cessò rimase soddisfatto, rimpiangendo i tempi passati che la stanchezza del suo cervello gli ricordava, un rimpianto forte come se da allora la sua vita avesse mutato di molto.

Quando alzò il capo si avvide che a lui dirimpetto sedeva Macario che lo fissava indeciso.

– Il signor Nitti! – disse costui quasi domandandolo; doveva avere la memoria labile. Poi però gli porse amichevolmente la mano.

Uscirono insieme.

– Ci viene spesso? – chiese Macario occupato anche questa volta a raddrizzare il soprabito, una lunga mantellina grigia dai grandi bottoni d’osso.

Alfonso con tutta disinvoltura rispose che veniva ogni sera e, tacitamente, si propose di fare in futuro della bugia una verità.

– Io da otto giorni, ed è peccato che sia la prima volta che ci vediamo – disse Macario gentilmente. Gli chiese che cosa studiasse.

– Letteratura! – confessò Alfonso esitante.

Era lieto di poterlo dire a Macario, ma esitava conoscendo e temendone lo spirito maldicente. Spiegò ch’era sua abitudine di studiare ogni giorno qualche ora per svagarsi del lavoro della giornata.

– E che cosa legge? – chiese Macario che lo guardava con sorpresa.

Trovava che Alfonso, ad onta del viso bronzino, aveva l’aspetto meno rustico di mesi prima. Parlava più disinvolto e, di più, Macario era abbastanza intelligente per comprenderlo, dinotava una certa superiorità di negare ogni importanza a degli studî fatti con regolarità.

Sapendo quanto disprezzo si avesse da certuni per filosofi e filosofia, Alfonso si astenne dal nominare i suoi autori prediletti e parlò soltanto di qualche critico. Macario doveva però accorgersi che aveva a fare con persona che si prendeva il lusso di giudizi propri e fu sorpreso di trovarlo alquanto maligno. Alfonso aveva i grandi entusiasmi per gli autori che a Macario non nominò.

Dal canto suo Alfonso seppe ben presto come fosse fatta la coltura di Macario. S’accorse con soddisfazione che ne veniva stimato tanto da indurlo a sottostare a qualche mal celata fatica per portare il discorso su quanto meglio conosceva onde poter fare con lui buona figura. Parlò di naturalisti moderni. Alfonso aveva letto qualche loro romanzo, poi qualche recensione e se ne era fatta un’idea sua con la calma dello studioso disinteressato ch’era stato allora. Ammirava qualche parte, biasimava qualche altra. Macario era un adepto risoluto e il suo entusiasmo bastò ad Alfonso per vagliare la sua mente. Così mentre Macario lo guardava con certo sorriso derisorio significante «I miei pochi studi valgono i tuoi molti perché ho buon naso», l’aspetto di Alfonso serio, attento, da scolare che riceve una lezione, celava la soddisfazione di sentirsi superiore. Evitava una discussione da cui non poteva sperare di riuscire vincitore contro la facilità di parola di Macario. La parte d’indifferente era però impossibile con un parlatore simile e, quasi involontariamente, Alfonso diede dei segni di assenso che per tranquillare la propria coscienza destinava alle singole frasi di Macario, non a tutta la sua idea. Alcune erano tanto belle che Alfonso sospettò fossero rubate. Parlava di creazione fatta dall’uomo, la quale, per i risultati, non aveva niente da invidiare a quella biblica. Nel metodo differivano alquanto, ma ambedue le creazioni finivano coll’arrivare alla produzione di organismi che vivevano a sé e che non portavano alcuna traccia di essere stati creati.

Macario raccontò che veniva in biblioteca per leggere con calma Balzac che i naturalisti dicevano loro padre. Non lo era affatto o almeno Macario non lo riconosceva. Classificava Balzac quale un retore qualunque, degno di essere vissuto al principio di questo secolo.

Erano giunti in piazza delle Legna camminando tanto lentamente che ci avevano messo mezz’ora. Per via Macario aveva trovato il tempo di ammirare il bel visino di una sartina e far arrossire una signorina sgranandole in faccia due occhi ammirati. Alfonso invece non aveva saputo far altro che ascoltare.

– Dove abita? – chiese Macario appoggiandosi al suo braccio.

– Da quelle parti! – e accennò vagamente alla città vecchia.

– L’accompagnerò un pezzo.

Come si poteva non essere lusingati di tanta gentilezza e come si poteva mettersi in discussione per difendere Balzac dalla taccia di retore? In risposta alla gentile offerta, Alfonso risolutamente sacrificò Balzac.

– È retorico di spesso, certo!

Non entrarono in città vecchia ma ritornarono sul Corso.

– Sa che lei dovrebbe ora trovarsi divinamente in casa di mio zio? È divenuta tutt’altra casa; Annetta si dedica alla letteratura. Vuole che andiamo a trovarla? È ritornata dalla campagna da otto giorni e riceve quasi ogni sera degli amici; è sulla via di emanciparsi anche più di quanto lo fosse in passato.

– Davvero? – chiese Alfonso dimostrando sorpresa.

Cercava di trovare la risposta per rifiutare l’invito.

Macario fece come se Alfonso avesse già accettato. Seguito da lui attraversò il Corso e imboccò via Ponte Rosso. Alfonso era sempre ancora indeciso.

– La vedrà! È bellissima così. Passa mezza giornata a tavolino. Ecco almeno una vocazione che non inquieta nessuno; fra qualche mese non ne parlerà più. Credo le abbia turbata la mente la fama conquistata in Italia da altre donne. Queste donne! Una comincia e le altre seguono come le oche. L’esempio degli uomini non conta per esse. Imitano questa, imitano quella, e mai s’accorgono d’imitare, perché i loro cervellini ne sanno tanto di originalità da ritenerla equivalente ad esattezza, esattezza nella copia. L’originale fra loro è quella che per la prima imita gli uomini.

Alfonso rise.

– E la signorina Annetta?

– Della signorina Annetta quale scrittrice non so nulla, perché è tanto cauta che finché non avrà imitato qualche cosa con grande accuratezza non farà vedere nulla; quindi bisogna attendere dell’altro per dare un giudizio sicuro, perché si tratta di sapere chi avrà scelto per imitare. Già ella sa l’opinione che ho di Annetta. Qualità matematiche sviluppatissime… – e fece il suo gesto abituale per accentuare il sottinteso. – Adesso intanto andiamo a farle la corte.

Entrava nella via dei Forni; Alfonso lo fermò.

– Non vengo, non posso venire. Sono atteso a casa e poi in questo stato…

Aveva il viso infocato e parlava con troppo più calore di quanto abbisognasse per rifiutare l’invito di Macario.

– Io non ve lo costringerò di certo. Peccato però! Se qualcuno l’attende ella ha naturalmente ragione di rifiutare, ma se è per il vestito ha torto. Prima di tutto è pulito e poi ora che Annetta è letterata ama anzi i bohémiens. Venga dunque, via!

Ma Alfonso resistette! Aveva già compreso da quanto gli aveva detto Macario che Annetta lo avrebbe trattato con gentilezza, ma voleva farsi pregare. Non aveva potuto prendersi altra soddisfazione dell’offesa che gli era stata fatta e intendeva di esigere almeno quella.

– Ancora sempre si rammenta della freddezza di Annetta di mesi fa, – e quantunque Alfonso protestasse e asserisse che non se ne rammentava più, andandosene Macario lo sgridò amichevolmente trattandolo di fanciullo.

La sera appresso si trovarono di nuovo in biblioteca. Alfonso ci andò più volentieri. La conversazione con Macario lo divertiva e lo lusingava la sua compagnia.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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