Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 14

Yazı tipi:

V.

S’era stabilito col parroco e l’avvocato che il signor Marco Léuca non sarebbe venuto mai solo in casa della moglie, e che le visite – brevi – non dovessero essere più di due al mese. Invece, a pochi giorni di distanza dalla prima, eccolo un’altra volta, e solo; con l’aria d’un cane che preveda d’esser male accolto e, aspettandosi un calcio, sogguardi pietosamente.

La signora Léuca riesce a dissimulare il turbamento per la contrarietà che ne prova, e lo fa entrare e sedere nella saletta da pranzo.

Appena seduto, lui si copre con le grosse mani la faccia e si mette a piangere; ma senza nessuna teatralità, questa volta.

La signora Léuca lo guarda e comprende che quel pianto, per finire, aspetta che lei dica una parola di pietosa esortazione.

E poi?

No no. Che sia ritornato, così presto e solo, e che lei non si sia rifiutata di riceverlo, è già troppo. Incoraggiarlo con qualche buona parola sarebbe come accettar senz’altro che i patti possano d’ora in poi non esser più rispettati e abilitarlo a venire anche ogni giorno e a chiedere subito chi sa che cos’altro.

No no. Bisogna che lo trovi lui da sé, smettendo di piangere, il coraggio di dire perché è ritornato. La ragione. Una ragione di fatto, se l’ha.

Dio mio! Dio mio! Dopo due ore di supplizio, la signora Léuca resta come intronata, convulsa in tutte le fibre del corpo.

Le ha detto d’esser venuto perché voleva confessarsi. E invano lei gli ha ripetuto più volte ch’era inutile, perché sapeva, sapeva tutto dall’avvocato Aricò. Ha voluto farle la confessione.

Turpitudini. Bagnate di certe lagrime, tanto più schifose, quanto più sincere.

E a ognuna, guardandola con occhi atroci, soggiungeva: – Ma questo non lo sai!

E trovava il coraggio di mettergliele davanti, là, con la più brutale impudenza, convinto che lei, quasi riparata dall’orrore che ne provava, non poteva esserne toccata; e perché, nel mettergliele così davanti, godeva, godeva di farsi sempre più basso, per esser calpestato da lei; raggiunto, in quel fango, dal piede di lei:

– Come Maria… tu… il serpe…

È ancora sbalordita la signora Léuca da certe oscene immagini di vizi insospettati. Dalla stessa offesa che ne ricevevano, i suoi occhi sono stati attratti a fissarle, precise, in tutto il loro schifo, quelle immagini. E ne ha ancora sulle guance le vampe della vergogna. E un altro schifo, un altro schifo nelle dita, ora che lo avverte: lo schifo d’un biglietto da cento lire che, come ubriaca di tutta quella vergogna, gli ha dato all’ultimo, e che lui s’è preso, quasi di nascosto da se stesso, strappandoglielo presto presto dalla mano che pur così, quasi di nascosto, glielo porgeva.

Ora si domanda se non era questo il vero scopo della visita di lui.

Forse no.

È stata lei a darglielo, quel danaro, per farlo andar via e levarselo davanti.

Non se ne vorrebbe far coscienza, ma deve pur riconoscere che, almeno esplicitamente, lui non gliel’ha chiesto. Ha detto, sì, per commuoverla, che tutto quel po’ che gli è rimasto del suo patrimonio l’ha vincolato alle tre figliuole e consegnato all’Aricò, che ne rimette gl’interessi a quella donna per i bisogni di casa; e che lui è lasciato senza un soldo in tasca, dall’avarizia di colei, tanto che non ha da pagarsi nemmeno un sigaro, nemmeno una tazza di caffè, quando n’ha voglia, da prendere in piedi in un bar. E le si è intenerito davanti fino alle lagrime, parlando di queste privazioni; ma non le ha chiesto nulla; né avrebbe potuto, dopo quella confessione che voleva parer fatta con l’intento di scusare, se non in tutto, almeno in parte, la sua abiezione, rovesciandola addosso a quella donna e accusando sé soltanto per la debolezza della propria natura così purtroppo inchinevole a cedere a tutte le tentazioni dei sensi; non avrebbe potuto, dopo averla pregata a mani giunte, supplicata di voler sorreggere, anche con la sua vista soltanto, quella sua debolezza.

