Casa editrice: Tektime
Il presente romanzo è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.
Dedicato a Cristina Mencarelli che,
il giorno stesso in cui è volata in cielo,
mi ha regalato lâispirazione
per scrivere questo romanzo.
Grazie, piccola principessa.
Jane Madison entrò nella classe vuota e si sistemò allâultimo banco, dietro a tutti.
Quello in cui si trovava era il peggior liceo di Seattle, famoso per i casi di violenza che contava, ma non aveva altra scelta.
Nonostante lâinfinita e delicata femminilità che non lâabbandonava in nessun contesto, lâacuta intelligenza che la caratterizzava, la bontà che la qualificava, la ragazza era costretta a condividere tutte le sue mattine con giovani criminali che sâimmischiavano in certi guai, teppisti che pur di ingannare la noia, di guadagnare un poâ di gloria tra i compagni o per il vano tentativo di esercitare sugli altri una pericolosa quanto insensata autorità , si impegnavano a scatenare violente risse che quasi sempre sfociavano in un finale sanguinoso. Condivideva la sua esperienza scolastica con decine di casi umani che non erano dotati della sua stessa premura, altra rara qualità umana che sostituiva, senza volerlo, alla pietà ; i suoi compagni non sarebbero mai stati in grado di raggiungerla nella profondità di certi sentimenti. Nella sua spontaneità erano scritti i segreti della sua ingenuità , nella sua tenerezza erano nascosti i segreti dei suoi sentimenti.
La giovane studentessa tirò fuori dallo zaino il volume di filosofia ai capitoli che aveva imparato perfettamente il giorno precedente; non câerano parti o date che non ricordasse nei dettagli, ma ormai gli occhi sembravano piacevolmente abituati a scorrere tra le righe, sulle immagini in bianco e nero, sulle note di fianco ai paragrafi. Nonostante il baccano provocato dagli studenti che iniziavano a entrare, Jane rimaneva con lo sguardo inchiodato sulle pagine del suo libro consumatissimo allâinterno del quale comparivano riquadri dâappunti, divisioni per paragrafi e parole chiave annotate con pennarelli colorati.
Era lâunica della classe a non avere un compagno di banco.
âCi avrei scommesso, la secchiona è già in aulaâ esordì Ashley Trevor, la più trasgressiva dellâistituto che si era guadagnata il titolo di reginetta della scuola. I capelli scuri, gli occhi chiari. Dietro il suo formoso corpo comparvero le sue due seguaci più fedeli: Emma Baker e Amanda Miller.
Nel chiacchiericcio generale, mentre si sistemavano i due alunni entrati per ultimi, Flores, il professore di filosofia, esordì: âBuongiorno a tutti, ragazziâ.
La classe però non rispose; quasi tutti gli alunni erano impegnati in qualcosâaltro di più importante.
Flores si accomodò.
âBene! Che ne dite di iniziare la lezione con qualche domanda per ripassare lâultimo argomento?â
Forse lâunico difetto di Flores era trattare i suoi alunni come se stessero lì per imparare a leggere e a scrivere; era lâunico che li mitragliava di domande non appena arrivava in classe.
âMoore, dove nacque Aristotele?â
Il ragazzo cercò di fargli credere di avere il nome di quella maledetta città sulla punta della lingua. Il professore era esigente e fissato per i dettagli. Passarono altri interminabili secondi.
âChi lo sa si faccia avantiâ incitò lui. Una ragazza alzò la mano.
âMi dica Lopezâ. Betty Lopez, capelli rosso fuoco, piercing sulla lingua e sei tatuaggi complessivi sul corpo.
âAteneâ rispose convinta.
âSbagliato signorina Lopez. Perché alza la mano quando sa di non avere in testa le giuste risposte?â
Una caratteristica di Flores era di dare del lei ai suoi studenti. A molti non piaceva quella sua insolita abitudine di cercare di mantenere un minimo di educazione.
