Kitabı oku: «La giara», sayfa 2

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Eccoli che rientravano a uno a uno, sconfitti.

– Legno lasco, – disse Manuzza. – Una schifezza! Voi che sapete scrivere non ce n'avreste in tasca un'altra bell'e temperata, per combinazione?

– Non ce l'ho, figliuoli, – rispose il Guarnotta. – Ma è inutile, v'assicuro. Avrei scritto, se mi davate da scrivere; ma a chi? A mia moglie e a quei nipoti? Quei nipoti sono suoi e non miei, capite? E nessuno avrebbe risposto, siatene pur certi; avrebbero finto di non aver ricevuto la lettera minatoria, e addio. Se volete danari da loro, non dovevate buttarvi in prima su me: dovevate invece andare da loro e accordarvi: tanto – poniamo mille onze – per ammazzarmi. Non ve l'avrebbero date nemmeno; perché la mia morte, la desiderano sì, ma sono vecchio; se la aspettano dunque da Dio gratis e senza rimorsi, tra quattro giorni. Pretendete sul serio che vi diano un centesimo, un solo centesimo, per la mia vita? Avete sbagliato. La mia vita a me soltanto può premere. Non mi preme, ve lo giuro; ma certo, morire così, di mala morte, non mi piacerebbe; e solo per non morire così, vi prometto e giuro su la sant'anima di mio figlio che appena posso, fra due, tre giorni, verrò io stesso a portarvi il danaro al posto che m'indicherete.

– Dopo averci denunziato?

– Vi giuro di no! Vi giuro che non fiaterò con nessuno! Si tratta della vita!

– Ora. Ma quando sarete libero? Prima di andare a casa, andrete a fare la denunzia.

– Vi giuro di no! Certo, dovete aver fiducia. Pensate ch'io vado ogni giorno in campagna. La mia vita è là, tra voi; e io sono stato sempre come un padre per voi. Mi avete sempre rispettato, santo Dio, e ora… Pensate che vorrei espormi al rischio d'una vendetta? Abbiate fiducia, lasciatemi ritornare a casa e state sicuri che avrete il danaro…

Non risposero più. Tornarono a guardarsi negli occhi, e uscirono di nuovo dalla grotta, carponi.

Per tutta la giornata non li rivide più. Li udì un pezzo, dapprima, discutere fuori della grotta; poi non udì più nulla.

Aspettò, rivolgendo in mente tutte le supposizioni intorno a ciò che avessero potuto decidere. Gli parve certo questo: ch'era caduto in mano di tre stupidi, novizii, forse, anzi senza dubbio al loro primo delitto.

Ci s'erano buttati come ciechi, senza considerare prima le sue condizioni di famiglia; solo pensando ai suoi danari. Ora, convinti dello sbaglio commesso, non sapevano più, o non vedevano ancora, come cavarsene. Del giuramento che non sarebbero stati denunziati, nessuno dei tre si sarebbe fidato; meno di tutti Manuzza ch'era stato riconosciuto. E allora?

Allora, non gli restava da augurarsi altro, che a nessuno dei tre sorgesse il pentimento dello stupido atto compiuto invano, e insieme il desiderio di cancellarlo per rimettersi sulla buona via; che tutti e tre, invece, risoluti a vivere fuori d'ogni legge, a commettere altri delitti, non dovessero intanto curarsi di cancellare ogni traccia di questo primo e di gravarsene inutilmente la coscienza. Perché, riconosciuto lo sbaglio e risoluti a restare tre birbaccioni al bando, potevano fargli salva la vita e lasciarlo andare senza curarsi della denunzia; ma, se volevano ritornare sulla buona via, pentiti, allora per forza, a impedire la denunzia di cui si tenevano certi, dovevano assassinarlo.

