Kitabı oku: «A Ogni Costo», sayfa 15
Capitolo 39
10:47 p.m.
Ospedale Davis Memorial - Bethesda, Maryland
I tre uomini entrarono nella stanza come ombre.
Si muovevano silenziosi, come delle tombe. Avevano spento le luci nel corridoio. Quindi quando aprirono la porta di Ed Newsam con uno schiocco e scivolarono dentro alla stanza buia, quasi nulla nella luce cambiò.
Non aveva poi molta importanza. Ed Newsam non credeva nel sonno. Non in un momento come quello. Gli era stato prescritto un potente antidolorifico a base di morfina per le ferite da arma da fuoco e per l’anca rotta. L’antidolorifico l’avrebbe fatto dormire. Ed credeva nel dolore. Questo dolore era troppo reale per non crederci. E non rifiutò l’antidolorifico. Lo agguantò. E quando l’infermiera se ne fu andata, lo fece scivolare sotto al materasso.
Avrebbe anche potuto rifiutarlo, ma voleva farlo mettere nella sua cartella clinica. Sospettava che un qualche recesso della sua mente si aspettasse una visita come questa. Uomini di questo tipo avrebbero dato un’occhiata alla sua cartella prima di entrare.
Ed era KO. Ed prendeva antidolorifici. Ed si stava godendo un po’ di meritato riposo.
Respirava profondamente, come un uomo da tempo perduto nelle terre del nulla. Gli occhi erano aperti solo di una fessura. Molte persone dormivano così. Le mani sotto alle lenzuola. Nella destra teneva una Beretta M9. Un caricatore pieno. Un proiettile in canna. Pronta a ballare.
Gli uomini si avvicinarono al letto. Indossavano pullover scuri, pantaloni scuri, e dei cappucci neri che gli coprivano tutto tranne gli occhi.
Era piuttosto chiaro che non fossero medici.
Due erano sul suo lato destro, uno sul sinistro. Uno tirò fuori una siringa. Nella mezza luce, Ed lo guardò alzarla e rimuovere il cappuccio. Una bollicina di fluido schizzò fuori. Guardò gli altri due e annuì.
I due si mossero veloci. Ma Ed era più veloce. Mirarono al fianco del letto e provarono a pungergli le braccia. Lui tirò fuori l’arma l’istante prima che l’uomo sulla destra si muovesse. Gli piantò la pistola davanti alla faccia. La bocca era a un millimetro della fronte dell’uomo.
BAM!
Il rumore fu assordante nel chiuso della stanza. Gli occhi di Ed vedevano stelle per il flash del colpo.
La testa dell’uomo andò in pezzi. Sangue e ossa e cervella si sparpagliarono all’indietro attraverso la stanza. L’uomo cadde in avanti tra le ringhiere del letto d’ospedale. Ed lo spinse via con la pistola, e il corpo cadde sul pavimento.
Puntò la pistola in alto. La puntò nel mezzo del petto dell’uomo con la siringa. Lui alzò entrambe le mani, gli occhi spalancati dietro alla maschera. La siringa si trovava ancora nella mano destra.
BAM!
La bocca della pistola si trovava a trenta centimetri dal petto dell’uomo. Il colpo gli fece esplodere il cuore e metà dei polmoni. L’uomo si accasciò sul pavimento come se gli fosse stata aperta una botola sotto ai piedi.
Il terzo uomo si era allontanato. Era così sorpreso che non aveva neanche cercato di raggiungere la porta. Se se ne fosse andato subito, forse ce l’avrebbe fatta. Adesso era in un angolo, a tre metri da Ed. Che gli puntava la pistola dritta nell’addome. L’uomo guardò la finestra. Otto piani di altezza, ricordò Ed, senza scala antincendio. Buona fortuna.
“Bella pistola, eh?” disse Ed. “La chiamo Alice. Vuoi chiederle qualcosa?”
L’uomo alzò le mani. “Ehi. Credo che tu stia facendo un grosso errore.”
“No, tu hai fatto un errore, testa di cazzo. Vuoi uccidermi? Non venire qui a fingere che abbia avuto un’overdose. Se vuoi uccidermi, fai meglio a venire qui dentro e massacrarmi su due piedi.” Scosse la testa e abbassò la voce. “Altrimenti ecco cosa ti succede.”
Da qualche parte nell’ospedale, suonarono gli allarmi. La sicurezza sarebbe arrivata in un minuto.
“Chi sei?” chiese Ed.