âRingrazia che ancora sto qui dentro e non ti ho tirato una sedia, razza di pivelloâ attaccò Betty. Questo era il rispetto massimo che si aveva di un professore: avvertirlo almeno una volta senza passare immediatamente allâazione.
Il docente valutò come nulla la risposta della studentessa e decise di proseguire la lezione senza darle la soddisfazione di arrabbiarsi. Qualche anno prima, dopo aver rimproverato a lungo un ragazzo, si era trovato la macchina in fiamme non appena uscito dallâistituto. Da quellâepisodio in poi, il signor Flores aveva rinunciato alla causa che aveva sposato allâinizio della sua carriera e cioè aiutare i ragazzi cercando di fargli capire che fuori il mondo era durissimo e che senza palle, educazione e intelligenza non si arrivava da nessuna parte. Ma continuavano a essere convinti che la violenza avrebbe risolto ogni problema.
âLa sua compagna di banco?â
âLâargomento non mi interessaâ fece la ragazza chiamata in causa.
âAnche lei credeva fosse Atene. Molto bene, mi fa piacereâ sentenziò lui muovendo lentamente il capo.
âCâè qualcuno che lo sa?â
Silenzio per pochi secondi. Poi il nome.
âJane Madisonâ.
Emma Moore scoppiò inutilmente a ridere.
âMi dica un poâ di Aristotele. Cosa sa?â
âAristotele nacque a Stagira, una cittadina della penisola Calcidica nel nord della Grecia nel 384 avanti Cristo. Data la prematura morte di suo padre, fu allevato da un parente più anziano, di nome Prosseno. All'età di 17 anni, andò ad Atene al fine di entrare a far parte dell'Accademia di Platone e ci rimase per benâ¦â
âBasta cosìâ.
Flores, alzando una mano avanti a sé, interruppe la melodica voce della ragazza che nei toni e nellâandatura della sua parlata nascondeva qualcosa di delicato e ammaliante, proprio come quando, ascoltando una composizione classica rinascimentale, non sapremmo dire se quello che ci ha conquistati sia il motivo in generale, o qualche nota di natura sconosciuta, che sembra esser stata aggiunta di nascosto al posto giusto per suscitare nel cuore dellâascoltatore unâemozione, precisa e spietata.
Flores tornò a guardare gli altri.
âà così che si studiaâ tuonò a voce bassa scandendo perfettamente ogni parola. Lâintento del professore, quando la minima speranza di salvare qualcuno si faceva sentire più del solito, era di innalzare Jane su un prestigioso podio, così da mostrare a tutti quale fosse lâesempio da seguire per avere un ottimo andamento scolastico.
âOra passiamo alle date di Socrate. Allen?â
Il ragazzo sembrò cadere dalle nuvole. Era intento a osservare la punta della sigaretta che aveva acceso e a soffiarci sopra.
âLe date di quando è nato e quando è morto?â
âNo di quando ha smesso di portare il pannolino e di quando ha perso la verginità â.
Nessun professore osava scherzare in una classe del genere; Flores lo faceva nel modo giusto, era serio, ma riusciva a far sorridere qualcuno. Gli studenti più difficili da gestire, senza volerlo e senza ammetterlo, stimavano la sua sicurezza e il suo modo di essere severo e morbido allo stesso tempo.
âSecondo me non se lo è mai tolto il pannolino quel moccioso di Socrateâ. Altre risate si levarono dalla bocca di alcuni dopo la perla di saggezza sparata da Allen.
âEsca dallâaulaâ ordinò severamente Flores.
âProf stavoâ¦â
âHo detto esca immediatamente dallâaula!â
Mentre Allen si alzava svogliatamente per abbandonare lâaula, Jane prese un pezzo di carta e ci scrisse sopra la risposta. Era unâabitudine che aveva preso fin dalle scuole elementari: scrivere su un foglio tutte le risposte che gli altri non riuscivano a dare. Ashley, che le era seduta davanti, capì cosa aveva scritto e glielo strappò dalle mani. Sapeva della sua curiosa abitudine.
