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CAPITOLO TRE

19 ottobre

13:15 ora legale orientale

Contea di Fairfax, Virginia – sobborghi di Washington, DC

Luke aveva affittato un elicottero per andarsene dal canyon insieme a Gunner. Era riuscito a rimediare un nuovo volo, e aveva guidato come un pazzo per arrivare a Phoenix in tempo per prendere l’aereo. Per tutto il tempo aveva aggirato le domande di Gunner in merito alla loro brusca partenza.

“Tua mamma ti vuole a casa, Mostriciattolo. Le manchi, e non vuole che salti così tanti giorni di scuola.”

Sul sedile del passeggero, con l’autostrada che sfrecciava fuori dal finestrino, Luke vedeva le antenne di Gunner contorcersi come impazzite. Era un ragazzino intelligente. Stava già cominciando a capire quando le persone mentivano. Luke odiava – odiava! – essere tra i primi a farsi beccare da Gunner.

“Pensavo che avessi sistemato tutto con la mamma prima che partissimo.”

“E l’ho fatto,” disse Luke con un’alzata di spalle. “Ma le cose sono cambiate. Senti, ne parliamo quando arriviamo, okay?”

“Okay, papà.”

Ma Luke lo capiva che niente era okay. Ben presto sarebbe stato molto meno okay.

Adesso, due giorni dopo, eccolo seduto sul grande e sontuoso sofà del soggiorno della sua ex casa. Gunner era a scuola.

Luke guardò la stanza. Una volta lui e Becca avevano avuto una vita fantastica, lì. Era una casa bellissima, moderna, come uscita da una rivista di architettura. Il soggiorno, con le sue finestre che andavano dal pavimento al soffitto, era come una scatola di vetro. Si immaginò sotto Natale – seduti in quella sconvolgente stanza infossata, l’albero nell’angolo, il caminetto acceso, la neve che cadeva tutt’intorno, come se fossero fuori, quando invece erano dentro, caldi e comodi.

Dio, che bello. Ma quei giorni se n’erano andati.

Becca si agitava frenetica, puliva, spolverava, metteva via varie cose. A un certo punto della conversazione, aveva preso l’aspirapolvere dall’armadio e l’aveva fatto partire. Si trovava in un pessimo stato psicologico. Lui aveva cercato di abbracciarla appena arrivato, ma lei si era fatta di legno, le braccia sui fianchi.

“Ti avevo superato, lo sapevi?” disse adesso. “Ero pronta ad andare avanti con la mia vita. Sono anche uscita per qualche caffè con qualcuno mentre Gunner era con te, quest’estate. E perché no? Sono ancora giovane, giusto?”

Scosse la testa amaramente. Luke non disse nulla. Che cosa c’era da dire?

“Vuoi sapere una cosa su di te, Luke? Il primo con cui sono uscita era un insegnante in vacanza, un tipo carino, e mi ha chiesto che lavoro fai. Gli ho detto la verità. Oh, il mio ex marito è una specie di assassino segreto del governo. È stato nella Delta Force. E sai cos’è successo dopo? Te lo dico io. Non è successo niente. Quella è stata l’ultima volta che l’ho sentito. Ha sentito Delta Force ed è scomparso. Tu spaventi la gente, Luke. È questo che voglio dire.”

Luke si strinse nelle spalle. “Perché non dici che faccio un altro lavoro? Non è che io abbia intenzione di…”

“L’ho fatto. Una volta capito, ho cominciato a dire alla gente che fai l’avvocato.”

Per un attimo Luke si chiese che cosa significasse “gente”. Era uscita con qualcuno ogni giorno? Con due al giorno? Scosse la testa. Non erano più affari suoi, fin quando fosse stata al sicuro. E anche così… stava morendo. Non sarebbe più stata al sicuro, e non c’era nulla che lui potesse fare.

Tra loro passò una lunga pausa.

“Vuoi una seconda opinione?”

Becca annuì. Sembrava intorpidita, in stato di shock, come i sopravvissuti a disastri e atrocità. Luke l’aveva visto moltissime volte. La cosa fantastica era che sembrava anche essere assolutamente in salute. Un po’ più magra del solito, ma nessuno avrebbe mai indovinato che aveva il cancro. Probabilmente avrebbero pensato che si fosse messa a dieta.

