Kitabı oku: «Rinaldo ardito», sayfa 4
CANTO V
I
Chi veder vole un bel giardino ameno,
Che sia de' riguardanti allo occhio grato,
De ordini il veggia e varietadi pieno,
Chè cum tal variar si fa più ornato;
Così un poema sta nè più nè meno,
Che esser de' vario in tutto et ordinato;
Così varia il pittor col suo pennello,
E per il variare il mondo è bello.
II
III
Avea Ranaldo ormai sì intenerita
E scaldata d'amor la bella dama,
Che l'uno e l'altro come la sua vita,
E il cuor del petto suo si aprezza et ama;
Non è la dama più nel cuor smarrita,266
Ma tacendo conferma, e l'amor brama;
Ranaldo di scaldarla mai non resta,
L'abbraccia, l'accareccia, e falle festa.
IV
Ma mentre stan li amanti in tal diletto,
Nè più la dama ormai fa resistenza,
E sperano d'amor l'ultimo effetto,
Nè vi è chi lor ne faccia conscienza,
Entrar li fece in subito suspetto
Un rumor grande, e strana appariscenza
Ch'ivi comparse267 e fe' sorger Ranaldo,
Che era in quel punto tutto d'amor caldo.
V
La dama non men presta in piede sorse,
Insieme vergognosa e tremebonda,
Subito apresso al suo Ranaldo corse,
Come dir voglia: guarda la tua Ismonda;
Ma ben presto Ranaldo le soccorse.
Ma voglier268 mi bisogna a una altra sponda,
Nè dir vi posso or questa istoria tutta,
Che meglio gusta il ber bocca più asciutta.
VI
VII
E longamente nella Spagna errando,
Or nella Catalogna, ora in Castiglia,
Pur di Ranaldo va sempre cercando,
E cerca l'Aragona e la Siviglia;
Di cercarlo non resta, e nol trovando
Verso Valenza alfine il camin piglia,
Più presto non sapendo ove si andasse,
Che di veder la terra desiasse.
VIII
E quasi apresso alla cittade essendo,
Vide uscir fuori una gran gente armata,
E in mezzo a quella sopra un carr273 piangendo
Cum l'una e l'altra man drieto legata
Era una dama, quale a fuoco orrendo
A morir crudelmente274 è condennata;
E sì pietosa piagne,275 e aiuto impetra,
Che mosso aria a pietade un cuor di pietra.
IX
Cum una benda aveva la donzella
Legati li occhi, come allor si usava,
Che non vedendo il suo tormento quella,
Così forse il morir manco le agrava;
Però bench'essa fusse in viso bella,
Per quella benda allor nol dimostrava;
Ma pietosa era nel suo pianger tanto,
Che gentil si mostrava insin nel pianto.
X
XI
Era capo di quelli un mascalzone
Maggior de li altri più d'una gran spana,279
Largo in le spalle, e grosso di ventrone,
Tagliato ha il viso, e guardatura strana;
E sin nell'ossa, a dirlo, era poltrone,
Che ha 'l corpo grande, e il cuore di puttana;
Ma in tutta Spagna mai non fe' natura,
Quanto era in quello, la maggior bravura.280
XII
Tutto era armato di armatura bianca,
E sopra li altri di statura avanza;
Or Bradamante, quella dama franca,
Verso di quello accosta la sua lanza;
E proprio al petto nella parte stanca
Il ferr281 li pose cum tanta possanza,
Che più di un palmo lo passò di dietro,
Come di giaccio fusse o fragil vetro.
XIII
Poi subito recossi in man la spada,
E al resto di color cacciossi adosso;
Non così secator atterra biada,
Quanto essa di color fa il terren rosso;
Scampale ognun davanti e fale strada,
Che quanto gionge taglia insino all'osso;
Tal fende al petto, e tale alla centura,
E chi non gionge, caccia di paura.
XIV
Fu in breve spazio sbarratato il piano,
E abbandonato cum la dama il carro;
Fugì ciascuno che volse esser sano,
Morto quel capo lor poltron bizzarro;
E nell'arcion la dama cum la mano
Trassessi presto più ch'io non vel narro;
E via fugendo quella dama porta,
E cum parol la inanima e conforta.