Ne seguiva, che Dio doveva dunque ajutarlo ad aprir loro la mente; perché riconoscessero che nessun profitto si ricava a voler restare galantuomini. Cosa non difficile con loro, visto che la buona intenzione di gettarsi alla perdizione l'avevano dimostrata, catturandolo. Ma c'era da temere pur troppo del disinganno che avevano dovuto provare così a prima giunta, toccando con mano il grosso sbaglio commesso appena incamminati sulla nuova via. E fa presto un disinganno a cangiarsi in pentimento e in voglia di ritrarsi da un cammino che cominci male. Per tirarsene indietro, cancellandovi ogni orma dei primi passi, la logica, sì, portava a commettere un delitto; ma, a volerlo scansare, la stessa logica non li avrebbe portati ad avventurarsi per quel cammino in cerca d'altri delitti? E allora, meglio quest'uno qua a principio, che poteva restar nascosto e senza traccia, che tanti là allo scoperto e allo sbaraglio. A costo di quest'uno, potevano avere ancora speranza di salvarsi, se non di fronte alla loro coscienza, di fronte agli uomini; a volerlo scansare, si sarebbero certo perduti.

Conclusione di queste tormentose riflessioni: la certezza che oggi o domani, forse quella notte stessa, nel sonno, lo avrebbero assassinato.

Attese, fino a tanto che nella grotta non si fece bujo.

Allora, al pensiero che quel silenzio, e la stanchezza potessero su lui più della paura di cedere al sonno, sentì dalla testa ai piedi un fremito di tutto il suo istinto bestiale che lo spingeva, pur così con le mani e i piedi ancora legati, a uscir fuori della grotta a forza di gomiti, strisciando come un verme per terra; e dovette penar tanto a persuadere a quel suo istinto atterrito di fare quanto meno rumore fosse possibile; perché poi, tanto, che sperava sporgendo il capo come una lucertola fuori della tana? Niente! vedere il cielo almeno, e vederla lì fuori, all'aperto, con gli occhi, la morte, senza che gli fosse inflitta a tradimento nel sonno. Questo, almeno.

Ah, ecco… Zitto! Era lume di luna? Luna nuova, sì, e tante stelle… Che serata! Dov'era? Su una montagna… Che aria e che altro silenzio! Forse era il monte Caltafaraci, quello, o il San Benedetto… E allora, quello là? Il piano di Consòlida, o il piano di Clerici? Sì, e quella là verso ponente doveva essere la montagna di Carapezza. Ma allora quei lumetti là, esitanti, come sprazzi di lucciole nella chiaria opalina della luna? Quelli di Girgenti? Ma dunque… oh Dio, dunque era proprio vicino? E gli pareva che lo avessero fatto camminare tanto… tanto…

Allungò lo sguardo intorno, quasi gl'incutesse paura la speranza che quelli lo avessero lasciato lì e se ne fossero andati.

Nero, immobile, accoccolato come un grosso gufo su un greppo cretoso della montagna, uno dei tre, rimasto a guardia, si stagliava preciso nella chiara soffusione dell'albor lunare. Dormiva?

Fece per sporgersi un po', ma subito lo sforzo gli s'allentò nelle braccia alla voce di colui, che, senza scomporsi, gli diceva:

– Vi sto guardando, don Vicè! Rientrate, o vi sparo.

Non fiatò, come se volesse far nascere in colui il dubbio d'essersi ingannato, rimase lì quatto a spiare. Ma colui ripeté:

– Vi sto guardando.

– Lasciami prendere una boccata d'aria, – gli disse allora. – Qua si soffoca. Mi volete lasciare così? Ho sete.

Colui si scrollò minacciosamente:

– Oh! se volete restare costì, dev'essere a patto di non fiatare. Ho sete anch'io e sono digiuno come voi. Silenzio, o vi faccio rientrare.

Silenzio. E quella luna che rivelava tanta vista di tranquilli piani e di monti… e il sollievo di tutta quell'aria, almeno… e il sospiro lontano di quei lumetti là del suo paese…

Ma dov'erano andati gli altri due? Avevano lasciato a questo terzo l'incarico d'ucciderlo durante la notte? E perché non subito? Che aspettava colui? Aspettava forse nella notte il ritorno degli altri due?