L’uomo sorrise sotto alla maschera. “Lo sai che non te lo dirò mai.”
Ed era un tiratore scelto. Era un’altra delle abilità che teneva celate. A tre metri, poteva centrare tutto quello che voleva. Cambiò obiettivo e sparò all’uomo nella gamba destra, appena sopra al ginocchio.
BANG.
Ed sapeva che cosa aveva fatto lo sparo. Aveva fatto a brandelli il grosso osso che si trovava lì. Esploso in mille pezzi.
I dottori avevano detto a Ed che la parte destra del bacino era rotta, probabilmente per un proiettile che era rimbalzato e aveva perso la maggior parte della forza prima di colpirlo. La cura era riposo a letto, antidolorifici e fisioterapia. Avrebbe dovuto utilizzare il deambulatore per un po’, poi le stampelle. Per circa otto settimane avrebbe potuto soffrire di crampi, ma sarebbe dovuto tornare come nuovo. Entro sei mesi, sarebbe stato come se non fosse mai successo.
Al contrario, l’uomo che ora gridava sul pavimento non avrebbe più camminato normalmente. E questo se Ed l’avesse lasciato vivere.
Ed fece cadere la ringhiera a lato del letto. C’era un deambulatore ospedaliero vicino alla sedia, con le ruote posteriori e mezza pallina da tennis su ogni pomello anteriore. Ed se lo avvicinò, e cercò di mettersi in piedi a fianco del letto. Strinse i denti dal dolore.
Gesù. Se la vecchiaia era così, non voleva averci niente a che fare.
Guardò l’uomo sdraiato sul pavimento nell’angolo. Ed usò il deambulatore per evitare zoppicando i due cadaveri, attento a non scivolare in tutto quel sangue. Il pavimento lucido ne era allagato. Si diresse verso l’uomo ferito.
“Non abbiamo molto tempo,” gli disse. “Vediamo se riesco a tirarti fuori quel nome in un minuto o meno.”
Capitolo 40
11:05 p.m.
Contea di Fairfax, Virginia – Periferia di Washington D.C.
Luke stava andando alla deriva.
Il telefono squillava.
Si svegliò di colpo, mentre ristagnava sul sofà. Si era fatto un altro drink aspettando che David Delliger lo chiamasse. Poi si era addormentato. Questo doveva essere Dellinger.
Prese il telefono.
“Pronto?”
“Luke? Sono Ed Newsam. Ti ho svegliato?”
Luke era disorientato. “No. Che ore sono? No, non mi hai svegliato. Ed. Come stai? Volevo venire a trovarti domani. Ti porterò dei fiori. Vuoi un panino? Cioè uno vero, non come il cibo dell’ospedale.”
“Non ti disturbare,” disse Ed. “Me ne vado in mattinata. Senti, abbiamo dei problemi. Tre uomini hanno appena cercato di uccidermi.”
Luke si sedette. “Cosa? Dove sei?”
“Ancora in ospedale. Ho una decina di poliziotti qui adesso. Mi sposteranno in un’altra stanza, metteranno degli agenti di guardia alla porta.”
“Dove sono gli assassini?”
Ci fu una pausa. “Ah, sono qui sul pavimento. Non ce l’hanno fatta. Ho provato a cavar fuori un nome da uno di loro, ma non aveva voglia di parlare. Non c’era proprio nulla che potessi fare. Viene fuori che hanno ucciso un’infermiera in segreteria, e che l’hanno parcheggiata sotto alla scrivania. Sono venuti qui mascherati. Se devo tirare a indovinare, direi che questi non li identificheremo. Spie, dico io. Fantasmi.”
Luke si passò una mano tra i capelli. “Li hai uccisi tutti?”
“Sì.”
Ci fu un lungo silenzio sulla linea.
“Devi stare attento, Luke. È per questo che ho chiamato. Questa cosa del presidente… è tutto sbagliato. E questi tizi certo non sembrano iraniani. Sembrano surfisti di San Diego. Se sono venuti da me, verranno anche da te.”
Luke spense il televisore, poi si sporse verso il bordo del tavolino e spense la luce. Si accucciò e corse in cucina. Spense anche quella luce. Tranne che per il tenue bagliore arancione degli interruttori a muro e per la luce rosse al LED dello stereo del soggiorno, ora il piano terra era buio. Luke strisciò in sala da pranzo.
“Luke? Ci sei?”
“Sì. Ci sono.”
“Cosa stai facendo?”
“Niente, vecchio. Sto bene.”