XV
XVI
Ivi slegolla, e gli occhi le disciolse,
E in terra dall'arcion repose quella,
E alquanto reposarse anch'essa volse,
E allor d'un salto si levò di sella;
Dapoi la dama apresso si raccolse,
Guardolla in viso, e ben le parve bella,
Che per la benda che avea a li occhi involta,
Bellezza le era e la apparenzia tolta.
XVII
E subito pietà di quella prese
Maggior che pria la forte Bradamante,
E all'altra dama chi fusse chiese,
E qual cagion la indusse a pene tante;
Quella che sempre Bradamante crese
Esser non donna, ma barone aitante,
Rimase del suo onore in gran suspetto,
E più d'un gran suspir gittò dal petto.
XVIII
Poi le rispose: Sapi, cavaliero,
Che per mio ben da Dio fusti mandato,
Che di ciò che mi chiedi io dirò il vero,
Che molto ben da me l'hai meritato.
Ma perchè dirvel poi più ad agio io spero,
Queste per or vi lasso in quel bel prato,
Che poi fur, per averle nelle mani,
Assai cercate da' Valenziani.
XIX
Le dame io lasso et a Ranaldo io torno,
Che disturbato fu dal suo piacere,
Nè fu sì lieto mai quanto quel giorno,
Se si potea la dama allor godere;
Onde restonne cum disconzo284 e scorno,
Che ben perfetto non si puote avere;
E subito al rumor recossi in mano
La sua Fusberta il sir di Montalbano.
XX
Riguarda quello, e vede giù da un monte
Scendere un toro fra tre vacche belle,
E un pastor grande, che di fresco monte285
Tutte le aveva, seguitava quelle,
Che avea un solo occhio in mezzo della fronte,
Nè già vi scrivo favole e novelle;
Che grande era quello occhio a ponto a ponto
Quanto quatro comuni a giusto conto.
XXI
Questo non crederà qualche vulgare,
Che poco sale nella zucca serra,
Chè sol dà fede a quel che all'occhio appare
Il vulgo ignaro che vaneggia et erra:
Come che a un cieco descriveste il mare
Quanto sia grande, e i monti286 della terra,
E la torr287 di Babel, e che vi è gente
Che tutta è nera, crederebbe niente.
XXII
Ma talor più ragion che 'l senso vede,
Chè lo intelletto è di maggiore altezza,
E i mostri di natura esser concede,
Anci più volte il sentimento sprezza;
Chi crederia che 'l sol, che par de un piede
A nui che siam qua giuso, di grandezza
Della terra maggior sia per natura
Centosessantasei volte288 a misura?
XXIII
Se creder non volete ai scritti miei,
Prestate fede almeno al buon Turpino:
Credete il ver, ch'il falso io non direi,
Non son greco bugiardo, ma latino;
Chi crederebbe la essenzia di Dei,
La providenzia e lo ordine divino?
La fede è sol del certo incerto a nui,
Credete mo' quel che ne piace289 a vui.
XXIV
Ora tornando al mio primo proposto,
Le vacche costui guida alla campagna,
E come sopra vi narrai, composto
Longamente pastor, nasciuto in Spagna;
Ma di veder la Franza era disposto290,
Che del steril paese assai si lagna,
Quale è gran parte nel paese ispano,
Però se n'è partito, e va lontano.
XXV
E dove era Ranaldo cum Ismonda
Apunto apunto si trovò per caso;
Ranaldo che sua sorte assai gioconda
Sturbar si vede, e n'è privo rimaso,
Tanto si sdegna, e tal furor gli abonda
Che foco soffia per la bocca e naso;
E cum Fusberta in mano a gran furore
Andò Ranaldo contra a quel pastore.
XXVI
Più non si mosse allor quel rozzo e brutto
Pastor, come ivi alcuno non vedesse,
E che securo si trovasse in tutto,
O contra a lui un fanciullino avesse;
E mossessi291 il gran tor292, quale era instrutto,
Che se in lor danno alcuno si movesse,
Debbia quel toro cum le corna urtarlo,
E cum quel colpo occiderlo o atterrarlo.
XXVII
Mossessi il toro allor cum gran rovina,
E a un urto riversò Ranaldo al piano,
Proprio nel ventre cum la fronte china
La bestia gli fermò quel colpo strano;
Tramortito è Ranaldo, e la meschina
Ismonda piagne e si lamenta in vano,
Che subito il pastor quella pigliava,
E in mezzo alle tre vacche la cacciava.