È la chemio a farli sembrare malati. La metà delle volte, è anche ciò che li uccide.

“Ho già avuto una seconda opinione da un mio vecchio collega. All’inizio della prossima settimana ne avrò una terza. Se è congruente con quello che ho già sentito, allora entro giovedì comincio le procedure.”

“La chirurgia è un’opzione?” disse Luke.

Scosse la testa. “È troppo tardi. Il cancro è ovunque…” La voce le morì. “Ovunque. La chemioterapia è l’unica opzione. Se esaurisco i farmaci approvati della chemio, allora forse test clinici, se sono ancora viva.”

Ricominciò a piangere. Era in piedi in mezzo al soggiorno, miserabile, la faccia nascosta nelle mani, il corpo scosso dai singhiozzi. A Luke sembrava una ragazzina. Lo colpiva vederla ridotta così. Era stato circondato dalla morte molto in vita sua, ne aveva vista troppa, ma quello? Non poteva essere vero. Si alzò, e poi andò da lei. L’avrebbe confortata, se ci fosse riuscito.

Lei lo spinse via, con violenza, come una bambina che fa a pugni al parchetto.

“Non toccarmi! Stammi lontano!” Lo indicò, la faccia una furente maschera di rabbia. “Sei tu!” urlò. “Tu fai ammalare le persone, non te ne accorgi? Rubi tutto l’ossigeno della stanza. Tu e le tue schifezze da supereroe.”

Fece ondeggiare la testa da un lato all’altro, prendendolo in giro. “Oh, scusami, tesoro,” disse con una bassa e caricaturale voce maschile. “Devo scappare a salvare il mondo. Non si sa se da qui a tre giorni sarò vivo o morto. Cresci il bambino per me, okay? Sto solo facendo il mio dovere patriottico.”

Ribolliva di rabbia. La voce le tornò normale. “Fai così perché è divertente, Luke. Fai così perché sei irresponsabile. Te la godi. Per te, conseguenze non ci sono. Non ti interessa se vivi o muori, e tutti gli altri devono avere a che fare con le ricadute e lo stress.”

Scoppiò in lacrime. “Con te ho finito. Finito.” Agitò una mano nella sua direzione. “Sono sicura che l’uscita ti ricordi dov’è. Quindi vattene. Okay? Va’ via. Lasciami morire in pace.”

Con ciò, lasciò la stanza. Trascorse un momento di silenzio, e poi Luke la udì singhiozzare nella camera padronale in fondo al corridoio.

Rimase lì in piedi per un lungo istante, non sapendo che fare. Gunner sarebbe stato a casa in un paio di ore. Non era una buona idea lasciarlo lì con Becca, ma non sapeva se aveva una gran scelta. Aveva lei la custodia. Lui aveva il diritto di visita. Se in quel momento si fosse portato via Gunner, senza il permesso di lei, tecnicamente sarebbe stato rapimento.

Sospirò. Quando mai la mancanza dei diritti legali di una situazione l’aveva fermato?

Luke era smarrito. Sentiva l’energia abbandonarlo. E ancora non avevano spiegato nulla al bambino. Forse avrebbe dovuto chiamare i genitori di Becca e parlarci. La verità era che Becca aveva gestito quasi tutti i dettagli domestici durante la loro relazione. Forse aveva ragione su di lui – lui era più a suo agio fuori nel mondo, a giocare a guardie e ladri con persone molto pericolose. C’erano delle persone che si preoccupavano per lui, lo sapeva, ma non se ne curava. Che razza di persona viveva così? Forse una persona che non era mai cresciuta.

Sul tavolo di vetro vicino al sofà, il suo telefono cominciò a squillare. Lo guardò. Come spesso accadeva, sembrava quasi che fosse vivo, una vipera pericolosa da toccare.

Lo raccolse. “Stone.”

In linea c’era una voce maschile.