Ora, avergli dato così, quasi di nascosto, quel danaro, e aver così tentato quella debolezza che aveva chiesto al contrario d’esser sorretta, per levarsene davanti subito lo spettacolo nauseante, è stata veramente una cattiva azione. La signora Léuca lo sente. E l’avvilimento che ne prova diventa più forte, quanto più considera che forse lui non ne ha provato altrettanto nel prendersi quel danaro.

Nel voltarsi verso una delle finestre, vede il sole steso là sul verde vivo di quei vasti terreni da vendere che si scorgono dalla saletta da pranzo, con quella fila di cipressi in mezzo a qualche pino, superstiti di un’antica villa patrizia scomparsa. E quest’azzurro di bella giornata che ride limpido e puro e dà tanta luce a tutta la casa silenziosa.

– Dio mio! Dio mio! – torna a gemere la signora Léuca, coprendosi il volto con le mani. – Il male che si fa… il male che si riceve…

E così con le mani sul volto, rivede a questa considerazione l’immagine d’un vecchio candido pastore inglese incontrato ad Ari, in Abruzzo, quell’estate che vi andò a villeggiare, in quell’antica pensione inglese che pareva un castello in cima al colle. Quanto verde! Quanto sole! E quella frotta di ragazzette che le si faceva attorno, ogni qual volta dal fondo di quella viuzza si fermava ad ammirare le ampie vallate.

– Marzietta di Lama…

Ecco, sì, Marzietta. Si chiamava Marzietta, una di queste ragazze. Che occhi! Foravano. E che risatine sotto il braccio levato per farle vedere quello sgraffietto sul naso.

Ah, potere esser madre! Neanche questo. Neanche? Ma sarebbe stato tutto per lei, se avesse potuto esser madre.

Si guarda le mani; vi scorge l’anello nuziale: ha la tentazione di strapparselo dal dito e buttarlo fuori dalla finestra.

L’ha tenuto lì per segno del suo stato.

Ora vede in esso l’obbrobrio dell’uomo che gliel’ha dato; tutti gli obbrobrii che or ora lui le ha confessati; e si torce in grembo le mani.

Eppure, forse, se la carne anche in lei fosse diventata padrona, attirata, trascinata cecamente da una curiosità perversa e perfidamente istigata verso certi abissi di perdizione ora intravisti, chi sa se non vi sarebbe precipitata anche lei.

La signora Léuca si guarda attorno. I mobili della saletta da pranzo, così tersa, si sono come allontanati nell’attesa che lei risenta in essi la vita monda e schiva di prima; così allontanati in quell’attesa, che lei quasi non li vede più, ora che la sua vita di prima è insidiata, sconvolta, offesa dalla torbida violenza di quel corpo d’uomo entrato lì a cimentar la consistenza di quanto lei finora aveva creduto d’edificare con tanto ordine e tanta lindura in sé e attorno a sé. La sua coscienza, la sua casa.

S’è lasciata mettere a questo cimento. Ma chi l’ha consigliata e indotta, fin dove vuole che arrivi la carità di lei, scendendo a contatto di tanta nascosta vergogna? Vergogna di tutti, e più forse di quanti mostrano d’esserne immuni perché meglio degli altri riescono a tenerla nascosta anche a se stessi, che d’un che se la porti scritta in faccia, come quel povero mostro là.

Dev’essere come un castigo per lei? Ma castigo di che? Credono che se lui s’allontanò da casa, undici anni addietro, fino a cadere in tanta abiezione, sia stato per colpa di lei che non seppe trattenerlo a sé?

Non è vero. Non gli negò mai quanto, come marito, poteva pretendere che non gli mancasse da lei. E questo, non solo per dovere, non solo per non dargli un facile pretesto d’allontanarsi. No. Anche a costo d’una pena che più d’ogni altra ha afflitto l’anima di lei, nell’obbligo crudele che si è sempre fatto della sincerità più difficile: quella che offende e ferisce l’amor proprio; lei oggi ancora si confessa che no, no, il suo corpo non cedeva allora soltanto per quel dovere, ma si concedeva anche per sé, anche sapendo bene che non poteva valer per esso la scusa di quel dovere di fronte alla sua coscienza che, subito dopo, si risvegliava disgustata, perché già da un pezzo, non pur l’amore, ma ogni stima le era caduta per quell’uomo.