XXVIII
Come una belva fusse o un'altra vacca,
Innanzi si cacciava Ismonda bella,
E così nell'onor la offende e smacca,
Che assai più che 'l timor molesta quella;
Nel cuor dogliosa, e già nel pianger stracca
Non ardisce gridar, nè pur favella,
Però che se piangesse, avea timore
Che 'l tor non la offendesse o quel pastore.
XXIX
Così lassando oppresso il suo campione,
Ismonda fra le vacce293 caminava,
Il mostro che chiamato era Burone,
A un folto bosco oscuro la guidava;
La giovane tra se chiama Macone,
Ma nulla alla meschina allor giovava;
Prima tre or che fusse risentito
Stette Ranaldo in terra tramortito.
XXX
Manca la continuazione
CANZONE
AI LEGGITORI CORTESI ED ERUDITI
LUIGI MARIA REZZI
Il nome e il grido d'un uomo grande ne accende in cuore maraviglia ed affezione così viva, che se per avventura ne viene alle mani una cosa, avvegnachè di picciol conto, la quale ne faccia a sapere di novello o chiarisca un fatto o un detto di lui, ovvero siagli in alcun modo appartenuta, noi l'abbiamo senz'altro in assai pregio, e ce la tenghiamo carissima.
Io credo adunque, o Leggitori cortesi ed eruditi, mettendovi dinanzi agli occhi questa canzone di Lodovico Ariosto, di farvi un dono molto e raddoppiatamente pregevole e gradito: secondochè voi potrete per essa e conoscere meglio una particolarità storica che lo risguarda, e gustare un frutto di quella mente divina assai squisito, rimasto fino ad ora a chicchessia, quanto io mi sappia, nascoso.
E piacciavi di udire s'io dico il vero. Noi sappiamo ch'egli avanti d'ammogliarsi ad Alessandra Benucci, lasciata vedova di se da Tito Strozzi, fu preso d'amore per una donna, nomata Ginevra, e però cantata da lui sotto allegoria d'un Ginepro 296 . Ma di tale avventura amorosa non si hanno notizie, se non dubbie e manche. L'Abate Girolamo Baruffaldi che ne scrive più a lungo, s'è rimaso nel sospetto che la Ginevra o non fosse fiorentina della famiglia de' Lapi, come il Sansovino affermava, o se sì, che non in Fiorenza, ma in Mantova dimorasse 297 . Altri di fresco ha messo in dubbio ch'ella fosse amata da Lodovico tanto quanto comunemente s'estima. Da ultimo se per li versi di lui n'è certo in qual modo ed età l'affetto suo inverso quella avea pigliato cominciamento, e che al quarto anno durava tuttavia 298 ; niuno ci ha potuto dire finqui come e perchè gli fosse uscito dall'animo e venuto meno. Adunque per la canzone ch'io vi do qui messa per la prima volta sotto a' torchi delle stampe, scritta senza dubbio per la Ginevra, come per l'allegoria usatavi dentro vi si fa manifesto, voi apprendete tutte queste particolarità; cioè ch'ella abitava lungo le sponde dell'Arno, e non del Mincio: che l'Arno la piangeva a sè tolta come cosa sua: che dalle rive di questo fiume ella si partì in compagnia d'altrui, forse del marito, per valicare le Alpi e porre stanza in Francia, in qualche città o terra bagnata dalle acque della Saona: che Lodovico, disperando di poterla più nè seguitare nè ritrovare in sì lontano paese, dovette, non per leggerezza d'animo, ma per necessità, fattone prima il lamento grande, secondochè in simili incontri è il costume degli amatori, darsi pace una volta e cessare dall'amarla: finalmente non essere da credere che non fosse assai caldamente amata da lui una donna, la cui partenza, gli ha cavato del cuore versi, come questi sono, pieni di rammarico sì vero ed alto.