Fu di nuovo tentato di parlare, ma si trattenne. Tanto, se avevano deciso così…

Volse gli occhi al greppo dove colui stava seduto: lo vide ricomposto nel primo atteggiamento. Chi era? Alla voce, poc'anzi, gli era parso uno di Grotte, grosso borgo tra le zolfare. Che fosse Fillicò? Possibile? Buon uomo, tutto d'un pezzo, bestia da lavoro, di poche parole… Se era lui veramente, guaj! Così taciturno e duro, se era riuscito a smuoversi dalla bontà, guaj.

Non poté più reggere; e, con una voce quasi involontaria, vuota d'ogni intenzione, quasi dovesse arrivare a colui come non proferita dalla sua bocca, disse senza domandare:

– Fillicò…

Colui non si mosse.

Il Guarnotta attese un pezzo e ripeté con la stessa voce, come se non fosse lui, con gli occhi intenti a un dito che faceva segni sulla rena:

– Fillicò…

E un brivido, questa volta, gli corse la schiena perché s'immaginò che questa sua ostinazione, di proferire il nome quasi senza volerlo, dovesse costargli, di rimando, una schioppettata.

Ma neanche questa volta colui si mosse; e allora egli esalò in un sospiro d'estrema stanchezza tutto l'orgasmo della disperazione e abbandonò per terra il peso morto della testa come se veramente non avesse più forza né voglia di sorreggerlo. Lì, con la faccia nella rena, con la rena che gli entrava nella bocca come a una bestia morta, senza più curarsi del divieto che colui gli aveva fatto di parlare, né della minaccia d'una schioppettata, si mise allora a parlare, a farneticare senza fine. Parlò della bella luna che ora, addio, sarebbe tramontata; parlò delle stelle che Dio aveva fatto e messo così lontane perché le bestie non sapessero ch'erano tanti mondi più grandi assai della terra; e parlò della terra che soltanto le bestie non sanno che gira come una trottola e disse, come per uno sfogo personale, che in questo momento ci sono uomini che stanno a testa all'ingiù e pure non precipitano nel cielo per ragioni che ogni cristiano che non sia più creta della creta, cretaccia ma proprio di quella vile su cui Dio santo ancora non ha soffiato, dovrebbe almeno curarsi di sapere.

E in mezzo a questo farnetichio si ritrovò d'improvviso che parlava davvero d'astronomia come un professore a colui che, a poco a poco, gli s'era accostato, ch'era anzi venuto a sederglisi accanto, lì presso l'entrata della grotta, e ch'era proprio lui, sì, Fillicò di Grotte, che le voleva sapere da tanto tempo quelle cose, benché non se ne persuadesse bene e non gli paressero vere: lo zodiaco… la via lattea… le nebulose…

Già. Così. Ma perché quando uno non ne può più, che le ha proprio esaurite tutte nella disperazione le sue forze, altro che questo gli può avvenire di buffo! si può mettere come niente, anche sotto la mira di un fucile, a nettarsi le unghie attentamente con un fuscellino, badando che non si spezzi e non si pieghi, o a tastarsi in bocca, sissignori, i denti che gli sono rimasti, tre incisivi e un canino solo; e sissignori, a pensare seriamente se sono tre o quattro i figliuoli del bottajo, suo vicino di casa, a cui da quindici giorni è morta la moglie.

– Parliamo sul serio. Ma dimmi un po': che ti pare che sono, per la Madonna, un filo d'erba?… questo filo d'erba qua che si strappa così, come niente? Toccami! Di carne sono, per la Madonna! e un'anima ho, che me l'ha data Dio come a te! Che mi volete scannare mentre dormo? No… sta' qua… senti… te ne vai? Ah, finché ti parlavo delle stelle… Senti che ti dico: scannami qua a occhi aperti, non mi scannare a tradimento nel sonno… Che dici? Non vuoi rispondere? Ma che aspetti? Che aspettate, si può sapere? Denari, non ne avrete; tenermi qua, non potrete; lasciarmi andare, non volete… Volete ammazzarmi? E ammazzami, corpo di Dio, e non se ne parli più!