Non lo allontanò lei; volle allontanarsi lui, quando ciò che lei poteva concedergli non gli bastò più.

Ora, a chi le ha consigliato quella carità per commiserazione della bestialità sofferente e mortificata, per la bestialità che s’è lasciata trascinare cieca fino alle ultime abiezioni, non ha forse il diritto lei di domandare, indignata, se non sia troppo facile codesta commiserazione che le han presentato come una prova difficile per il suo spirito di carità; e se al contrario un’altra commiserazione non sia assai più difficile: quella per chi riesca a liberarsi da ogni bestialità, nella vita che è pur questa, piena di miserie e brutture che offendono, quando, come si fa, non ci si voglia dar l’aria d’ignorarle, di non averle sperimentate in noi stessi.

La signora Léuca, che ha saputo affermare e sostenere in sé, nel suo corpo, e contro il suo corpo stesso, questa liberazione, vuole allora, in nome della vita e di tutte le miserie ch’essa comporta, aver l’orgoglio d’essere anche lei, ma ben altrimenti, commiserata; sì sì, commiserata, commiserata; non ammirata. Basta, alla fine, con questa insulsa ammirazione! Non è mica di marmo lei, da non esserle costata nulla, la liberazione.

E per la prima volta le danno uggia, vera uggia, tedio, avversione, tutto quell’ordine, tutta quella lindura della sua casa.

Scrolla il capo; balza in piedi:

– Ipocrisie!

VI.

Se n’è uscito stronfiando, ubriaco di soddisfazione, Marco Léuca, da quella visita alla moglie. E ora gli pare che, tra gli alberi e le case, l’aperto del viale se lo faccia lui, se lo allarghi lui, gonfiando il petto per respirare. Ah, vivaddio! S’è liberato. E stringe, come ad averne la prova, tra le dita della mano affondata nella tasca dei calzoni quel logoro biglietto da cento lire ripiegato in quattro. S’è liberato dalle angustie affliggenti in cui l’avevano attuffato il parroco e l’avvocato, spingendolo su per la scala della redenzione in casa della moglie.

Ecco che ora ne discende liberato. La moglie ha come tirato una barra, con quelle cento lire: lei di qua, e lui di là. Restare di là, restare di là. Di qua non si passa; non deve più passare: che seguiti di là a insudiciarsi quanto gli pare. Ah che rifiato! Che allegria! E che non s’arrischi a presumere di non aver più bisogno di carità, nobilitandosi.

Cento lire: va’ a bere! ubriacati!

Guarda attorno con un lustro di pazzia negli occhi e ride impudente.

Com’ha rappresentato bene la sua parte! Cento lire, in compenso. Quasi una lira per lagrima. E che gusto a vederla impallidire a certe descrizioni, con gli occhi intorbidati, poverina, e pur fissi fino allo spasimo, dietro quelle lenti in cima al naso. Eh perché, sì, faranno schifo, ma quando certe cose che nessuno vede, c’è chi trova il modo di farle vedere, è inutile, attirano la curiosità e, anche se non fanno gola, si vogliono sapere, e c’è anche il caso che il ribrezzo stesso, messo lì al cimento, restringendosi, asciugandosi come carne al fuoco, chieda che tu lo lardelli con certi allarmati perché che ti domanda, per sapere più precisamente, ma così, da lontano, senza toccare. Mani caste, poverine, che raggricciamenti! Ma no, via, toccate, toccate, arrischiate una toccatina a sentire che non fa male; e poi ci starete, che vi piacerà.