âProfessore?â fece Ashley alzando la mano.
âCosa câè signorina Trevor?â
âComunque Socrate è nato ad Atene nel 470 avanti Cristo circa ed è morto nella stessa città nel 399â disse con decisione.
âOttimo Trevor. Complimentiâ.
Lei gli sorrise e accartocciò il bigliettino. Le sue amiche le alzarono il pollice.
âVedete? Anche la vostra compagna è preparata. Prendete esempio. Lei lo sapeva, signorina Madison?â
Ashley si girò e le lanciò uno sguardo di fuoco allargando le palpebre.
Dopo un attimo di esitazione rispose: âNo, professoreâ.
* * *
Non appena uscì dal liceo, Jane fu sorpresa da una feroce spallata di Ashley. La ragazza si limitò a raccogliere il libro che le aveva fatto cadere senza badare più del dovuto al colpo. Il suo carattere purtroppo, estremamente docile e tollerante, non le aveva mai permesso di farsi rispettare a dovere da chi, fin dal primo giorno, aveva deciso di approfittarsi di tanta educazione e rispetto per far prevalere la propria falsa superiorità e la propria presunta bellezza. Neanche davanti alle torture più atroci avrebbe ammesso che Jane era di gran lunga migliore di lei, a partire dalla mente, sveglia e acuta, alla bellezza estetica, delicata, ma ferma, evidente senza mai cadere nel volgare.
In ogni caso, le considerazioni giornaliere sul rapporto burrascoso e antipatico che aveva instaurato con Ashley, si volatilizzarono non appena si trovò davanti al cancello grigio di casa sua. Se avesse dovuto descrivere cosa provava nel momento in cui doveva entrare, non ne sarebbe stata capace. Avrebbe voluto vivere in qualsiasi altro posto, ma non lì.
Lâimponente e ricercata architettura esterna dava lâimpressione di essere un fantastico sogno in cui vivere liberi e felici, ma la realtà era tuttâaltro: in nessun posto si sentiva così tanto prigioniera.
Una volta spalancato il cancello, ad accogliere la ragazza - così come i rarissimi ospiti che avevano voglia di fare una visita alla famiglia Madison - câera ogni giorno un adorabile pratino inglese che circondava lâintera casa come un vasto oceano con una minuscola isola deserta; il vialetto che conduceva alla porta dâingresso tagliava in due il prato ed era formato da pietre triangolari di terracotta di un colore simile al rosso porpora. Inoltre, lungo il vialetto câerano, per ogni lato, tre vasi di ceramica alti circa un metro simili a maggiordomi che accompagnavano gli ospiti in casa. Tolta lâestetica raffinata e lâattraente architettura generale, da quando aveva messo piede lì dentro fino al suo ultimo compleanno, il ventunesimo, non aveva fatto altro che sperare in una svolta, in una libertà improvvisa, in una scarcerazione dalla prigionia della grande meravigliosa e allo stesso tempo invivibile villetta. Ma fino a quel giorno non era arrivato mai nulla di simile.
Entrò.
In cucina trovò la sua matrigna, Ginger Dixon, davanti al passeggino della sua piccola sorellastra Alisha Madison, di tre anni.
Ginger rappresentava, agli occhi della giovane, un canone di donna, di madre e di amica che non avrebbe mai voluto seguire; da quel genere di persone non sarebbe mai uscito qualcosa di imitabile, di prezioso, di amabile.
âCiao Ginger, sono tornataâ salutò entrando sorridente in cucina.
La cosa che le saltò subito agli occhi fu ciò che vide dietro la donna. Una montagna di piatti e bicchieri ancora da lavare. Guardò la matrigna che dava da mangiare alla piccola.