Luke afferrò un angolo del tappeto blu della sala da pranzo e lo arrotolò. Sotto c’era una botola a cardini incassata nel pavimento di legno massiccio. Luke incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla e tirò fuori il portachiavi. C’erano piccoli lucchetti a destra e a sinistra, nella botola. Trovò le piccole chiavi argentee per ogni serratura, le fece scivolare dentro e aprì la botola.
“Hai intenzione di parlarmi?” chiese Ed.
“Mi sto preparando adesso, Ed. Credo che dovrei riattaccare.”
“Probabilmente è una buona idea. Buona fortuna, fratello.”
“Grazie per la soffiata.”
Luke lasciò cadere il telefono sul pavimento. Aprì la botola e ne tirò fuori una lunga scatola di metallo. Un’altra scatola dei giocattoli. Luke ne aveva diverse sparpagliate per casa. Pigiò il codice a memoria e la aprì. Era la scatola più grande di tutte.
Una mitragliatrice M16. Un fucile a pompa Remington 870. Un altro paio di pistole. Un coltello da caccia. Tre granate. Varie scatole di munizioni, moltissimi proiettili per le pistole. Fece passare la mano al di sopra delle granate. Avrebbe provato, mettendocela tutta, a non far saltare in aria la casa. Con mani appena tremanti, forse per la paura, ma forse solo per l’ansia, cominciò a caricare le armi.
Squillò ancora il telefono. Stavolta guardò il display. Il mittente era bloccato. Sospirò. Tanto valeva parlarci, chiunque fosse. Rispose, sperando in David Delliger, o magari in un po’ di telemarketing notturno.
“Luke? Sono Don Morris.”
Luke infilò cartucce da nove millimetri in un caricatore vuoto, le dita che si muovevano veloci e automaticamente. Mentre lavorava, pezzi del puzzle in cui si era ritrovato si rimettevano a posto con un tonfo sordo. Don sapeva qualcosa di quel che stava accadendo. Certo che lo sapeva. Lui e il presidente erano compagni di pesca con la mosca.
“Ciao, Don. Come mai conosci l’ex speaker?”
“Eravamo a The Citadel insieme, Luke. Molti anni fa. Dopo il diploma, io sono entrato nell’esercito e Bill si è iscritto a legge.”
“Capisco.”
“Luke, dobbiamo parlare.”
“Okay.” Luke riempì un caricatore e lo mise da parte. Cominciò col seguente. “Ma se proprio dobbiamo parlare, cerchiamo di essere sinceri, okay?”
“È giusto,” rispose Don.
“Allora perché non cominci tu?”
Don fece una pausa prima di parlare. “Be’… Ormai credo che ti sia chiaro quello che è accaduto oggi.”
“Direi cristallino, Don. E improvvisamente è diventato più chiaro ancora con questa telefonata.”
“Ne sono felice, Luke. Così possiamo evitarci i giochetti. Andiamo dritti al punto. Tu sei un guerriero dalle molte cicatrici, proprio come me. Devi capire che questa battaglia andava combattuta. È stato per il bene del paese. È stato per il futuro dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli. Non possiamo permettere che i nostri nemici ci maltrattino a livello internazionale. L’uomo in questione avrebbe ceduto tutto il forte senza sparare un colpo. Ora non più.”
Luke riempì un altro caricatore. Ne cominciò un terzo.
“E che succede adesso?” chiese.
“Sistemiamo un po’ di cose. Mettiamo un po’ di persone al loro posto, e ricordiamo a tutti là fuori chi è che comanda.”
“E dopo ancora? Che succede al governo?”
“La stessa cosa che è successa l’ultima volta. Il presidente Ryan completa il mandato in corso, in questo caso altri tre anni. Si candida per essere rieletto, oppure no. Immagino di sì, ma dipende da lui. Il popolo deciderà chi sarà il prossimo presidente. Non è cambiato niente, Luke. La Costituzione è ancora effettiva. Tutto quello che abbiamo fatto è stato premere il tasto reset.”
“Il governo civile è stato decapitato,” disse Luke.
“E allora lo sistemeremo.”
“Solo una seconda possibilità, eh, Don? Come quanto eravamo piccoli?”
“Certo. Una seconda possibilità, se ti piace.”
“Quante persone sono morte per la tua possibilità, finora?”
La linea era silenziosa.
“Don?”