Sghignazza, e c’è più d’uno che si volta a sbirciarlo. Quelle ragazzotte là, alla fontana di Sant’Agnese. Carine. Fosse lecito tastarle, con la scusa d’un sorso d’acqua. Ma no! Lui vuol bere vino, e come un signore, in una bottiglieria di lusso. E poi con quelle non c’è gusto. Il gusto è con le altre, con quelle dalle groppe da cavalle e certi abissi dove il piacere t’afferra tutto, da non potertene più distaccare.

[…]

Dice che le bambine, piangano o non piangano, bisogna pettinarle così. Se no, con la polvere e la porcheria che s’attacca alla testa…

– Che fanno?

– Che fanno? Li fanno!

E allora sarebbero altri pianti, ogni mattina, per liberarle, a forza di pettine. Se basta! Tante volte bisogna ricorrere al rasojo. E belline, allora, tutt’e tre col testoncino raso.

Là, là. Le trecce.

Ma almeno, santo Dio, non le facesse così fitte, dure, tirate!

Da tanto che son tirate, s’attorcono dietro la nuca alle tre povere piccine come due codini di majale, congiunti per le punte da una cordellina.

Così unti d’olio poi, con quella scriminatura spaccata a filo fin sotto la nuca, i capelli (la grande, Sandrina, n’ha tanti!) – sissignori – pajon pochini pochini. Due codini di majale, addirittura.

Ora egli si volta a guardarglieli dietro le spalle, a Sandrina, quei poveri capellucci così strizzati, mentre se la porta per mano lungo i viali di Villa Borghese, e ha la tentazione di fermarsi a disfarglieli.

Attraversa la villa per far più presto. Non ha voluto prendere il tram per aver tempo di prevenire la figliuola e di farle le raccomandazioni opportune sulla visita che ora farà. Il cammino però è lungo: da via Flaminia, dove egli abita, fin presso a Sant’Agnese; e teme che, a farlo tutto a piedi, la piccina non abbia a stancarsi troppo.

Ma non sono soltanto i capellucci, povera Sandrina! Quel vestitino, quel cappello, le mutandine che le si scoprono dalla sottanella… E come se sapesse di non aver nessuna grazia, conciata a quel modo, va come una vecchina.

Ma da qualche tempo, se egli si ribella, perché vorrebbe veder messe con un po’ di garbo le figliuole, e per esempio accenna di voler disfare quelle treccioline, la minaccia è:

– Bada che te le bacio!

Perché è venuto fuori a colei, da alcuni mesi, qua al labbro di sotto, come un ovolino duro duro, un nodo che s’è a poco a poco ingrossato e fatto livido, quasi nero.

Non sarà niente. Non può essere niente, perché, a premerlo, neanche le fa male. Le hanno consigliato di farselo vedere da un medico; ma lei dice che non se ne vuol curare. Di ben altro, purtroppo, avrebbe da curarsi: d’una certa stanchezza per tutta la persona, e di quel mal di capo che non la lascia mai, e anche d’una febbretta che le viene la sera. Ma lo sa bene da che provengono tutti questi malanni. È la vitaccia che è costretta a fare.

A ogni modo, per scrupolo, non bacia più le bambine. Bacia lui, la notte, apposta, ridendo di rabbia e tenendogli acciuffata la testa con tutt’e due le mani perché non si muova e lei glieli possa mettere lì su la bocca, quei baci, tutti quelli che vuole, lì, lì; ché se è vero che il male è quello che le vicine di casa le han lasciato intravedere, glielo vuole attaccare: lì, allo stesso posto. (Scherza. Da malvagia, sì; ma scherza. Perché poi non ci crede.)

Non ci crede neanche lui, o, piuttosto, non vorrebbe crederci, perché non gli pare possibile che la morte si presenti così, in forma di quell’ovolino sui labbro, che non prude né fa male, come se non ci fosse. Non ci vuol credere anche, perché sarebbe una fortuna troppo grande. Ride anche lui perciò, di rabbia fredda, nel prendersi quei baci, che vorrebbero esser morsi velenosi. Ma l’altro giorno s’è fermato allo specchio d’uno sporto di bottega per guardarsi a lungo le labbra, passandovi sopra un dito, lentamente, stirando, per accertarsi che non vi avvertiva nessuna screpolatura. E non le bacia più da alcuni giorni neanche lui, le bambine. Al più, sui capelli, qualche volta, la più piccola, che non si può fare proprio a meno di baciarla, per certe cosette carine che fa o che dice.