“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”

Alzò lo sguardo, e Becca adesso stazionava sulla soglia. Apparentemente aveva sentito il telefono suonare. Era tornata di nuovo, pronta ad ascoltare la conversazione per confermare tutti i peggiori sentimenti che provava nei suoi confronti. Per un secondo giusto, Luke si sentì pieno di livore nei suoi confronti – Becca aveva intenzione di aver ragione su di lui, a prescindere. Fin dentro alla tomba, aveva intenzione di coglierlo in flagrante.

Adesso giunse la voce di Susan Hopkins.

“Luke, ci sei?”

“Salve, Susan.”

“Da quanto tempo, agente Stone. Come stai?”

“Sto bene,” disse. “Tu?”

“Bene,” disse, ma il tono della voce diceva qualcos’altro. “Tutto okay. Senti, mi serve il tuo aiuto.”

“Susan…” cominciò lui.

“È una cosa di una giornata, ma è molto importante. Mi serve qualcuno che possa chiuderla rapidamente, e con assoluta discrezione.”

“Di cosa si tratta?”

“Non posso parlarne al telefono,” disse. “Puoi venire?”

Gli crollarono le spalle. Accidenti.

“Va bene.”

“Tra quanto puoi arrivare?”

Guardò l’orologio. Gunner sarebbe stato a casa in un’ora e mezza. Se voleva trascorrere del tempo con suo figlio, la riunione avrebbe dovuto aspettare. Se andava alla riunione…

Sospirò.

“Arrivo il prima possibile.”

“Bene. Mi assicurerò che ti portino dritto da me.”

Luke riappese. Guardò Becca. C’era qualcosa di crudele e di derisorio nei suoi occhi. C’era un demone lì, che danzava su un lago di fuoco.

“Dove stai andando, Luke?”

“Lo sai dove sto andando.”

“Oh, non rimarrai qui per passare un po’ di tempo con tuo figlio? Non farai il buon padre? Che sorpresa. Cavolo, avrei pensato…”

“Becca, smettila. Okay? Mi dispiace che tu…”

“Perderai la custodia di Gunner, Luke. Parti di continuo in missione, no? Be’, indovina un po’. Ho intenzione di fare di te la mia missione. Quel ragazzino non lo vedrai neanche. Ci lavorerò col mio ultimo respiro. Lo cresceranno i miei, e tu non avrai accesso a lui. Lo sai perché?”

Luke puntò alla porta.

“Addio, Becca. Buona giornata.”

“Te lo dico io il perché, Luke. Perché i miei genitori sono ricchi! Adorano Gunner. E tu a loro non piaci. Pensi di poter battere i miei in una battaglia legale, Luke? Io credo di no.”

Era per metà fuori, ma si fermò e si voltò.

“È questo che vuoi fare del tempo che ti rimane?” disse. “È questo che vuoi essere?”

Lei lo fissò.

“Sì.”

Luke scosse la testa.

Non la riconosceva più, se mai l’aveva conosciuta.

E con ciò, se ne andò.

CAPITOLO QUATTRO

23:50 ora dell’Europa orientale (17:50 ora legale orientale)

Alessandropoli, Grecia

Si trovavano a trenta miglia dal confine turco. L’uomo controllò l’orologio. Quasi mezzanotte.

Presto, ancora presto.

Si chiamava Brown. Era un nome che non era un nome, per qualcuno che era scomparso molto tempo prima. Brown era un fantasma. Aveva una grossa cicatrice lungo la guancia sinistra – un proiettile che l’aveva appena mancato. Portava un taglio di capelli a spazzola. Era grande e forte, e aveva i lineamenti affilati di chi aveva trascorso tutta la vita adulta nelle operazioni speciali.

Un tempo Brown era conosciuto con un altro nome – col suo vero nome. Col passare del tempo, il nome era cambiato. A un certo punto era passato per così tanti nomi da non riuscire a ricordarseli tutti. L’ultimo era il suo preferito: Brown. Nessun nome di battesimo, nessun cognome. Solo Brown. Brown bastava e avanzava. Era un nome evocativo. Gli ricordava le cose morte. Le foglie morte nel tardo autunno. Gli alberi morti dopo un test nucleare. I marroni occhi morti spalancati e fissi delle molte, molte persone che aveva ucciso.

