Kitabı oku: «La giara»
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La giara
Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: – Sellate la mula! – Ora, invece: – Consultate il calepino! -
E Don Lollò rispondeva:
– Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!
Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
– Guardate! guardate!
– Chi sarà stato?
– Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo:
– Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:
– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.
– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:
– Sangue della Madonna, me la pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
– La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
– Fatemi vedere codesto mastice – gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.
– All'opera si vede.
– Ma verrà bene?
Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:
– Verrà bene.
– Col mastice solo però – mise per patto lo Zirafa – non mi fido. Ci voglio anche i punti.
– Me ne vado – rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
– Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
– Se la giara – disse – non suona di nuovo come una campana…
– Non sento niente, – lo interruppe Don Lollò. – I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
– Se col mastice solo…
– Càzzica che testa! – esclamò lo Zirafa. – Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
– Coraggio, Zi' Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:
– Tira! – disse dall'interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
– Chi è sopra comanda, Zi' Dima, – sospirò il contadino – e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.
– Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi' Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora – non c'era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! – urlava – . Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
– Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?
S'accostò alla giara e gridò al vecchio:
– Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano! Che! giù… aspettate! così no! giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. – Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula!
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
– Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate! – disse al prigioniero. – Va' a sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
– Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro… Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
– Non voglio nulla! – gridò Zi' Dima. – Voglio uscire.
– Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
– Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
– Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara?"
– Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Il danno e lo scorno?
– Ma sapete come si chiama questo? – gli disse infine l'avvocato. – Si chiama sequestro di persona!
– Sequestro? E chi l'ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?
L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
– Ah! – rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!
– Piano! – osservò l'avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo!
– E perché?
– Ma perché era rotta, oh bella!
– Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
– Anzi – gli consigliò – fatela stimare avanti da lui stesso.
– Bacio le mani – disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
– Ah! Ci stai bene?
– Benone. Al fresco – rispose quello. – Meglio che a casa mia.
– Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
– Come me qua dentro? – domandò Zi' Dima.
I villani risero.
– Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:
– Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
– Un terzo? – domandò lo Zirafa. – Un'onza e trentatré?
– Meno sì, più no.
– Ebbene, – disse Don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.
– Che? – fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.
– Rompo la giara per farti uscire, – rispose Don Lollò – e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.
– Io pagare? – sghignazzò Zi' Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
– Ah, sì – disse. – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.
Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:
– Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
– Vede che mastice? – gli disse Zi' Dima.
– Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi' Dima.
La cattura
Il Guarnotta seguiva col corpo ciondolante l'andatura dell'asinello, come se camminasse anche lui; e per poco veramente le gambe, coi piedi fuori delle staffe, non gli strisciavano sulla polvere dello stradone.
Ritornava, come tutti i giorni a quell'ora, dal suo podere quasi affacciato sul mare, all'orlo dell'altipiano. Più stanca e più triste di lui, la vecchia asinella s'affannava da un pezzo a superare le ultime pettate di quello stradone interminabile, tutto a volte e risvolte, attorno al colle, in cima al quale pareva s'addossassero fitte, una sull'altra, le decrepite case della cittaduzza.
A quell'ora i contadini erano ritornati tutti dalla campagna; lo stradone era deserto. Se qualcuno ancora se ne incontrava, il Guarnotta era sicuro di riceverne il saluto. Perché tutti, grazie a Dio, lo rispettavano.
Deserto ormai come quello stradone era ai suoi occhi tutto il mondo; e di cenere come quell'aria della prima sera, la sua vita. I rami degli alberi sporgenti senza foglie dai muretti di cinta screpolati, le alte siepi di fichi d'India polverose e, qua e là, i mucchi di brecciale che nessuno pensava di stendere su quello stradone tutto solchi e fosse, se il Guarnotta li guardava, in quella loro immobilità e in quel silenzio e in quell'abbandono, gli parevano oppressi come lui da una vana pena infinita. E a crescere questo senso di vanità, come se il silenzio si fosse fatto polvere, non si sentiva neanche il rumore dei quattro zoccoli dell'asinella.