“Luke, direi circa l’uno percento dell’uno percento dell’uno percento della popolazione. Trecentocinquanta persone su un totale di trecentocinquanta milioni. È una stima, ma probabilmente accurata. Ne sapremo di più domani mattina. Non un prezzo altissimo da pagare, se ci pensi bene.”
Luke si accovacciò nel buio. Si sistemò una fondina ascellare sulla spalla sinistra, poi un’altra su quella destra. Avrebbe assicurato l’M16 alla schiena. Le granate sarebbero state nelle tasche dei cargo. Avrebbe portato il fucile in braccio e avrebbe usato prima quello.
Guardò il soggiorno. Quelle finestre che andavano dal pavimento al soffitto sembravano piuttosto stupide adesso. Viveva, quasi letteralmente, in una casa di vetro. Non c’era modo di difenderla. Se ne sarebbe dovuto andare, molto probabilmente sotto una grandine di proiettili.
“Luke?”
“Ti sto ascoltando, Don.”
“Hai domande?”
“Certo. Eccone una. Perché mi hai svegliato nel bel mezzo della notte per partecipare a tutto questo? Da sei mesi non timbro neanche il cartellino. E non lavoro a un caso da dieci.”
Don rise, e quella parlata strascicata del sud si riversò fuori come sciroppo. “È stato solo un mio errore. Sei uno degli agenti migliori che abbia mai visto, ma credevo che saresti stato lento e fuori allenamento dopo così tanto tempo. E sei stato un po’ lento ieri notte, ma ti sei ripreso velocemente. Ti ho sottovalutato, ecco tutto. Saresti dovuto arrivare fino agli iraniani e fermarti lì.”
“Quindi quando la Casa Bianca è esplosa, volevate semplicemente dare la colpa agli iraniani?”
“Sì. Poteva essere così facile.”
“E Begley? Che mi dici di lui?”
Don rise ancora. “Ron Begley non riuscirebbe a trovarsi il culo con due mani.”
“Quindi lui non c’entrava nulla?”
“Oddio, no.”
Adesso fu Luke a ridere, quasi. Ovvio. Il povero Ron Begley si era sbattuto tanto per salvaguardare i diritti di Ali Nassar per ragioni che nemmeno capiva. Probabilmente pensava di proteggere la santità dell’immunità diplomatica. Se non la rispettiamo qui, loro non la rispetteranno là. O forse stava solo cercando di rompergli le palle.
“Perché mi hai chiamato, Don?”
“Adesso arriviamo al punto, figliolo. È stato emesso un altro mandato per il tuo arresto. Il capo di gabinetto dell’ex presidente è riuscito a fare una telefonata da Mount Weather prima di morire. Ti ha implicato nel disastro. Ti vogliono interrogare. In più, hai presente quell’assassinio a Baltimora di stamattina? Ecco. Sembra che tu sia stato in combutta con i terroristi tutto il tempo. Tu hai accompagnato il presidente al suo tragico destino. E lì a Baltimora eri tu che uccidevi uno dei tuoi partner per coprire le tue tracce. E noi abbiamo trovato un conto off-shore che siamo riusciti a collegare a te. Ci sono più di due milioni di dollari, lì.”
Luke sorrise.
“Sicuro di non poter fare di meglio?” chiese Luke. “Mettere un po’ di soldi su un finto conto a mio nome.”
“Credo che sarà sufficiente,” disse Don.
“E Ali Nassar?” chiese Luke.
“Quello che ti ha finanziato? È morto un’oretta fa. Suicidio. È saltato dal balcone del suo appartamento. Cinquanta piani, te lo immagini? Fortunatamente, ha colpito una sporgenza di cemento al terzo piano. Nessuno per strada è rimasto ferito.”
Luke scrollò le spalle. Non era un fan di Ali Nassar. Qualunque cosa Nassar pensasse di fare, doveva sapere che era sbagliata. E doveva sapere che la sua stessa morte era una possibilità chiara. In caso contrario, era più scemo di quanto sembrasse. “Comodo,” disse Luke. “Un altro sacrificio per il bene comune.”
“Infatti.”
“E ora vuoi che io mi arrenda pacificamente, immagino.”
“Mi farebbe piacere, sì.”
“Non ci speri tanto, eh?”
“Luke…”
Da dove si trovava, nella sala da pranzo, poteva vedere fuori dalle grandi vetrate rivolte a sud e a ovest. La casa era adagiata su una collinetta erbosa. L’altezza era un vantaggio. Era un quartiere tranquillo. I residenti per la maggior parte parcheggiavano nei vialetti o in garage.