Tecnicamente, Brown era in fuga. Era finito sul lato sbagliato della storia circa sei mesi prima, su un lavoro che non gli era neanche stato spiegato. Aveva dovuto lasciare il suo paese di origine in fretta e sparire. Ma dopo un periodo di insicurezza, era tornato in piedi di nuovo. E, come sempre, c’era moltissimo lavoro da fare, soprattutto per un uomo con la capacità di ripresa che aveva lui.

Adesso, poco prima della mezzanotte, se ne stava fuori da un magazzino in una sezione malmessa del distretto portuale di quella città marittima. Il magazzino era circondato da un’alta recinzione sormontata da filo spinato, ma il cancello era aperto. Una fredda nebbia giungeva dal mar Mediterraneo.

Con lui c’erano due uomini, entrambi con addosso giacche in pelle, ed entrambi con mitra Uzi assicurati alle spalle, e scorte extra. Quelli sarebbero stati quasi identici, solo che uno di loro si era rasato completamente la testa.

Fuori sulla strada, si avvicinavano dei fanali.

“Occhi aperti,” disse Brown. “Adesso arrivano i guerrieri santi.”

Un furgoncino risaliva il viale deserto. C’era un’immagine gigante di arance lungo la fiancata, una di queste affettata a metà a esibire la brillante polpa rosso arancio del frutto. Sulla fiancata del furgone c’erano delle parole in greco, probabilmente il nome di un’azienda, ma Brown il greco non lo sapeva leggere.

Il furgone raggiunse il cancello e proseguì dritto nel giardino. Uno degli uomini di Brown si avvicinò e fece scivolare il cancello sui binari, poi lo chiuse a chiave con un pesante lucchetto.

Non appena il furgone si fu fermato, due uomini smontarono dalla cabina. Si aprì il portellone posteriore, e ne uscirono altri tre. Quegli uomini avevano la pelle scura, probabilmente erano arabi, ma erano rasati. L’uniforme che indossavano consisteva in blue jeans, leggere giacche a vento e sneakers.

Un uomo portava un’ampia borsa di tela, come fosse una borsa per l’attrezzatura da hockey, su ogni spalla. Il peso delle borse a tracolla gli abbassava le spalle. Tre degli uomini avevano degli Uzi.

Noi abbiamo gli Uzi, loro hanno gli Uzi. Uzi party.

Il quarto uomo, il conducente del furgone, aveva le mani libere. Si avvicinò a Brown. Aveva gli occhi azzurri, e la pelle molto scura. Aveva i capelli nero corvino. La combinazione degli occhi azzurri e della pelle scura faceva uno strano effetto in viso, come se non fosse stato del tutto reale.

I due si strinsero la mano.

“Jamal,” disse Brown. “Pensavo di averti detto di venire solo con tre uomini.”

Jamal fece spallucce. “Me ne serviva uno per portare i soldi. E io non conto, no? Quindi in effetti ne ho portati tre. Tre tiratori.”

Brown scosse la testa e sorrise. Aveva a malapena importanza quante persone avesse portato Jamal. I due uomini con Brown potevano uccidere una camionata di tiratori.

“Okay, andiamo,” disse Brown. “I camion sono dentro.”

Uno degli uomini di Brown – si faceva chiamare signor Jones – prese dalla tasca un apriporta automatico, e la saracinesca del magazzino lentamente sferragliò verso l’alto. Gli otto entrarono nello spazio cavernoso. Il magazzino era per lo più vuoto, tranne che per delle pesanti incerate verdi gettate su due veicoli giganteschi. Brown andò dal più vicino e scostò l’incerata per metà.

“Voilà!” disse. Quella che aveva scoperto era la metà anteriore di un ampio articolato, dipinto di verde, marrone e colori marrone chiaro mimetici. Jones scostò l’incerata vicino alla parte posteriore del mezzo, svelando una piatta piattaforma missilistica di lancio a quattro cilindri. Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo dall’idraulica.