Quanta di quella polvere dello stradone non si portava a casa ogni sera il Guarnotta! La moglie, tenendo la giacca sospesa e discosta, appena egli se la levava, la mostrava in giro alle seggiole, all'armadio, al letto, al cassettone, come per darsi uno sfogo:
– Guardate, guardate qua! Ci si può scrivere sopra, col dito.
Si fosse lasciato persuadere almeno a non portare l'abito nero, di panno, per la campagna! Gliene aveva ordinati tre – apposta, – tre – di fustagno.
In maniche di camicia, il Guarnotta, quelle tre dita tozze che la moglie veniva a cacciargli, nel gesto rabbioso, quasi negli occhi, gliele avrebbe volentieri addentate. Cane pacifico, si contentava di lanciarle di traverso un'occhiataccia e la lasciava cantare. Quindici anni addietro, alla morte dell'unico figlio, aveva giurato d'andar vestito sempre di nero. Dunque…
– Ma anche per la campagna? Ti faccio mettere il lutto al braccio negli abiti di fustagno. E basterebbe la cravatta nera, ormai, dopo quindici anni!
La lasciava cantare. Non se ne stava forse tutto il santo giorno in quel suo podere al mare? In paese, non si faceva più vedere da nessuno, da anni. – Dunque…
– Che dunque?
Ma dunque, se non lo portava in campagna, dove lo avrebbe portato il lutto per il figliuolo? – Corpo di Dio, riflettere un poco almeno, prima d'aprir bocca e lasciare andare. – Nel cuore, sì: grazie tante! E che non lo portava nel cuore? Ma voleva si vedesse anche fuori… – Che lo vedessero gli alberi, già! o gli uccellini dell'aria; perché, infatti, occhi per vederselo addosso, lui, non ne aveva. E perché poi brontolava tanto la moglie? Doveva forse batterlo e spazzolarlo lei, quell'abito, ogni sera? C'erano le serve. Tre, per due persone sole. Economia? Un abito nero all'anno: ottanta, novanta lire. Eh via! Avrebbe dovuto capire, che non le conveniva far tanti discorsi. Seconda moglie! E il figlio morto era del primo letto! Senz'altri parenti, neppur lontani, alla sua morte, tutto il suo (che non era poco) sarebbe andato a lei e ai suoi nipoti. Zitta, dunque: almeno per prudenza… Ma già, sì! se avesse capito questo, non sarebbe stata quella buona donna che era…
Ed ecco perché lui se ne stava tutto il giorno in campagna. Solo, tra gli alberi e con la distesa sterminata del mare sotto gli occhi, come da un'infinita lontananza, nel fruscio lungo e lieve di quegli alberi, nel borboglio cupo e lento di quel mare s'era abituato a sentire la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.
Era giunto ormai a meno d'un chilometro dal paese. Dalla chiesetta dell'Addolorata su in cima gli arrivavano lenti e blandi i rintocchi dell'Avemaria, allorché, d'improvviso, a una brusca svoltata dello stradone:
– Faccia a terra!
E dall'ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile. Uno abbrancò l'asina per la cavezza; gli altri due, in un batter d'occhio, lo strapparono di sella, giù a terra; e mentre uno con un ginocchio su le gambe gli legava i polsi, l'altro gli annodava dietro la nuca un fazzoletto ripiegato a fascia, passato sopra gli occhi.
Ebbe appena il tempo di dire:
– Figliuoli, a me?
Fu tirato su, spinto, strappato, trascinato di furia per le braccia, fuori dello stradone, giù per la costa petrosa, verso la vallata.
– Figliuoli…
– Zitto, o sei morto!
Più delle spinte e degli strappi, l'ansito, l'ansito di quei tre per la violenza che commettevano, gl'incuteva terrore. Per avere quell'ansito di belve, doveva esser tremendo ciò che s'erano proposto di fare sopra di lui.
Ma ucciderlo, almeno subito, forse non volevano. Se per mandato o per vendetta, lo avrebbero ucciso là, su lo stradone, dall'ombra dove si tenevano appostati. Dunque, lo catturavano, per ricatto.
– Figliuoli…
Stringendogli più forte le braccia e scrollandolo, gl'intimarono di nuovo di tacere.
– Ma almeno allentatemi un po' la benda! Mi serra troppo gli occhi… non posso…
– Cammina!