Le altre due, Sandrina qua, e la mezzana, Lauretta, sono sempre un po’ come intontite; come in attesa sempre d’un nuovo spavento. Se ne son presi tanti, di spaventi, assistendo alle liti furibonde che avvengono in casa quasi ogni giorno, sotto i loro occhi; e peggio anche, quando il padre e la madre si chiudono in camera, e di là vengono urti, pianti, rumori di schiaffi, di busse, di calci, d’inseguimenti, tonfi, fracasso d’oggetti lanciati e andati in frantumi. Anche jeri sera, una lite.

E difatti egli tiene un fazzoletto avvolto attorno alla mano destra per nascondere un lungo sgraffio; se pure non è stato un morso. E un altro sgraffio più lungo ha sul collo.

– Sei stanca, Sandrina?

– No, papà.

– Non vorresti sedere là su quel sedile? Un tantino, per riposarti.

– No, papà.

– E allora, uscendo dalla villa escendendo per via Veneto, prenderemo il tram. Intanto, senti. Ti porto in una bella casa. Vuoi?

Sandrina alza gli occhi a guardarlo di sotto il cappellino, con un sorriso incerto. Ha già notato che il padre le parla con una voce insolita: ne è contenta, ma non sa che pensarne. Dice più col capo che con la voce:

– Sì.

– Da una signora che… che io conosco, – riprende lui. – Ma tu…

E si ferma; non sa come proseguire. Sandrina, senza darlo a vedere, si fa molto attenta, e aspetta ch’egli seguiti a parlare. Ma poiché egli non dice più nulla, s’arrischia a domandare: – E come si chiama?

– È… è una zia, – le risponde lui. – Ma tu a casa, bada, non devi dirne nulla, non solo alla mamma, ma neanche a Laura, neanche a Rosina; a nessuno, a nessuno. Hai capito?

Si ferma di nuovo a guardarla. Anche Sandrina lo guarda, ma abbassa subito gli occhi.

– Hai capito? – le ripete lui, chino, con voce cattiva, seguitando a guardarla. Sandrina allora s’affretta a dir di sì, più volte, col capo.

– A nessuno.

– A nessuno…

– Sai perché non voglio che tu lo dica? – soggiunge egli, riprendendo a camminare. – Perché la mamma, con questa… con questa zia, è in lite. Guaj se viene a sapere che ti ho condotto da lei. Hai visto jeri? Farebbe peggio!

E dopo un’altra pausa: – Hai capito?

– Sì, papà.

– Non dir niente a nessuno! O guaj!

Sandrina, dopo queste raccomandazioni e queste minacce, sogguardando la faccia scura del padre, non prova più nessun piacere ad andare nella casa bella di quella zia. Comprende che il padre non ci va per fare un piacere a lei, ma perché ci vuole andar lui, a rischio d’una lite con la mamma, se questa verrà a saperlo; non certamente da lei. Ma se la mamma, al ritorno, le domanderà dove è stata?

Appena le sorge questo pensiero, suggerito dalla paura, Sandrina si volta di nuovo verso il padre.

– Papà…

– Che vuoi?

– E come dirò allora alla mamma?

Il padre le scuote violentemente la mano per cui la conduce, e tutto il braccino con essa.

– Ma nulla! ma nulla, t’ho detto! Non devi dirle nulla!

– No; se mi domanda dove sono stata, – gli fa osservare, più che mai sbigottita, Sandrina.

Allora egli si pente della violenza e si china subito a carezzare, commosso, la piccina.