I camion venivano chiamati trasportatori elevatori lanciatori, o TEL, relitti della Guerra fredda, stazioni di attacco mobili che la NATO aveva usato per tenere sotto bersaglio la vecchia Unione Sovietica. I lanciatori sparavano varianti più piccole del missile da crociera Tomahawk, e i missili potevano essere equipaggiati di piccole testate termonucleari. Erano armi per un limitato colpo nucleare tattico – il tipo che avrebbe eliminato una città di medie dimensioni, o distrutto totalmente una base militare e la campagna circostante, ma forse senza causare l’apocalisse. Certo, una volta cominciato a lanciare testate nucleari alla gente, può succedere di tutto.

Ai vecchi tempi, questo sistema missilistico lo chiamavano il “Grifone”, dall’antica creatura mitologica con le gambe e il corpo di un leone, e le ali, la testa e gli artigli di un’aquila – il protettore del divino. Brown ne era entusiasta.

Il sistema era stato smantellato nel 1991, e tutte quelle unità avrebbero dovuto essere distrutte. Ma ne esistevano ancora alcune. C’erano sempre delle armi a galleggiare da qualche parte. Brown non aveva mai sentito parlare di una classe di missili o di un sistema di armi smantellati interamente – c’erano troppi soldi da fare perdendoli e facendoli saltar fuori in un secondo momento. I negozi lo chiamavano “contrazione”. Walmart e Home Depot lo sapevano bene. Così come l’esercito.

Anzi, ecco qui due delle piattaforme mobili, rimaste parcheggiate in un magazzino di una città portuale greca per tutto questo tempo, vicinissimo alla Turchia, e a meno di un miglio dai moli. Bello comodo dentro a ciascuno dei cilindri di lancio c’era un missile Tomahawk, ciascuno operativo, o che probabilmente sarebbe diventato operativo in seguito a piccolissime cure.

Era quasi come se si potessero guidare quei camion fuori di lì e dritti su una nave mercantile o un traghetto, per poi salpare per luoghi ignoti. Erano armi convenzionali, certo, ma sicuramente da qualche parte c’erano ancora delle testate nucleari perfette per quei missili.

Ma ottenere le testate non era compito del dipartimento di Brown. Quello era un problema di Jamal. Era un ragazzo capace, e Brown immaginava che sapesse già dove poterne trovare alcune di disponibili. Brown non sapeva con certezza come sentirsi in proposito. Jamal stava facendo un gioco pericoloso.

“Bellissimo,” disse Jamal.

“Dio è grande,” disse uno dei suoi uomini.

Brown fece una smorfia. Di regola, faceva una smorfia quando si parlava di religione. E bellissimo era un termine relativo. Quei camion erano due delle macchine da guerra più brutte che Brown avesse mai visto. Ma avrebbero tirato su un bel casino – poco ma sicuro.

“Ti piacciono?” chiese Brown a Jamal.

Jamal annuì. “Molto.”

“Allora vediamo i soldi.”

L’uomo con le pesanti borse a tracolla si avvicinò. Se le sfilò dalle spalle e le posò sul pavimento in pietra del magazzino. Si inginocchiò e le aprì, una alla volta.

“Un milione di dollari in contanti in ciascuna borsa,” disse Jamal.

Brown fece un cenno col capo all’altro suo uomo, quello calvo.

“Signor Clean, controlla.”

Clean si inginocchiò vicino alle borse. Estrasse un fascio di banconote tenute insieme da un elastico da varie sezioni di ciascuna borsa. Prese un piccolo scanner digitale dalla tasca e si mise a rimuovere le banconote da ogni fascio. Accese la luce LED UV sul dispositivo e mise le banconote sulla finestra dello stesso una alla volta, svelando il filo di sicurezza d ciascuna. Poi strisciò una pen tester su ogni banconota, svelando la filigrana nascosta. Era un processo macchinoso.

Mentre Clean lavorava, Brown ficcò una mano nella giacca, toccando la pistola che lì si trovava. Cercò il contatto visivo col suo uomo Jones, che annuì. Se doveva succedere qualcosa di strano, sarebbe accaduto in quel momento. Il linguaggio del corpo degli arabi non cambiò – continuavano a osservare impassibili. Brown lo prese come un buon segno. Erano davvero lì per comprare i camion.