Prima giù, poi su, e avanti, e indietro; poi giù di nuovo, e poi di nuovo su e su e su. Dove lo trascinavano?
Nel subbuglio di pensieri e di sentimenti, tra il guizzare d'immagini sinistre e l'affanno di quella corsa cieca, a sbalzi, a spintoni, tra sassi, sterpi (che stranezza!) i lumi, i primi lumi accesi nella cittaduzza ancora illuminata a petrolio, su in cima al colle – lumi delle case, lumi delle strade – come li aveva intraveduti prima che lo assaltassero e come tante volte, ritornando dal podere sempre a quell'ora li aveva intraveduti, ecco, nella strettura di quella benda che gli schiacciava gli occhi, gli apparivano (che stranezza!) precisi, proprio come se li avesse davanti e avesse gli occhi liberi. Andava, così trascinato, strappato, incespicando, con tanto terrore dentro, e se li portava, quei lumetti placidi e tristi, davanti, con sé, con tutto il colle, con tutta la cittaduzza situata lassù, dove nessuno sapeva la violenza che in quel momento si faceva a lui, e tutti attendevano quieti e sicuri ai loro casi consueti.
A un certo punto avvertì anche l'affrettato zoccolare della sua asinella.
– Ah!
Trascinavano via anche la sua vecchia asinella stanca. Ma che ne capiva, povera bestiola? Avvertiva forse una furia insolita, un'insolita violenza, ma andava dove la portavano, senza capir nulla. Se si fossero fermati un momento, se l'avessero lasciato parlare, avrebbe detto loro con calma, ch'era pronto a dare tutto quello che volevano. Poco più gli restava da vivere, e non valeva proprio la pena per un po' di danaro – di quel danaro che non gli dava più nessuna gioja – passare un momento come quello.
– Figliuoli…
– Zitto, cammina!
– Ma non ne posso più! Perché mi fate questo'? Sono pronto…
– Zitto! Parleremo poi… Cammina!
Lo fecero camminare, così, un'eternità. A un certo punto, fu tanta la stanchezza, tanto lo stordimento di quel fazzoletto che gli serrava la testa, che si sentì mancare e non comprese più nulla.
Si ritrovò, la mattina appresso, in una grotta bassa, come disfatto in un tanfo di mucido che pareva spirasse dallo stesso squallore della prima luce del giorno.
S'insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l'incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell'uno ora dell'altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.
Dov'era adesso'?
Tese l'orecchio. Gli parve che fosse fuori un silenzio d'altura. E per un momento vi si sentì come sospeso. Ma non poteva muoversi. Giaceva per terra come una bestia morta, mani e piedi legati. E le membra gli pesavano quasi gli fossero diventate di piombo; e anche la testa. Era ferito? Lo avevano lasciato lì per morto?
No: ecco, confabulavano fuori della grotta. La sua sorte non era dunque decisa. Ma il ricordo di ciò che gli era accaduto gli si rappresentava ora, non già come d'una sciagura che gl'incombesse tuttavia e che gli suscitasse dentro qualche moto per tentare di liberarsene. No. Sapeva di non potere e quasi non voleva. La sciagura era compiuta, come avvenuta da gran tempo, quasi in un'altra vita, in una vita che forse gli sarebbe premuto di salvare, quando ancora le membra non gli pesavano così e non gli doleva tanto la testa. Ora non gl'importava più di nulla. Quella vita – pur essa miserabile – l'aveva lasciata laggiù, lontano lontano, dove lo avevano catturato: e qua ora c'era questo silenzio, così alto e vano, così smemorato.
Quand'anche lo avessero lasciato andare, non avrebbe avuto più la forza, fors'anche neppure il desiderio di tornare laggiù a riprendersela, quella sua vita.
Ma no, ecco: una gran tenerezza, di pietà per sé, gli risorse a un tratto e gli s'arruffò tutta dentro come in un brivido d'orrore, appena vide entrare uno di quei tre, carponi nella grotta, col viso nascosto da un fazzoletto rosso, forato all'altezza degli occhi. Gli guardò subito le mani. No, nessun'arma. Una matita nuova, di quelle da un soldo, non ancora temperata. E nell'altra mano, per terra, un rozzo foglietto di carta da lettere tutto brancicato, con la busta in mezzo. Alleggerito, senza volerlo, sorrise; mentre nella grotta entravano gli altri due, anch'essi carponi e bendati. Uno gli s'appressò e gli sciolse le mani soltanto. Il primo disse:
– Giudizio! Scrivete!