âCiao Ginger, sono tornata unâora prima perché non câera ilâ¦â
âJane ti ho vista è inutile che mi saluti per la centesima volta. Ciao! Sei contenta adesso? Non vedi che ho da fare?â le disse senza neanche guardarla.
Jane si scusò senza meravigliarsi di ricevere una risposta simile.
Tornò quindi ad assumere lo stesso sorriso falso e svogliato di prima, cercando di far mangiare la piccola Alisha ormai stranita e propensa a farla irritare ancora di più con qualche capriccio di troppo. La ragazza invece si rifugiò in camera sua, cercando di non badare più di quanto già non facesse al pessimo rapporto che si era creato con quella donna così gelida e poco incline a qualsiasi forma di sentimento che si avvicinasse alla tenerezza o, peggio ancora, alla dolcezza.
La ragazza, per distrarsi e scaricare alcuni residui del nervosismo che cominciava a corroderle lo stomaco, iniziò a studiare alcuni capitoli di filosofia applicando le tecniche mnemoniche più difficili che conosceva. Dopo averle utilizzate quasi tutte, però, si alzò dalla sua postazione e scese giù in cucina con un gran buco allo stomaco.
Per qualche ragione la colf che badava alla cura e allâigiene di casa Madison da una vita non era ancora arrivata, così decise di facilitarle il lavoro iniziando a preparare il pranzo.
Non impiegò più di un quarto dâora e, non appena riempì tutti i piatti, fece irruzione in casa il capofamiglia: Gary Madison. Parlare di lui non era facile, così come non lo era parlare con lui. Se Ginger rappresentava la donna che non sarebbe mai voluta diventare, Gary rappresentava lâuomo che non avrebbe mai voluto al suo fianco. Si era meritato dalla ragazza il soprannome di bestia.
âQuesti hamburger fanno veramente penaâ sbottò Gary gettando la forchetta nel piatto.
Jane si sentì morire. Divenne rossa in faccia, ma non osò guardare suo padre.
âJane, non dirmi che hai cucinato tuâ.
Si sentiva lo sguardo della bestia addosso.
Provò a ribattere.
âLi ho fatti io. Gingerâ¦â
âGinger ha lavorato stanotte al contrario di te, stronza! Come osi tirarla in ballo?â disse alzando la voce e sbattendo con forza il pugno sulla tavola. âNon ti permetto di provare ad accusarla! Hai capito bene?â
Jane annuì rassegnata.
Il pranzo proseguì in un pesante silenzio. Avrebbe voluto scusarsi, ma sarebbe stato inutile. Per un attimo pensò addirittura di raccontare comâera andata la giornata a scuola per cercare di alleggerire quellâatmosfera tesa che in casa regnava perennemente, ma nessuno lâavrebbe degnata delle giuste attenzioni, quindi rinunciò. Non ci si poteva parlare di niente, ecco perché teneva aggiornato il diario dalla copertina rosa che portava sempre con sé al liceo (e che di notte nascondeva tra i libri di testo che teneva nellâarmadio), su cui scriveva ogni suo pensiero, ogni avvenimento degno di nota come le riflessioni, i desideri e i sogni.
Quel diario, testimone da sempre delle sue emozioni più profonde, non avrebbe rivelato le sue parole ad anima viva nonostante le avesse tatuate sul voluminoso corpo di carta. Guardava Jane china su di lui con gli occhi azzurri socchiusi, intenti a controllare la punta a sfera della penna che si muoveva velocissima tra le sue righe perfette; aveva lâonore di essere lâunico a sapere i piaceri desiderati e le mancanze collezionate che modellavano la vita di Jane insieme ai rari sorrisi che riuscivano a baciare le sue labbra dopo aver scalato montagne di malinconia.
Quando aveva voglia di dare vita a quello che non avrebbe mai voluto dimenticare, inforcava la penna e iniziava a scrivere, rendendo concreto ogni pensiero che come un fantasma girava ansioso nella sua mente: in quel modo lo imprigionava tra le righe del suo diario segreto.