A chi diceva? Quello era già andato a riaccoccolarsi sul greppo come un gufo, per dimostrargli che di questo – era inutile – non voleva sentir parlare.

Ma dopo tutto, che bestia anche lui! Non era meglio che lo uccidessero nel sonno, se dovevano ucciderlo? Anzi, più tardi, se ancora non si fosse addormentato, sentendoli entrare carponi nella grotta, avrebbe chiuso gli occhi per fingere di dormire. Ma già, che occhi! al bujo, poteva anche tenerli aperti. Bastava che non si movesse, quando sarebbero venuti a cercargli la gola, a tasto, come a un pecoro.

Disse:

– Buona notte.

E si ritrasse.

Ma non lo uccisero.

Riconosciuto lo sbaglio, né liberare lo vollero e neppure uccidere. Lo tennero lì.

Ma come, per sempre?

Finché Dio avrebbe voluto. Si rimettevano a Lui: presto o tardi, a seconda che Egli avrebbe voluto fare più o meno lunga la penitenza per lo sbaglio d'averlo catturato.

O che intendevano insomma? che egli morisse da sé, lassù, di morte naturale? Intendevano questo?

Questo, sì.

– Ma che Dio e Dio, allora! Pezzi d'animali, non m'ucciderà mica Dio, m'ucciderete voi così, tenendomi qua, morto di fame, di sete, di freddo, legato come una bestia, in questa grotta, a dormire per terra, a fare per terra qua stesso, come una bestia, i miei bisogni!

A chi diceva? S'erano rimessi a Dio, tutti e tre; e come se parlasse alle pietre.

Intanto, morto di fame, non era vero; dormire per terra, non era vero. Gli avevano portato lassù tre fasci di paglia per fargliene una lettiera, e anche un loro vecchio cappotto d'albagio, perché si riparasse dal freddo. Poi, pane e companatico ogni giorno. Se lo levavano di bocca, lo levavano di bocca alle loro creature e alle loro mogli per darlo a lui. E pane faticato col sudore della fronte, perché uno, a turno, restava lì di guardia, e gli altri due andavano a lavorare. E in quello ziretto là di terracotta c'era acqua da bere, che Dio solo sapeva che pena a trovarla per quelle terre assetate. Quanto poi a far lì per terra i suoi bisogni, poteva uscire dalla grotta, la sera, e farli all'aperto.

– Ma come? davanti a te?

– Fate. Non vi guardo.

Di fronte a quella durezza stupida e irremovibile si sarebbe messo a pestare i piedi come un bambino. Ma che erano, macigni? che erano?

– Riconoscete d'avere sbagliato, sì o no?

Lo riconoscevano.

– Riconoscete di doverlo scontare, questo sbaglio?

Sì, non uccidendolo, aspettando da Dio la sua morte e sforzandosi d'alleviargli per quanto potevano il martirio che gli davano.

– Benissimo! Ma questo è per voi, pezzi d'animali, per il male che voi stessi riconoscete d'aver commesso! Ma io? che c'entro io? che male ho commesso io? Sono sì o no la vittima del vostro sbaglio? E fate scontare anche a me, che non c'entro, il male che voi avete commesso? Devo patire io così, perché voi avete sbagliato? Così ragionate?

Ma no: non ragionavano affatto, loro. Stavano ad ascoltarlo, impassibili, con gli occhi fermi e vani, nelle dure facce cretose. E qua la paglia… e lì il cappotto… e lo ziretto dell'acqua… e il pane col sudore della fronte… e venite a cacare all'aperto.

Non si sacrificavano forse, uno alla volta, a star lì di guardia e a tenergli compagnia? E lo facevano parlare delle stelle e delle cose della città e della campagna, delle buone annate d'altri tempi, quando c'era più religione, e di certe malattie delle piante che prima, quando c'era più religione, non si conoscevano. E gli avevano portato anche un vecchio Barbanera, trovato chi sa dove, perché ingannasse l'ozio, leggendo; lui che aveva la bella fortuna di saper leggere.