– Bella! bella mia! Non avevo capito… Ma sì, te lo dirò io poi, te lo dirò io come devi risponderle, se ti domanda dove sei stata… Su, su, adesso! Fai vedere a papà il tuo bel sorrisino. Su! Un sorrisino bello, come quello del Teatro dei piccoli quando ti ci portai…

La commozione è più per se stesso, che per la bambina; perché in quel momento si sente buono, lui. E il cuore gli si gonfia d’una tenerissima gioja nel sorprendere un sorriso di compiacimento sulle labbra d’una signora che, trovandosi a passargli accanto, lo vede così curvo e premuroso intorno alla figliuola. Un premio maggiore s’aspetta dalla boccuccia di Sandrina; ma questa, sì, gli sorride, o piuttosto si prova a sorridergli, solo per ubbidire; e tutto il suo visino, freddo e dolente, dice al padre di contentarsi così di questo piccolo, pallido sorrisino che può fargli. Per quel che vuole da lei, non potrebbe di più.

Non ha ancora dieci anni Sandrina; ma già pensa che a difendersi deve provvedere da sé, cominciando dal padre, dalla madre e dalle sorelline.

Nel visino bianco, non bello anche perché patito, gli occhi non sono come forse li vorrebbe il nasetto che si drizza in mezzo a loro un po’ ardito: sono serii e fermi. E non sempre è buono lo sguardo, quand’essi si fissano attenti, o quando si volgono obliqui per un istante, quasi di nascosto.

Egli avverte questa segreta ostilità della figlia, e drizzandosi per riprendere il cammino, è pieno d’astio al pensiero che non può aspettarsi nulla di meglio dalle figliuole d’una madre come quella.

Così quel giorno la signora Léuca si vede arrivare in casa il marito con quella figliuola.

È ancora afflitto per la sua bontà mal rimeritata, stizzito e turbato della scarsa gioja che la figlia gli ha manifestato per quella visita furtiva; ma dentro di sé, tuttavia, non pentito.

Non pentito, perché ha pensato a lungo, lui, che sarebbe un gran bene per quelle sue tre figliuole, se riuscisse a metterle sotto la protezione della moglie. Se la loro mamma morisse (ma non ci crede); se anche, un giorno o l’altro – chi sa! – anche lui dovesse venire a mancare; la moglie, ricca, potrebbe ajutar quelle bambine, lei che ne ajuta tante con la sua beneficenza. Così, se ha fatto male a metterle al mondo e poi a rovinarle, almeno potrà dire d’aver fatto qualche cosa per il loro avvenire.

Teme intanto che questo fine interessato appaia chiaro alla moglie, che già ha dimostrato di sospettare che quelle visite di lui possano avere qualche altro scopo, oltre il bisogno d’un conforto morale. E non è ben sicuro ch’ella non abbia a giudicar soverchio l’ardire di portarle in casa la prova, là, delle sue colpe vergognose di marito.

Si presenta perciò un po’ incerto e come sospeso. Vuol parere un mendico alla porta della pietà di lei, anche per quella sua figliuola, mendica. Si rianima subito, notando negli occhi della moglie il gradimento inatteso, il piacere ch’egli anzi sia venuto così accompagnato; e allora apre le braccia e senza darlo a vedere tira pian piano un gran sospiro con le labbra atteggiate d’un tremulo sorriso.

La signora Léuca, infatti, accoglie con molta tenerezza quella piccina, la quale guarda con tanto d’occhi, smarrita. E quasi non bada a lui.

– Oh, guarda! Vieni, vieni qua… Come ti chiami? Sandrina?… Brava! Sei la maggiore, è vero? La maggiore, brava… E vai a scuola? Oh, già alla quarta!… E allora, quanti anni hai? Già tanti! Nove e mezzo… Vuoi levarti il cappellino? Ecco, posiamolo qua… Siedi, siedi qua, vicino a me…

Si volge a lui che, rimasto in piedi, guarda ancora in quell’atteggiamento, ma già di nuovo con le lacrime agli occhi, e gli dice:

– Forse non sa chi sono…

Ma Sandrina, con gli occhi bassi, risponde:

– La zia.

– Ah cara, sì, la zia, – conferma subito la signora Léuca, che non s’aspetta la risposta da parte di lei, e si china a baciarle una manina.

Perché sa che è segno di simpatia, se i bambini parlano prima che abbiano preso confidenza con qualcuno.

– La zia! la zia!

È abituata a sentirsi chiamar così, «la zia», da parecchie bambine, per suggerimento affettuoso delle mamme, che intendono dimostrarle in tal modo la loro gratitudine. E prova un certo piacere, che egli abbia pensato di suggerir per lei lo stesso appellativo alla figliuola, benché certo per un’altra ragione.