A sud, due auto non contrassegnate erano parcheggiate faccia a faccia all’angolo successivo. Erano auto veloci, il tipo di auto che il governo confiscava agli spacciatori di droga. Avevano i finestrini oscurati. Sembravano ragni accucciati lì, in attesa. A ovest, nell’angolo più a nord della finestra, poteva vedere un furgone nero appostato sulla strada successiva. Era tutto quello che riusciva a vedere da qui. Probabilmente ce n’erano degli altri.
“Se è stato emesso un mandato per me,” disse Luke, “allora perché non mi mandate dei poliziotti e non la fate finita? Vedo solo spie.”
Don rise. “Ah, be’. Mandato potrebbe essere un parolone. Diciamo solo che ci piacerebbe che passassi di qui e facessi una chiacchierata con noi.”
Certo. La polizia non era coinvolta. Se Luke fosse uscito per arrendersi, si sarebbero semplicemente sbarazzati di lui. Sarebbe caduto in un buco nero e nessuno avrebbe più avuto sue notizie.
Non sarebbe andata così.
“Posso prometterti un bagno di sangue, Don. Se mi stai alle costole, metterò al tappetto tutti gli uomini che sono fuori da casa mia, più altri dieci, o venti, o trenta. Fanno un mucchio di vedove e di orfani. Mettimi alla prova.”
La voce di Don era tranquilla. “Luke, voglio che mi ascolti molto attentamente. Questa è la cosa più importante che ti abbia mai detto. Stai ascoltando? Mi senti?”
“Sto ascoltando,” rispose Luke.
“Hanno preso tua moglie e tuo figlio.”
“Cosa?”
“Niente di tutto questo ti riguarda, Luke. Non ti ha mai riguardato. Eri uno specchietto per le allodole, una piccola pedina in una partita molto più grande. Se te ne fossi andato a casa quando ti ho sospeso questa mattina, nulla di ciò che è seguito sarebbe accaduto. Ma a casa non ci sei andato, e di conseguenza hai messo Rebecca e Gunner in terribile pericolo. Stanno bene e nessuno gli ha fatto del male, ma tu devi ascoltarmi. Se molli adesso, se la pianti di fare quello che stai facendo e te ne esci da quella casa con le mani in alto, andrà tutto bene. Se insisti nel continuare questa… follia…” Fece una pausa. “Non lo so che cosa accadrà.”
“Don, che cosa stai dicendo?”
“Non è la tua battaglia, Luke, né la mia. È una cosa più grande di noi.”
“Don, se fai del male alla mia famiglia…”
“Non sono io. Lo sai che non farei mai del male alla tua famiglia. Tengo a loro come se fossero miei. Io sono solo il messaggero. Ti prego di ricordartelo.”
“Don…”
“È una tua scelta, Luke.”
“Don!”
Cadde la linea.
Capitolo 41
11:15 p.m.
Contea di Queen Anne’s, Maryland – Spiaggia orientale della baia di Chesapeake
Rebecca stava distesa dritta a letto, a fissare il buio. Sul margine del tavolino lì vicino, il telefono si mise a suonare. Lo guardò. Poteva vedere il display da qui. Era Luke a chiamare. Ma lei non poteva muoversi. L’avrebbe tradita. Qualcuno, lo sapeva, era dentro a casa sua.
Stava distesa lì, ghiacciata al suo posto, il cuore che le martellava nel petto. Era stata svegliata dai passi al piano di sotto di corpi pesanti che camminavano con attenzione. Era una vecchissima casa, e le assi del pavimento scricchiolavano. Non c’era quasi nessun punto su cui camminare senza produrre almeno un minimo scricchiolio.
Eccoli di nuovo. Un pesante passo dabbasso, il tentativo di fare piano, il tentativo di non farsi sentire. Ne arrivò un altro, attraverso il soggiorno dal piano terra. C’erano almeno due persone laggiù. Fuori dalla finestra della camera, sentiva altri passi felpati sull’erba di sotto. La gente andava avanti e indietro fuori dalla casa.
Capì. Le ci volle un momento, perché era ancora addormentata quando cominciarono i rumori. Gunner era in casa con lei.
Oddio. Doveva portarlo fuori.
Che cosa poteva fare? Luke teneva le sue armi sotto chiave. Gliel’aveva fatto fare perché Gunner non le trovasse mai quando fosse stato da solo.