– Che diceva, che diceva quello stampato, con tutte quelle lune e quella bilancia e quei pesci e quello scorpione?

Sentendolo parlare, si svegliava in loro un'ingorda curiosità di sapere, piena di meraviglie grugnite e di sbalordimenti bambineschi, a cui egli, a poco a poco, cominciava a prender gusto, come a una cosa viva che nascesse da lui, da tutto ciò che in quei discorsi con loro traeva, come nuovo, anche per sé, dal suo animo ormai da tanti anni addormentato nella pena della sua incresciosa esistenza.

E sentiva, sì, che ormai cominciava a essere una vita anche per lui, quella; una vita a cui aveva preso ad adattarsi, caduta la rabbia davanti a una ineluttabilità che non gliela faceva più pensare precaria, quantunque incerta, strana e come sospesa nel vuoto.

Già per tutti là, al suo podere lontano affacciato sul mare, e nella città di cui nella notte vedeva i lumi, egli era morto. Forse nessuno s'era mosso a far ricerche, dopo la sua scomparsa misteriosa; e seppur lo avevano ricercato, lo avevano fatto senza impegno, non premendo a nessuno di ritrovarlo.

Col cuore ridotto più arido e squallido della creta di quella grotta, che gl'importava ormai di ritornare vivo là, a quella vita di prima? aveva veramente qualche ragione di rimpianto per tutte le cose che qua gli mancavano, se il riaverle là doveva essere a costo dell'amara noja di prima? Non si trascinava là, in quella vita col peso addosso, d'un tedio insopportabile? Qua, almeno, ora stava sdrajato per terra e non si trascinava più.

Le giornate gli passavano, in quel silenzio d'altura, quasi fuori del tempo, vuote d'ogni senso e senza scopo. In quella vacuità sospesa anche la stessa intimità della coscienza gli cessava: guardava la sua spalla e la creta accanto della grotta, come le sole cose che esistessero; e la sua mano, se vi fissava gli occhi, come se esistesse, così solo per se stessa; e quel sasso e quello sterpo, in un isolamento spaventoso.

Se non che, avvertendo a mano a mano che quanto gli era occorso non era poi per lui tutta quella sciagura che in principio, per la rabbia dell'ingiustizia, gli era apparsa, cominciò anche ad accorgersi che davvero era una ben dura e grave punizione, a cui da se stessi quei tre s'erano condannati, il tenerlo ancora in vita.

Morto com'era già per tutti, restava vivo solo per essi, vivo e con tutto il peso di quella vita inutile, di cui egli ora, in fondo, si sentiva liberato. Potevano buttarlo via come niente, quel peso che non aveva più valore per nessuno, di cui nessuno più si curava; e invece, no, se lo tenevano addosso, lo sopportavano rassegnati alla pena che da loro stessi s'erano inflitta, e non solo non se ne lagnavano, ma veramente facevano di tutto per rendersela più gravosa con le cure che gli prodigavano. Perché, sissignori, gli s'erano affezionati, tutti e tre, come a qualche cosa che appartenesse a loro, ma proprio a loro soltanto e a nessun altro più, e dalla quale misteriosamente traevano una soddisfazione, di cui, seppur la loro coscienza non sentiva il bisogno, avrebbero per tutta la vita avvertito la mancanza, quando fosse venuta loro a mancare.

Fillicò un giorno portò su alla grotta la moglie, che aveva un bimbo attaccato al petto e una ragazzetta per mano. La ragazzetta recava al nonno una bella corona di pan buccellato.

Con che occhi erano rimaste a mirarlo, madre e figlia! Dovevano essere passati già parecchi mesi dalla cattura, e chi sa come s'era ridotto: la barba a cespugli sulle gote e sul mento; sudicio, strappato… Ma rideva per far loro buona accoglienza, grato della visita e del regalo di quel buon pane buccellato. Forse però era appunto il riso in quella sua faccia da svanito, che faceva tanto spavento alla buona donna e alla ragazzetta.