E allora, poiché è la zia, bisogna che la nipotina abbia subito subito la sua merenduccia di cioccolatte e biscottini, e fettine di pane imburrato, e spalmato di marmellata. Qua, qua, seduta a tavola, e col cuscino sotto, così, bella alta, come una grande. E ora, questa salviettina al collo qua:

– Va bene così?

E gliele imburra lei, le fettine, gliele spalma lei di marmellata.

– E poi un cucchiaino così, di questa marmellata, da mettere in bocca solo, senza la fettina, non lo vogliamo? Eh, mi pare di sì!

Sandrina la guarda e sorride, beata, ma come se ancora non credesse bene alla realtà di quanto le accade, di quel che si vede attorno, tanto le par bello e nuovo.

Ora che la vede sorridere, però, la signora Léuca soffre di più a guardarle quel vestitino addosso così sgarbato, quei capellucci così tirati… Le debbono anche far male, povera piccina! E come Sandrina finisce di far merenda, se la porta di là, in camera, per scioglierle quelle treccioline e fargliene una sola, grossa e lenta, ma fino a metà, e sfioccato il resto, con un bel nodo di raso dove termina la treccia; e poi le aggiusta i capellucci davanti, facendoglieli scendere un po’ sulla fronte, perché diano più grazia al visino che s’è tutto colorito per la gioia. E che lustro, che lustro le hanno preso gli occhi!

Pare un’altra, ora, Sandrina. Lei stessa, guardandosi allo specchio, in mezzo alle belle cose che la circondano in quella camera da letto, e che si riflettono quiete e luminose nello stesso specchio, quasi non si riconosce più.

Non sa capire in prima la signora Léuca perché il padre, quando ella gliela ripresenta così bene acconciata, ora, e così tutta ravvivata, invece d’ammirarla e di compiacersene, resti quasi dispiaciuto e turbato.

Possibile che nel cuore di lui, alla vista della nuova grazia che la figliuola ha acquistato, si siano destati all’improvviso gli stessi sentimenti che han turbato lei dianzi nell’acconciare amorosamente quella bambina non sua?

Non vorrebbe la signora Léuca ch’egli credesse, che le cure che s’è prese per la piccina siano come un modo di significare a lui il rimpianto che quella figlia non abbia potuto esser sua. Curandola, assaporando la gioia di quelle cure, ella non ha voluto dir nulla a lui, proprio nulla; non ha neppur pensato ch’egli stesse ad aspettare di là.

Ma poco dopo ch’egli se n’è andato, la signora Léuca, che s’è recata alla finestra, non per veder lui sulla strada insieme con la figliuola, ma per veder questa col suo bel fiocco di capelli sulle spallucce; non vedendoli uscire dal portone e, dopo aver aspettato un bel po’, andando per curiosità a spiare pian piano dalla porta che cosa sian rimasti a fare tutti e due per le scale, si spiega il perché di quel turbamento di lui e, rinfrancandosi, non può fare a meno di sorridere.

Lo scorge, seduto a metà della terza rampa, su uno scalino, intento a rintrecciare fitti fitti sulla nuca della figliuola quei due codini di prima. S’è levato dalla mano il fazzoletto che vi teneva avvolto; e la signora Léuca dall’alto scorge allora su quella mano il rosso dello sgraffio; e l’altro più tremendo sgraffio gli scorge sulla nuca.

Capisce tutto. Si pente di quel che ha fatto senza pensare che avrebbe cagionato a lui un così grave impiccio. Si rammenta all’improvviso delle due cordelline bisunte che tenevan legate le treccine della figliuola e che son rimaste sulla specchiera. Come farà egli adesso a legar quelle treccine, se pure riuscirà a portarle a fine con quelle grosse manone disadatte? E le due cordelline dovranno pure esser quelle, se egli vuol riportare a casa la figliuola tal quale ne è uscita, per non far sapere nulla della visita a lei, a quella donnaccia che lo sgraffia così.