Analizzare quello che la preoccupava di più, una volta scritto, sembrava fargli perdere parte della sua forza negativa; scrivere su quel diario la aiutava a fronteggiare meglio le sfide quotidiane e scacciare via, per quanto possibile, il male di cui erano macchiati i suoi giorni.
* * *
Come sempre fu la prima a entrare in aula; lâatmosfera che aleggiava tra i banchi, resa languida dallâora mattutina e impalpabile dallâassenza di tutti i compagni che presto lâavrebbero invasa, donava alla ragazza un prezioso momento di tranquillità in cui poter fare un bel respiro e prepararsi alla lunga giornata che lâaspettava. Quando, infatti, arrivarono gli altri, quellâadorabile atmosfera sparì di getto rendendola, ormai, nientâaltro che un miraggio appena impresso nella memoria.
La lezione di arte era iniziata da poco quando la professoressa disse alla classe che si sarebbe assentata per un momento. E il suo momento, di solito, non era meno di quaranta minuti. Non appena abbandonò lâaula, ognuno prese a fare qualcosa. Jane tirò fuori il suo quaderno dalla copertina rosa e buttò giù qualche riga.
Caro diario,
la lezione di arte è appena saltata e questo non mi piace: sai solo tu che il mio grande sogno è fare la pittrice.
Ad ogni modo mi sento spaesata e fuori luogo. Di tutte queste persone non riesco a trovarne una con la quale condividere quello che mi accade, qualcuno che mi capisca, che esca con me o che almeno mi saluti affettuosamente senza che poi venga a chiedermi di passare gli appunti che prendo durante le spiegazioni... Voglio mia madre. Anzi, rivoglio mia madre. Chiederei a Dio in persona di farmela avere almeno per unâora, non chiedo altro. Questa vita è un inferno, con lei sarebbe diverso.
Mi basterebbe solo unâora.
Dio, una sola ora.
Jane M.
La mano tremò leggermente e le si appannarono appena gli occhi; li strizzò e con la manica della felpa cercò di asciugarseli. Sua madre, Grace, era morta in un bruttissimo incidente quando lei era ancora troppo piccola per realizzare il tutto. In casa non si parlò mai dellâaccaduto, tranne la prima e lâultima volta in cui il padre la informò di come stavano le cose. Tua madre è morta in un incidente stradale, fu la sola spiegazione che ricevette quando iniziò a domandare insistentemente di lei.
Uscì dallâaula sospirando, si diresse verso il bagno e, quando spalancò la porta, trovò due ragazze che si stavano baciando.
âChe cazzo ti guardi, puttanella?â disse una interrompendo il bacio. La ragazza che parlò aveva soltanto una cresta di capelli rossi simile a quella di una gallina, al centro della testa, alta almeno trenta centimetri. Il resto del cranio era accuratamente rasato. In faccia aveva tre piercing e le braccia piene di tatuaggi. La sua amichetta non era da meno.