Il signor Clean lasciò cadere un fascio di soldi sul pavimento. “Bene.” Raccolse un altro fascio, cominciò a sfogliarli, controllandone le banconote con il dispositivo. Il tempo scorreva.

“Bene.” Lasciò cadere quel fascio e ne raccolse un altro. Passò altro tempo.

“Bene.” Procedeva.

Dopo un po’ la cosa cominciò a farsi noiosa. I soldi erano veri. Nel giro di dieci minuti, Brown si rivolse a Jamal.

“Okay, ti credo. Sono due milioni.”

Jamal si strinse nelle spalle. Aprì la giacca e ne estrasse un ampio portamonete di velluto. “Due milioni in contanti, due milioni in diamanti, come d’accordo.”

“Clean,” disse Brown.

Il signor Clean si alzò e prese il portamonete da Jamal. Clean era l’esperto di soldi e valori di quella piccola squadra. Prese dalla tasca un diverso dispositivo elettronico – un piccolo quadrato nero con la punta di un ago. Il dispositivo aveva delle luci sul fianco, e Brown sapeva che testavano la dispersione di calore e la conduttività elettrica delle pietre.

Clean si mise a prendere le pietre una alla volta dal sacchetto e a passarci sopra delicatamente la punta dell’ago. Ogni volta che ne faceva una, si sentiva un tono caldo. Ne aveva passate una dozzina prima che Brown gli dicesse un’altra parola.

“Clean?”

Clean guardò Brown. Sorrideva.

“Finora sono buone,” disse. “Tutti diamanti.”

Ne testò un’altra. Poi un’altra.

Un’altra.

Brown si voltò verso Jamal, che stava già facendo segno ai suoi uomini di tirare l’incerata e salire a bordo dei camion.

“È stato un piacere fare affari con te, Jamal.”

Jamal lo guardò a malapena. “Altrettanto.” Era preso dai suoi uomini, e dai camion. La parte successiva del loro viaggio era già cominciata. Portare due piattaforme mobili di lancio per missili nucleari con missili inclusi nel Medio Oriente probabilmente non era cosa facile.

Brown sollevò un dito. “Ehi, Jamal!”

L’uomo magro si voltò verso di lui. Fece un gesto impaziente con la mano, come per dire, “Cosa?”

“Se ti beccano con quella roba…”

Adesso Jamal però sorrise. “Lo so. Io e te non ci siamo mai visti.” Indietreggiò verso il camion più vicino.

Brown si voltò verso il signor Jones e il signor Clean. Jones era su un ginocchio, a rimettere i soldi nella pesante borsa. Clean stava ancora testando i diamanti del borsello di velluto, maneggiandone uno alla volta, il dispositivo con l’ago ancora in mano.

Avevano vinto alla lotteria. Le cose finalmente si mettevano bene, dopo il fiasco che aveva costretto Brown a lasciare il suo paese. Sorrise.

E tutto in un solo giorno di lavoro.

Però nella scena c’era qualcosa che lo disturbava. I suoi non stavano facendo attenzione all’ambiente – erano distratti da tutti quei soldi. Avevano abbassato la guardia, di brutto. E anche lui. In un’operazione diversa, la cosa si sarebbe potuto ritorcere contro di loro. Non tutti erano degni di fiducia come Jamal.

Si voltò per guardare di nuovo gli arabi.

Jamal era lì, vicino al camion, con in mano uno degli Uzi. Due dei suoi erano con lui. Erano in piedi in fila, a puntare le armi su Brown e i suoi uomini.

Jamal sorrise.

“Clean!” urlò Brown.

Jamal sparò, e i suoi uomini fecero lo stesso. Giunse il brutto chiasso di un mitragliatore. A Brown parve che gli stessero quasi sparando con una manichetta per l’acqua. Sentì i proiettili forarlo, farsi strada dentro di lui come api che pungono. Il suo corpo fece una danza involontaria alla quale lui cercò di ribellarsi, invano. Era quasi come se i proiettili lo tenessero su, fissandolo come con uno spillo in posizione eretta, facendolo tremolare e ballare.