La signora Léuca vede necessario il suo intervento per rimediare al mal fatto. Corre a prendere in camera le due cordelline, e scende in fretta, risolutamente, le due rampe di scala, dicendo a lui dall’alto mentre scende:

– Aspetta, aspetta… Lascia fare a me! Scusami, se non ho pensato… Hai ragione… hai ragione…

E, com’egli si alza per cederle il posto, vergognoso d’essere stato sorpreso da lei nella miseria di quell’imbarazzo, siede sullo scalino e, presto presto, rifà le treccine alla ragazza. Nel chinarsi a baciarla, si sente prendere furtivamente una mano, e prima che abbia il tempo di ritirarla, avverte con ribrezzo il contatto dei baffi e delle labbra di lui.

Per un lungo pezzo la signora Léuca, risalita nella saletta da pranzo, si stropiccia quella mano.

Passano venti giorni, passa un mese, la signora Léuca non vede più ritornare il marito.

Ha aspettato ch’egli le portasse in casa, come aveva promesso, le altre due figliuole più piccole, per fargliele conoscere. Ma forse la madre avrà saputo di quelle visite a lei; gli avrà fatto qualche scenata, e impedito di condurre le altre due.

Suppone ch’egli si vergogni, forse, di venir solo, dopo quella promessa; suppone che possa essersi ammalato, o che possa essersi ammalata qualcuna delle figliuole, o anche quella donna; suppone che egli sia rimasto troppo avvilito l’ultima volta, sorpreso lì a sedere in mezzo alla scala con le treccioline di quella povera piccina in mano. (Ne sorride ancora pietosamente, la signora Léuca.) 0 forse si sarà accorto del ribrezzo, con cui ella ritirò violentemente la mano…

Tante supposizioni fa la signora Léuca. Le amiche del patronato di beneficenza, che vengono a trovarla in quei giorni, osservano, così senza parere, che forse ne fa troppe. Ma se, come ritengono, è una pena per lei ricevere in casa il marito, anche così per una breve visita di tanto in tanto, dovrebbe esser contenta ch’egli da sé abbia diradato queste visite, che per dir la verità s’eran fatte un po’ frequenti e, a quanto pare, non tanto brevi, anche.

Alla fine se ne accorge anche lei, la signora Léuca, che fa troppe supposizioni; e deve riconoscere che ha una viva curiosità di sapere perché egli non sia più venuto; ma senza il minimo dubbio tuttavia sulla natura di quel suo interessamento. Vorrebbe saperlo per lui, non per sé; se cioè qualche cosa di male fosse accaduta a lui; non perché possa esser male per lei ch’egli non venga più.

Né un male, né un bene. Tutto è per lei ormai come lontano. Anche le cose più vicine. Basta che per un istante le senta vive in sé, e subito le diventano come lontane. Questa curiosità d’ora… Come se un giorno, tanti anni fa, la avesse provata… Può accettare, accogliere qualunque sofferenza, torcersi anche in uno spasimo, e non perdere mai questa facoltà di non sentirsene veramente toccare là dove il suo spirito è come immune di quanto può dare la vita di sofferenze e di spasimi.

Ed ecco che, invece del marito, uno di quei giorni, viene l’avvocatino Aricò insieme col vecchio parroco di Sant’Agnese.

Non c’è più dubbio che qualche cosa dev’essere accaduta.

Che cosa?

Mah! Non sanno dire, se una fortuna o una disgrazia. È morta la donna. Quella donna.

– Morta?

Sì. Improvvisamente, in tre giorni, d’una polmonite. Ma anche se questo male non l’avesse colta all’improvviso, sarebbe morta lo stesso tra poco, perché il medico accorso a curarla l’aveva trovata affetta da parecchi mesi d’un cancro alla bocca.

La signora Léuca, a questa notizia, s’aombra. Domanda al parroco e all’avvocato, se quando le proposero d’accordare al marito il conforto di quelle visite, erano a conoscenza di questo male che minacciava la donna.

I due protestano subito di no; il parroco, davanti a Dio; l’avvocatino Aricò, come se non bastasse, anche sulla sua parola d’onore.

– E lui? – domandò allora la signora Léuca.