– No, carinella, vieni qua… vieni qua… Tieni, te ne do un pezzetto; mangia… L'ha fatto mamma?

– Mamma…

– Brava! E fratellini, ne hai? Tre? Eh, povero Fillicò, già quattro figli… Portameli, i maschietti: voglio conoscerli. La settimana ventura, bravo. Ma speriamo che non ci arrivi…

Ci arrivò. Altro che! Lunga, proprio lunga volle Dio che fosse la punizione. Per più di altri due mesi la tirò!

Morì di domenica, una bella serata che lassù c'era ancora luce come se fosse giorno. Fillicò aveva condotto i suoi ragazzi, a vedere il nonno, e anche Manuzza, i suoi. Tra quei ragazzi morì, mentre scherzava con loro, come un ragazzino anche lui, mascherato con un fazzoletto rosso sui capelli lanosi.

I tre accorsero a raccoglierlo da terra, appena lo videro cadere all'improvviso, mentre rideva e faceva tanto ridere quei ragazzi.

Morto?

Scostarono i ragazzi; li fecero andar via con le donne. E lo piansero, lo piansero, inginocchiati tutti e tre attorno al cadavere, e pregarono Dio per lui e anche per loro. Poi lo seppellirono dentro la grotta.

Per tutta la vita, se a qualcuno per caso avveniva di ricordare davanti a loro il Guarnotta e la sua scomparsa misteriosa:

– Un santo! – dicevano. – Oh! Andò certo diritto in paradiso con tutte le scarpe, quello!

Perché il purgatorio erano certi d'averglielo dato loro là, su la montagna.

Guardando una stampa

Un viale scortato da giganteschi eucalipti. A sinistra, un poggio con su in cima un ricovero notturno. Due mendicanti che confabulano tra loro per quel viale, e che hanno lasciato un po' più giù sulla spalletta una bisaccia e una stampella. Un'alba di luna che si indovina dal giuoco delle ombre e delle luci.

È una vecchia stampa, ingenua e di maniera, che quasi commuove per il piacere manifesto che dovette provare l'ignoto incisore nel far preciso tutto ciò che ci poteva entrare: questa zana qua, per esempio, a piè del poggio, con l'acqua che vi scorre sotto la palancola; e là quella bisaccia e quella stampella sulla spalletta del viale; il cielo dietro il poggio con quel ricovero in cima; e il chiaror lieve e ampio che sfuma nella sera dalla città lontana.

S'immagina che debba arrivare il rombar sordo della vita cittadina, e che qua tra gli sterpi del poggio forse qualche grillo strida di tratto in tratto nel silenzio, e che se la romba lontana cessi per un istante, si debba anche udire il borboglio fresco sommesso dell'acqua che scorre per questa zana sotto la palancola e il tenue stormire di questi alti alberi foschi. La luna che s'indovina e non si vede, quella bisaccia e quella stampella illuminate da essa, l'acqua della zana e questi eucalipti formano per conto loro un concerto a cui i due mendicanti restano estranei.

Certo, per fare da sentinelle alla miseria che va ogni notte a rintanarsi in quel ricovero su in cima al poggio, più bella figura farebbero, lungo questo viale, alberetti gobbi, alberetti nani, dai tronchi ginocchiuti e pieni di giunture storpie e nodose, anziché questi eucalipti che pare si siano levati così alti per non vedere e non sentire.

Ma la pena che fa tutta questa puerile precisione di disegno è tanta che vien voglia di comunicare a tutte le cose qui rappresentate, a questi due mendicanti che confabulano tra loro appoggiati alla spalletta del viale, quella vita che l'ignoto incisore, pur con tutto lo studio e l'amore che ci mise, non riuscì a comunicare. Oh Dio mio, un po' di vita, quanto può averne una vecchia stampa di maniera.

Vogliamo provarci?

Per cominciare, questi due mendicanti, uno mi pare che si potrebbe chiamare Alfreduccio e l'altro il Rosso.