Che poi cotesta canzone sia un frutto assai squisito di quel divino intelletto, io spero ed estimo, che voi ne converrete meco di buon grado. E imprima voi sapete bene che una canzone allegorica, la quale non sia breve, quanto per lo vivo senso di se e di sua potenza attiva che la mente nostra prova nel raccorre e paragonare le simiglianze che sono dall'obbietto figurato a quello che lo figura, è cosa piacevole e bella a leggere o ascoltare; altrettanto è malagevole a fare per l'artifizio grande che vi si richiede, e se non vogliamo che il diletto si muti in pena, forza è che non appaia. E Lodovico ha condotto questa sua per dieci stanze sotto allegoria d'un ginepro sì maestrevolmente, che sembra essergli venuta giù dalla penna senza uno studio al mondo. Il più miracoloso poi si è, che il concetto allegorico, venendo più da arte che da natura, non raffredda qui per niente il vivo ardore della passione, e non ne impaccia o tarda i varii e concitati movimenti, E sì che le smanie d'un amatore passionato a avventuroso, il quale si vede tolta ad un tratto e per ognora colei ch'era la gioia del cuor suo, non potevano, al mio parere, essere colorite a tinte più vere e più calde e franche. Come in mezzo al dolore ch'egli sente per la perdita fatta, s'intenerisce e teme per la sua donna ita a starsi sotto aspro e stranio cielo! Come alla mestizia dello stato presente mescolando la memoria delle allegrezze trapassate, rammenta queste appena, che ricade più desolato in quella! Come traportato qua e là dal vario ondeggiamento degli affetti or teneri or dolorosi, si lascia vincere da ultimo alla piena dell'affanno in tanto che prende a fastidio la vita, non cura soccorso, ed odia ogni cosa che gli era dinanzi e dolce e cara! Al che non vi disgradi, o Leggitori, d'aggiungere avvedimento ed artifizio assai bello e secondo natura, degno, chi ben lo consideri, d'essere all'uopo imitato, non che avuto in pregio. Il quale è che qui ogni stanza corre libera di se e sciolta al tutto dalla legge del dover essere l'una uniforme alle altre nel numero e nella qualità de' versi e nella rispondenza delle rime. Perciocchè non è egli bello e secondo natura che anco l'abito esteriore della canzone prenda forma dal subbietto di quella? e che l'andamento del metro sia vario e diseguale, come varii e diseguali sono i moti d'un animo agitato e messo in iscompiglio da forte e disperato dolore?
Io voglio però che voi sappiate, che cotesta canzone, venutami, parecchi anni sono, sotto gli occhi nell'atto che stava esaminando uno zibaldone Barberiniano manoscritto, contenente diverse poesie latine ed italiane, non notato ne' cataloghi nè contrassegnato di numero alcuno, non porta veramente nè in fronte nè altrove nome d'autore qual che si sia. Ciò non di meno io non istetti allora, nè sto oggi in forse d'attribuirla fidatamente a Lodovico Ariosto. E queste sono le ragioni che mi condussero già e tengonmi fermo tuttavia in cosifatta sentenza; ed io spero che voi le avrete per buone e salde.
La scrittura è senza dubbio di mano d'un copiatore vissuto al secolo XVI, come pure la forma del dire è l'usata in tale età, non in alcuna di quelle che furono innanzi. Fra i poeti adunque del secolo XVI è da cercare chi ne sia autore. Or de' poeti del cinquecento io posso senza giattanza affermare d'aver letto, pressochè tutti, i canzonieri e i tanti libri di rime raccolte da parecchi, una gran parte de' quali, comecchè alcuni sien rari, sono giunto altresì dopo cure molte ad avere in possesso; e consideratili bene, io dico con sicurtà a niuno di loro potersi essa ragionevolmente ascrivere, ma sì a Lodovico Ariosto. E in primo luogo niuno di quelli, il quale sia salito in qualche fama, ha scritto versi per sua donna, sotto aperto nome di Ginevra, salvochè, se pur la memoria non mi fallisce, l'Ariosto e Bernardo Tasso 299 . Che questa non sia la Ginevra Malatesta cantata da Bernardo, non è da dubitare; essendochè, oltre molte altre cose ch'io potrei dire, e che ognuno può agevolmente per se ricavare dalle rime di lui, si sa che ella era da Rimini, e andò moglie al Cav. degli Obizzi non in Francia, ma in Italia 300 . Che poi sia la Ginevra amata dall'Ariosto, pare a me esser chiaro a sufficienza per le cose qui dette di lei, le quali molto ben s'accordano a quello che e la storia ne racconta, e Lodovico medesimo accenna nella canzone allegata di sopra. Dappoichè la prima afferma ch'ella fu fiorentina: e qui per l'appunto l'Arno è tratto fuori a piangere e a dolersi che gli sia tolto il suo bel Ginepro 301 . Il secondo, accommiatando la predetta sua canzone, dicele:
Canzon, crescendo con questo ginepro,
Mostrerai che non ebbe unqua pastore
Di me più lieto, e più felice Amore:
e qui altresì tocca e rammenta in più stanze lo stato d'allegrezza e felicità, ov'erasi fino a quell'ora ritrovato 302 . Nè i particolari di tal amore, conosciuti ora di nuovo e annoverati in sul principio del proemio, contrariano alla storia: anzi tutti vi si rannodano assai bene, e giovano a farne sapere quale verisimilmente ne fosse il seguito e il fine. Il subbietto adunque, preso a cantare dal poeta secondo il suo costume allegoricamente, potria parere esso solo più che bastevole a mostrar vera la mia opinione. Ma a confermamento di quella viene eziandio la maniera, onde la canzone è ordita. Tutti i poeti del cinquecento, eccettone l'Alamanni e i due Tassi, Bernardo e Torquato, e alcuni pochi nè molto valenti imitatori loro, i quali hanno seguita una certa via nuova da non potersi scambiare con altra, hanno foggiato le canzoni loro amorose, sì quanto ai concetti e al tessuto, che quanto allo stile, sugli esempi datine dal Petrarca. Ma questa, come voi vedete, non ha per niente il fare petrarchesco, ma più tosto un fare che trae a quello di Catullo e di Tibullo. E al secolo XVI solo l'Ariosto è quegli, il quale, come si mostra per alcune canzoni e capitoli suoi, è andato seguitando le orme di que' candidi, eleganti ed affettuosi scrittori antichi d'elegie. Finalmente, posto eziandio che non avessi gli argomenti recati in mezzo finqui, io m'indurrei a gridare Lodovico autore di questa canzone solo per la bellezza e bontà singolare dello stile poetico che per entro vi si ravvisa. Chi, se non egli, ha fior di lingua sì candido e puro? Chi modi e vezzi di favellare sì freschi e scelti? Chi tropi sì vivi e modesti? Chi dire di sapore sì attico e antico, elegante ad un tempo e naturale? Chi verseggiare sì libero e franco? Chi imaginare sì spontaneo e ricco? Chi maniera sì dolce e bella di toccare gli affetti del cuore secondo natura, e dietro le norme avutene dagli antichi scrittori latini e greci? Per le quali cose tutte io conchiudo che questa canzone o è fattura dell'Ariosto, o non v'è poeta del secolo XVI. i cui versi sieno conosciuti, al quale si possa a buon dritto ascrivere.
Abbiatevela voi dunque, o Lettori cortesi ed eruditi, in dono, e piacciavi di gustarla; e se non avete per ancora il palato guasto dai liquori acri e mordaci vegnentici d'oltremare o d'oltremonti, io m'assicuro ch'ella v'avrà sapore d'uno de' frutti più squisiti e dilicati che siano surti fuori del bel terreno, ove già ebbero nascimento Catullo, Tibullo e Lodovico.
Si vegga fra le poesie varie di Lodovico Ariosto stampate in Firenze nel 1824 presso Giuseppe Molini a f. 146 il sonetto VII, il quale incomincia:
Quell'arboscel che in le solinghe rive.
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Quando il sol parte, e l'ombra il mondo cuopre, ove alla stanza IV. l'Ariosto canta così:
Ginevra mia, dolce mio ben, che sola,Ove io sia, in poggio o 'n riva,Mi stai nel core, oggi ha la quarta estate,Poi che, ballando al crotalo e alla piva,Vincesti il speglio alle nozze d'Iola,Di che l'Alba ne pianse più fiate:Tu fanciulletta alloraEri, ed io tal che ancoraNon sapea quasi gire alla cittate. Dal che si ricava eziandio che la canzone ora data alle stampe dev'essere stata scritta da lui nell'età giovanile: tanto più che alla stanza VI. di questa egli dà al suo Genebro l'aggiunto di giovine. Nè voglio lasciar qui di notare che questa canzone, trovata dal Baldelli attribuita all'Ariosto e scritta di sua mano dal Varchi, non solo si legge stampata dal Doni ne' Marmi sotto il falso nome di Jacopo de' Servi; ma ancora nel libro secondo delle rime di diversi nobili uomini ed eccellenti poeti (Giolito 1547. in 8. a c. 150) e per errore più solenne ascritta a Giulio Cammillo, poeta, come ognun sa, a cui certo la lena non poteva di gran lunga bastare a scrivere cosa sì elegante e leggiadra.