Per un attimo perse conoscenza. Tutto si fece nero. Poi era disteso sulla schiena, sul pavimento di cemento del magazzino. Riusciva a sentire il sangue versarsi fuori dal corpo. Riusciva a sentire che il pavimento era bagnato, dove si trovava disteso. Attorno gli si stava allargando una pozzanghera. Provava molto dolore.

Guardò il signor Clean e il signor Jones. Erano entrambi morti, i corpi crivellati, le teste scomparse per metà. Solo Brown era ancora vivo.

Gli venne in mente che era sempre stato un sopravvissuto. Cavolo, era sempre stato un vincitore. Era assurdo che dopo più di due decenni di combattimenti, folli avventure e anguste fughe morisse adesso, così. Era impossibile. Era troppo bravo nel suo lavoro. Avevano tentato di ucciderlo così tanti uomini prima di quel momento, e avevano fallito. La sua vita non sarebbe finita così. Non poteva.

Cercò di mettere la mano in tasca per la pistola, ma il braccio sembrava non funzionare bene. Poi si accorse di un’altra cosa. Nonostante tutto il dolore, non riusciva a sentirsi le gambe.

Riusciva a sentire il bruciore nella pancia, dove gli avevano sparato. Riusciva a sentire il dolore fischiante alla testa, dove era andato a sbattere sul pavimento in pietra quando era caduto. Deglutì, poi sollevò la testa e si fissò i piedi. C’era ancora tutto laggiù, e tutto attaccato – ma non riusciva a sentire niente.

I proiettili mi hanno reciso la spina dorsale.

Nessun altro pensiero gli aveva mai causato tanto orrore. Trascorsero svariati secondi in cui vide il suo futuro – avanzare sulle ruote di una sedia a rotelle, cercare di arrampicarsi dalla sedia al sedile del conducente dell’auto accessibile ai disabili, svuotare la sacca della colostomia che gli risucchiava via la merda dal suo inutile sistema digestivo.

No. Scosse la testa. Non c’era un tempo per quello. C’era un tempo solo per l’azione. La pistola di Clean era sopra alla sua testa e dietro di lui. Si allungò – faceva male anche solo alzare le braccia così – ma non riuscì a trovarla. Cominciò a strisciare all’indietro, trascinandosi dietro le gambe.

Qualcosa colse la sua attenzione. Alzò lo sguardo ed ecco che arrivava Jamal, avanzando da spaccone verso di lui. Il bastardo sorrideva.

Avvicinandosi, sollevò l’arma. La puntò su Brown. Adesso Brown notò che con Jamal c’erano i suoi due uomini.

“Non cercare di fare niente, Brown. Stattene steso fermo.”

Gli uomini di Jamal presero la pesante borsa con i soldi, e il piccolo portamonete con i diamanti. Poi si voltarono e tornarono ai camion. Salirono nella cabina del camion di testa. Si accesero i fanali. Il motore ruttò e scoreggiò, del fumo nero si riversò sul lato del conducente.

“Tu mi piaci,” disse Jamal. “Ma gli affari sono affari, no? Per questo affare non lasciamo niente di incompiuto. Mi dispiace. Sul serio.”

Brown cercò di dire qualcosa, ma sembrava non avere voce. Tutto ciò che riuscì a fare in risposta fu farfugliare.

Jamal sollevò di nuovo la pistola.

“Vuoi un momento per pregare?”

Brown quasi rise. Scosse la testa. “La sai una cosa, Jamal? Mi fai venire i nervi. Tu e la tua religione sono sciocchezze. Se voglio pregare? Pregare cosa? Non c’è nessun Dio, e lo scoprirai non appena…”

Brown vide il fuoco lambire la fine della canna della pistola. Poi era piatto sulla schiena, a fissare il soffitto del magazzino alto sopra la sua testa.

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Yaş sınırı:
16+
Litres'teki yayın tarihi:
10 ekim 2019
Hacim:
331 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781640299467
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