Scivolò fuori dal letto, prestando attenzione nel posare i piedi a terra. Si tolse via la camicia da notte dalla testa. Indossò gli stessi jeans e la stessa camicia che aveva portato il giorno prima. Cominciò a venirle in mente un piano. Sarebbe andata in camera di Gunner, l’avrebbe svegliato molto piano, poi avrebbe aperto la sua finestra. Si sarebbero arrampicati fuori entrambi e avrebbero attraversato silenziosamente il tetto spiovente fuori dalla camera del bambino. Se nessuno li vedeva, si sarebbero arrampicati giù per la grondaia, e poi sarebbero scappati via fino alla casa più vicina, un quarto di miglio più avanti.
Ecco. Questo era tutto il piano.
Alzò lo sguardo e trasalì. Entrò Gunner, indossando la sua maglietta di The Walking Dead e i pantaloni del pigiama. Si massaggiò gli occhi.
“Mamma? Hai sentito qualcosa?”
Fuori dal cono buio alle spalle di Gunner c’era un uomo altissimo. Aveva un prominente pomo d’Adamo. Il suo viso era sgonfio e vuoto. La sua espressione non sembrava raggiungere gli occhi. Gli occhi erano morti. Le fece un largo sorriso.
Aveva una voce gradevole. Sembrava divertirsi.
“Salve, signora Stone,” diceva. “L’abbiamo svegliata?”
Gunner urlò, spaventato dalla profonda voce appena dietro di lui. Corse dalla mamma. Becca se lo fece scivolare alle spalle. Le sembrava che il respiro le fosse rimasto intrappolato in gola. Respirava come una locomotiva. Poi le venne in mente un pensiero strano.
“Va tutto bene, giovane signora,” disse l’uomo. “Non vi faremo del male. Non ancora.”
Il pensiero riguardava Luke. Era così paranoico, probabilmente per le cose terribili che aveva visto. Nei giorni in cui era ancora dislocato oltreoceano per intere settimane alla volta, le aveva insegnato a difendersi. Ma quello che le aveva mostrato non somigliava alla kickboxing né al karate. Non le aveva insegnato a rovesciare né a picchiare qualcuno.
No. Aveva portato a casa questi manichini molto realistici, pesanti e anatomicamente accurati. Luke le aveva insegnato a cavargli via gli occhi immergendo le dita in profondità dentro all’orbita. Le aveva insegnato a mordergli via il naso. Via! Via del tutto, bastava affondare i denti in profondità, e strappare il naso via dalla faccia. Le aveva insegnato a frantumargli, non schiacciargli, i testicoli. Le aveva insegnato a spingere la mano dentro alla bocca di qualcuno fino in fondo alla gola. Le aveva mostrato come danneggiare permanentemente un altro essere umano, specialmente uno più grosso e più forte di lei.
Ricordava il sorriso solare di Luke mentre gliene parlava. “Se arriva un momento in cui non hai altra scelta che combattere, allora devi far male all’altra persona. E non un pochino. Nemmeno tanto. Devi fargli male del tutto, in modo che non possa alzarsi e farti lo stesso, o peggio.”
Poteva farlo? Poteva far del male a quest’uomo? Se lasciata da sola, pensava di no. Ma lì c’era Gunner.
L’uomo le si avvicinò. Venne molto vicino. Indossava stivali, pantaloni kaki e una t-shirt. Schiacciò il corpo contro il suo, ma non la toccò con le mani. Il suo petto le sfiorava il viso. Becca poteva sentire il calore del suo corpo. Le schiacciò le mani contro il muro dietro di lei. Con il corpo la spinse indietro.
“Ti piace?” le chiese. Respirava profondamente. “Scommetto che non sentirai affatto la mancanza di tuo marito.”
Gunner emise un suono alla sue spalle, come lo stridio di un animale.
Becca urlò, proprio come Luke le aveva insegnato a fare. L’urlo le sprigionò energia. Spinse entrambe le mani verso l’alto e contro le palle dell’uomo. Gliele afferrò e attraverso i pantaloni gliele strizzò più forte che poteva. Le prese in una stretta mortale. Poi cercò di strappargliele via dal corpo.
Gli occhi dell’uomo si spalancarono dallo shock. Rantolò, poi cadde sul pavimento con un tonfo sordo. La bocca era aperta in un grido silenzioso. Le mani all’inguine. I pantaloni si chiazzavano di sangue. Gli aveva fatto male. Gli aveva fatto tanto male.
Si voltò verso Gunner. “Muoviti! Dobbiamo uscire di qui.”