Jane abbassò lo sguardo, si diresse verso il lavandino e si sciacquò le mani sotto il gelido flusso dâacqua. Le ragazze continuarono a baciarsi indisturbate. Jane si asciugò le mani sui jeans e uscì: non si era ancora abituata, ma scene come quelle non erano insolite. Attraversando poi il corridoio per rientrare in classe si accorse che la porta della grande aula di musica era socchiusa e la cosa la lasciò più sorpresa rispetto al bacio tra le studentesse a cui aveva appena assistito: da quando studiava in quel liceo non era mai riuscita a vedere cosa ci fosse allâinterno della stanza, dato che la porta rimaneva sempre rigorosamente chiusa. Nessuno poteva metterci piede, tolti la professoressa nonché musicista di fama mondiale Sarah Kattabel e i pochi allievi che ci suonavano. Anche se Jane moriva dalla voglia di varcare quella soglia e curiosare allâinterno della famigerata stanza, non si azzardò a entrare. Un tempo non era così: potevano accedere tutti per assistere alle lezioni oppure alle lunghe prove che facevano gli alunni alcuni mesi prima del consueto concorso che si svolgeva poco dopo il rientro dalle vacanze natalizie. Anche se non straripava di iscritti, la possibilità di segnarsi al corso pomeridiano e quindi di partecipare al concorso era sempre stata concessa a tutti. Dopo il gran casino le cose cambiarono: una notte un paio di ragazzi riuscirono a entrare nella sala e le diedero fuoco. Scelsero proprio lâaula di musica perché câerano sedie di legno, montagne di spartiti, pianoforti, altri strumenti in legno come i violini, le chitarre, quindi le fiamme si sarebbero moltiplicate più facilmente e il liceo, secondo loro, sarebbe andato distrutto. Dopo lâaccaduto i dirigenti scolastici decisero di spendere una fortuna per ricostruire lâintera sala e ristrutturare gran parte dellâistituto. Quelle furono le ultime mosse disperate per cercare di restituire credibilità al liceo, ma ormai la brutta fama gli era piombata addosso e sarebbe stato difficile cancellarla.
Oltre che ricostruirla di nuovo, i dirigenti pensarono bene di vietare la sala ai ânon autorizzatiâ così da renderla più sicura e restituire lâimmagine di un posto dove si dovevano seguire delle regole per mantenere sempre alto lâordine. Tutto questo funzionò esclusivamente per la sala di musica, mentre il resto continuava ad andare sempre peggio.
* * *
Era difficile capire quel liceo.
Alcuni giorni teppisti e prede sembravano farsi la guerra solo scambiandosi occhiatacce e si limitavano, se proprio non si tolleravano, a qualche sopportabile spallata. In altri giorni invece la situazione si presentava con unâaltra terribile faccia. Le guerre con gli sguardi si trasformavano in guerre di pugni, calci, sangue e grida. Câerano volte in cui la litigata finiva solo con qualche dente rotto, altre in cui qualcuno ci rimetteva una spalla, altre ancora si rischiava direttamente di morire come era successo qualche anno prima al preside, accoltellato; i giornali locali non facevano altro che utilizzare ingenti quantità dâinchiostro per raccontare quello che era successo per lâennesima volta nel Liceo Maledetto, così soprannominato dai cittadini che lo conoscevano, o nel Liceo del Degrado, per usare lâespressione consacrata dalla stampa giornalistica.
Quando Jane Madison decise di rientrare in aula, si accorse che lungo il corridoio era in corso una delle solite risse. Si avvicinò e cercò di capire cosa stesse succedendo dato che non si era mai imbattuta in una scena di quelle proporzioni, nonostante si trovasse da ormai tre anni nel peggiore dei licei. Si era formata una specie di platea composta da decine e decine di ragazzi che avevano circondato i due compagni in lite. Gettando unâocchiata a quello che era diventato il ring, riconobbe immediatamente Adrian, uno dei tanti bulli che quel giorno se la stavano prendendo con Tim Hallen, il vincitore della gara di violino dellâanno precedente.
La metà dei ragazzi aveva il telefonino in mano e, tra urla e risate, filmava lâaccaduto.
âFemminuccia, è vero che scopi il tuo bel violino?â gridò a gran voce Adrian. Tim era in ginocchio, lo guardava con aria terrorizzata e aveva le mani protese in avanti come se sapesse che stava per ricevere un calcio in faccia.
âChe fai ti infili nel culo la stecca o direttamente tutto lo strumento?â lo canzonò ancora Adrian mentre si sbatteva ripetutamente un pugno sul di dietro; i suoi amici erano piegati in due dal gran ridere, mentre altri sputavano addosso al povero ragazzo ormai completamente paralizzato dalla paura.
âAdesso ti devo cacciare in quel cervello da imbecille che non puoi prendermi a spallate come hai appena fatto altrimenti te la passi male, mi sono spiegato?â disse ancora Adrian, puntandogli il dito.