La luna è certo che sale di là; da dietro gli alberi. E più volte, scoperti da essa, Alfreduccio e il Rosso si sono tratti più su, nell'ombra, lasciando al posto di prima, sulla spalletta, la bisaccia e la stampella. Parlano tra loro a bassa voce. Il Rosso s'è tirati sulla fronte gli occhialacci affumicati e, parlando, fa girare per aria la corona del rosario e poi se la raccoglie attorno all'indice ritto.

– La corona, sì: santa! ma sgranane pure i chicchi quanto ti pare, se poi non ti dai ajuto da te!

E dice che tutti i signori con l'estate se ne sono andati in villeggiatura, chi qua chi là; per cui l'unica sarebbe d'andare in villeggiatura anche loro.

Alfreduccio però è titubante. Non si fida del Rosso. È cieco da tutt'e due gli occhi, con una barbetta di malato, pallido, gracile. Insomma, civilino. Palpa con le mani giro giro le tese del tubino che gli hanno regalato da poco, e ripete con voce piagnucolosa:

– Ma noi due soli?

– Noi due soli, – miagola il Rosso, rifacendogli il verso. – Ti sto dicendo che bisogna andare da Marco domattina.

(Marco è un mendicante di mia conoscenza, a cui ho pensato subito, guardando questi due mendicanti della stampa. Può stare benissimo in loro compagnia perché, se questi due sono disegno di maniera, quello, pur essendo vivo e vero, come ognuno può andare a vederlo e toccarlo seduto davanti la chiesa di San Giuseppe con una ciotolina di legno in mano, non è meno di maniera di loro, uguale del resto a tanti altri che fanno con arte e coscienza il mestiere di mendicanti.)

Ma Alfreduccio seguita a non fidarsi e domanda:

– E se Marco non vorrà venire?

– Verrà, se andrai a dirglielo tu. È una bella pensata. Tutto sta a sapergliela presentare, là, come se venisse in mente a te: «Marco, che stiamo più a fare in città? Tutti i signori sono andati via in villeggiatura».

– Marco, che stiamo più a fare in città? – prende a recitare sotto sotto Alfreduccio, come un ragazzo che voglia imparare la lezione.

Il Rosso si volta a guardarlo; stende una mano e gli stringe le gote col pollice e il medio, schiacciandogli contemporaneamente con l'indice la punta del naso.

– Bello! – gli grida. – Mi fai il pappagallo?

Alfreduccio si lascia fare lo sfregio senza protestare.

E l'altro soggiunge:

– La carità, caro mio, chi te la fa? La gente allegra per levarti dai piedi. Chi soffre, non te ne fa; non compatisce: pensa a sé. Anche con una piccola sventura, crede alla sua e non vede la tua; e se lo vuoi fare capace, s'indispettisce e ti volta le spalle. Là là, in villeggiatura. Se Marco ti domandasse, come tu a me: «Ma noi due soli?» tu perché non ti fidi di me, lui perché non si fida di te; e tu allora glielo dici: «C'è anche il Rosso che ha tre piedi e sa le vie della campagna». Benché lui, Marco, di' la verità, ci veda un po' meglio di te?

– Meglio di me? – dice Alfreduccio maravigliato, e ride come uno scemo. – Se io non ci vedo niente!

– Eh via, Alfreduccio, tra compagni! Dimmi almeno che ci vedi poco!

– Ti dico niente: parola d'onore! E niente neanche Marco.

– Tanto meglio, allora! – conclude il Rosso. – Vi guiderò io. Ma bisognerebbe concertare qualche cosa. Mi sono morte quelle tre cavie ch'erano la mia ricchezza. Cerco da tanto tempo una bertuccia e non la trovo. Se tu non fossi tanto stupido, potresti almeno fare le veci delle cavie. Ho più di trecento pianete stampate proprio bene, per militari, ragazze da marito, giovani spose, vedove e vecchie. Tutto sta a sapere pescare giusto nelle caselline. Potresti imparare a trovare a tasto, subito, nella casella ch'io t'indicherei con qualche malizia combinata tra noi. Cieco come sei, farebbe effetto. Ma sempre Marco ci vuole. Tu, invece delle cavie; e Marco invece della bertuccia. Poeta; lo sai com'è? si mette a predicare che perfino i cani, oh, gli s'acculano davanti a sentire; noi mungiamo i signori villeggianti e sorteggiamo le pianete ai paesanelli. Più di questo non possiamo fare. Ti va?