Gli parve di riconoscerlo alla voce. Ma sì, Manuzza; detto così perché aveva un braccio più corto dell'altro. Oh, e allora… Ma era proprio lui? Gli guardò il braccio manco. Lui, sì. E certo anche gli altri due avrebbe riconosciuti subito, se si fossero tolta la benda. Conosceva tutta la cittadinanza. Disse allora:
– Io, giudizio? Giudizio voi, figliuoli! A chi volete che scriva? Con che debbo scrivere? con questa?
E mostrò la matita.
– Perché? Non è matita?
– Matita, sì. Ma voi non sapete neppure come s'adopera.
– Perché?
– Ma bisognerà prima temperarla.
– Temperarla?
– Con un temperino, già, qua in punta…
– Temperino, niente!
E Manuzza ripeté:
– Giudizio! giudizio, sacramento!
– Giudizio, sì, Manuzza mio…
– Ah, – gridò questi. – M'avete riconosciuto?
– Abbi pazienza, ti nascondi la faccia e lasci scoperto il braccio? Levati codesto fazzoletto e guardami negli occhi. Fai questo, a me?
– Senza tante chiacchiere, – gridò Manuzza, strappandosi con ira il fazzoletto dalla faccia. – V'ho detto giudizio! Scrivete, o v'ammazzo!
– Ma sì, sono pronto, – si rimise il Guarnotta. – Quand'avrete temperato la matita. Però, se mi lasciate dire… Volete danari, è vero, figliuoli? Quanto?
– Tre mila onze!
– Tre mila? Non volete poco.
– Voi ce l'avete! Non facciamo storie!
– Tre mila onze?
– Più! più!
– Anche più, sì. Ma non a casa, in contanti. Dovrei vendere case, terre. E vi pare che si possa, così, da un giorno all'altro, e senza me?
– Vuol dire che se le faranno prestare!
– Chi?
– Vostra moglie e i vostri nipoti!
Il Guarnotta sorrise amaramente e provò a rizzarsi su un gomito.
– Volevo dirvi questo, appunto, – rispose. – Figliuoli miei, avete sbagliato. Contate su mia moglie e sui suoi nipoti? Se volete ammazzarmi, è un conto: sono qua: ammazzatemi, e non se ne parli più. Ma se volete danari, non potete averli che da me, e a patto di lasciarmi andare a casa.
– Che dite? a casa? Voi? Fossimo matti! Scherzate!
– E allora… – sospirò il Guarnotta.
Manuzza strappò di mano rabbiosamente il foglietto da lettere al compagno e ripeté:
– Senza tante chiacchiere, v'ho detto, scrivete! La matita… Ah già, bisogna temperarla… Come si tempera?
Il Guarnotta spiegò come; e i tre allora, dopo essersi guardati negli occhi, uscirono dalla grotta. Nel vederli uscire, così carponi, come tre bestie, non poté fare a meno di sorridere ancora una volta, il Guarnotta. Pensò che ora di là si sarebbero messi in tre a temperare quella matita, e che forse, a furia di potarla come un ramo d'albero, non ne sarebbero venuti a capo. Già, ma lui ne sorrideva, e forse la sua vita in quel punto dipendeva dalla ridicola difficoltà che quei tre incontravano in quell'operazione per loro nuova: forse, stizziti di vedersi mancare in mano la matita a pezzo a pezzo, sarebbero rientrati a fargli la prova che se i loro coltelli non erano buoni da temperare una matita, erano però buoni da scannarlo. E aveva fatto male, un errore imperdonabile aveva commesso a dichiarare a quel Manuzza d'averlo riconosciuto. – Ecco: si bisticciavano di là, sbuffavano, bestemmiavano… Certo, si passavano dall'uno all'altro quella povera matita da un soldo sempre più corta. Chi sa che coltelli avevano in mano, in quelle loro manacce scabre e cretose.