âIo non ti ho visto, ti ho già chiesto scusa!â gridò disperato Hallen.
Adrian gli sferrò un calcio sulla spalla destra scaraventandolo a terra. Dopo decine di grida da parte degli spettatori ormai fomentati dalla scena che finalmente iniziava a scaldarsi, Adrian decise di dare spettacolo e iniziò a sferrare altri calci al ragazzo che giaceva a terra indifeso.
âSono o no un cazzo di campione?â domandò ai suoi amici alzando le braccia come un pugile.
âSei grande, Adrian!â rispose uno di loro cercando di battergli il cinque anche se il suo idolo non lo calcolò minimamente.
âAlzati, pezzo di merda!â gridò il bullo mentre pensava a cosa avrebbe potuto fare per rendere unico il suo spettacolo. Tim ancora era a terra.
âNon... non respiro... smettila ti prego!â supplicò affannosamente mentre cercava almeno di mettersi in ginocchio. Tossiva e schizzi di sangue coloravano il pavimento.
âChe cosa cazzo sentono le mie orecchie? Era un comando o sbaglio?â disse mentre gli sferrava un pugno dietro la schiena. La faccia di Tim era incollata al pavimento.
Jane rimase immobile e fissava senza parole Adrian; non riusciva a capire perché quel senso di inadeguatezza verso la vita riuscisse a trasformare un semplice ragazzo in una furia che si scatenava contro uno degli studenti più calmi e intelligenti. Rimasta impietrita con i pensieri congelati su quelle domande senza risposta, Jane pregò per Hallen: pregò vivamente che non morisse.
A un certo punto qualcuno si accorse che lui stava per intervenire: la persona che mai nessuno si sarebbe augurato di far arrabbiare, uno dei criminali più giovani del quartiere e, senza ombra di dubbio, il più violento: Steven Taylor. Arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, occasionale traffico di armi, era conosciuto per le atroci gesta grazie a cui si era guadagnato il primo posto tra tutti i teppisti e i bulli della zona. Occhi scavati, denti stretti, sguardo pesante, quasi due metri di altezza per 120 chili di peso, braccia massacrate da cicatrici e niente da perdere.
Non appena si avvicinò alla cerchia di persone, alcuni ragazzi si spostarono per farlo passare.
Quando Steven entrò nel ring improvvisato dai due ragazzi, Adrian lo guardò con stupore rendendosi conto che aveva conciato per le feste il secchione di turno convincendosi che non câera nulla da temere e che il boss si sarebbe complimentato. Sarebbero diventati amici o magari, proprio se si voleva fantasticare, Steven avrebbe iniziato a temerlo sul serio, vista la violenza con cui aveva massacrato di botte Tim.
âCiao, Steven!â disse il bullo facendogli un cenno con la mano.
âAdesso ci penso ioâ avvertì lui. Dopo quelle parole, si ruppe il silenzio che si era creato e non câera una singola persona che non urlasse o che non fosse fuori di sé: finalmente lo avrebbero visto allâopera.
Jane si mise le mani nei capelli, esterrefatta e preoccupatissima per Tim. Era sicura che, con lâintervento di Steven, la sua fine sarebbe stata assicurata.
Le persone intente a godersi lo spettacolo sembravano moltiplicarsi senza sosta. Nessuno badava alla campanella, che suonò per la seconda volta avvertendo tutti che era arrivato il momento di tornare nelle aule perché stava succedendo qualcosa di irripetibile: neppure Jane, bloccata dalla paura e dalla preoccupazione, si accorse che il break mattutino era terminato e che le lezioni stavano per riprendere.
âTe lo lascio con piacere questo stronzetto!â gridò entusiasta.
Steven si avvicinò a Tim mentre alcuni ragazzi erano in delirio. A un certo punto si accovacciò, girò il ragazzo facendogli assumere una posizione supina e, con la mano sinistra, cercò di alzargli un poâ la testa mentre con la destra iniziò a schiaffeggiarlo delicatamente per svegliarlo dallo stato di semincoscienza.
âChe⦠Che succedeâ¦â disse finalmente Tim aprendo con fatica gli occhi.
Quando si ritrovò Steven davanti constatò che sarebbe stato meglio rimanere a terra a perdere sangue fino a morire del tutto.
âIoâ¦â gli mancava la fatica anche per giustificarsi.
âNon parlare, hai preso botte ovunque e devi andare immediatamente in ospedaleâ sentenziò Steven. Alzò la testa e si rivolse a una ragazza con i capelli verdi.
âRazza di imbecille, chiama immediatamente unâambulanzaâ ordinò. La ragazza interruppe il video che stava facendo e obbedì allâistante.
Steven si rivolse a un altro ragazzo e gli disse di togliersi la felpa e lanciargliela per metterla dietro la testa di Tim, come fosse un cuscino.
Nessuno urlava più. Nessuno stava capendo. Quello era davvero Steven Taylor?
Lâenergumeno si alzò lasciando Tim e si girò con uno sguardo assassino verso Adrian.
âLo sai quando divento veramente cattivo?â tuonò lui avvicinandosi.
Adrian pregò di morire, ma il suo desiderio non venne esaudito.
âIo nonâ¦â ogni risposta sarebbe stata infinitamente inutile.
âLa violenza, quella vera, si usa contro quelli che fanno violenza gratuitaâ sussurrò Steven, come se nessuno dovesse sentire.
Allargò le palpebre fino a rendere chiaramente visibile il colore bianco che faceva da sfondo ai suoi occhi scuri.
âPagherai per essere stato violento contro chi non ti aveva fatto niente e a fartela pagare sarò io stessoâ dichiarò Steven.
Il bullo cercò di fuggire, ma Steven gli corse dietro fino a raggiungerlo. Con un solo pugno sul cranio riuscì ad atterrarlo e, non appena lo vide sul pavimento, ci si buttò sopra con tutto il peso iniziando a strozzarlo; rese la sua stretta così forte da non far respirare più Adrian, il quale cercava di dimenarsi. Poi, come preso da un attacco di follia, Steven gli staccò una mano dal collo e iniziò a prenderlo ripetutamente a pugni ai lati del volto, allâaltezza dei due orecchini. Le urla dei ragazzi si triplicarono e il sangue iniziò a schizzare sulla maglietta del teppista. Lâincontro terminò con una tremenda gomitata che Steven sferrò sul volto del suo avversario. Alcune ragazze scapparono.
Adrian era immobile a terra.
Tim si era ripreso.
Steven aveva fatto giustizia.
Polizia e ambulanza irruppero poco dopo nel liceo.
Jane stava piangendo.
* * *
Alla fine Jane aveva sbirciato e visto la micidiale gomitata che Steven aveva sferrato al bullo di turno. Mentre tornava a casa pensò a quanto sarebbe stato più semplice se ognuno di loro avesse cercato di risolvere i problemi con serenità cercando di chiarire ogni cosa con il dialogo, invece sembrava che fosse la violenza a dover essere utilizzata per regolare i conti. Quando però arrivò davanti al suo cancello, guardò un attimo casa sua e si ricordò che certi problemi erano più grandi di mille soluzioni messe insieme e che a volte sperare era davvero una perdita di tempo. Tutto poteva cambiare, tranne la vita che era costretta a vivere ogni giorno; guardava i bulli e credeva fermamente che sarebbero potuti diventare persone degne di camminare a testa alta, con lo studio e lâimpegno avrebbero raggiunto ottimi risultati. Aveva speranze persino per tipi come Adrian e Steven. Quando invece la figura del padre le si materializzava come un mostro nella mente, crollavano i grattacieli di ottimismo che si creava, ogni forma di illusione rivelava la propria faccia falsa e gridava la realtà : più giù di così non si poteva scendere.