– Eh, – sospira Alfreduccio, alzando le spalle. – Se Marco volesse venire…

– Mi secchi, – sbadiglia il Rosso, e si gratta con tutt'e due le mani la testa arruffata. – Ne riparleremo domani. Intanto, guarda: va' a prendermi la stampella che ho lasciato laggiù.

– Dove? – domanda Alfreduccio senza voltarsi.

– Laggiù! Va' rasente alla spalletta, e cerca a tasto; così impari. Guarda che c'è pure la bisaccia.

Alfreduccio si muove, a testa alta, una mano sulla spalletta. Quand'è a un passo dalla stampella si ferma e domanda:

– Ancora?

– Ma costà, non vedi: ci sei! – gli grida il Rosso; poi scoppia a ridere; si dà una rincalcata al cappellaccio e, balzelloni, con quattro gambate lo raggiunge; gli prende la faccia tra le mani; gliela alza verso la luna e gli osserva da vicino gli occhi tumidi, orribili, sghignandogli sul muso:

– Tu ci vedi, cane!

Alfreduccio non si ribella: attende con la faccia volta alla luna che quello gli esamini ben bene gli occhi, poi domanda come un bambino:

– Ci vedo?

– Ma, sai? – dice allora il Rosso, lasciandolo, – dopo tutto, dovendo fare il cieco, è una fortuna.

Due giorni dopo, per tempo, eccoli con Marco per lo stradone polveroso, il Rosso in mezzo, Alfreduccio a sinistra, Marco a destra; l'uno a braccetto e l'altro reggendo un lembo della giacca del Rosso.

Marco, il Poeta, ha una dignitosa e serena aria da apostolo, col petto inondato da una solenne barba fluente, un po' brizzolata. La sua cecità non è orribile come quella d'Alfreduccio. Gli occhi gli si sono disseccati; le palpebre, murate. E va come beandosi dell'aria che gli venta sulla bella faccia di cera. Sa d'avere un dono prezioso, il dono della parola; e la vanità di farsi conoscere anche nei paesi vicini lo ha forse indotto ad accompagnarsi con quei due. (Bisogna ch'io supponga così, perché i due mendicanti della stampa so di certo che Marco non se li farebbe compagni per nessun'altra ragione.)

Il Rosso è scaltro. Per entrargli in grazia, a un certo punto gli domanda:

– Sei andato a scuola, tu Marco, da ragazzo?

Marco accenna di sì col capo.

– Anch'io, – vuol far sapere Alfreduccio. – Fino alla terza elementare.

– Zitto tu, bestia! – gli dà sulla voce il Rosso. – Ti vuoi mettere col nostro Marco che mi figuro deve sapere anche il latino?

Marco accenna di sì un'altra volta; poi stropiccia la fronte e dice con gravità:

– Latino, italiano, storia e geografia, storia naturale e matematica. Arrivai fino alla terza del ginnasio.

– Uh, e quasi quasi allora ti potevi far prete!

– Sì, prete! Avrò avuto appena tredici anni quando ammalai d'occhi e mio padre mi levò dalle scuole per mandarmi dalla zia in città a curarmi.

– Già, perché tu nasci bene, lo so,

Gli scaltri però non sempre riescono a valersi a lungo della loro scaltrezza, tenendola nascosta; non resistono alla tentazione di scoprirla, specie quando li obblighi ad avvilirsi e colui su cui la esercitano si mostri soddisfatto del loro avvilimento.

– È vero, – soggiunge infatti il Rosso, – che tuo padre era scrivano in un botteghino del lotto e che si metteva in tasca, dice, le poste dei gonzi che andavano a giocare? Io non ci credo.

– Io, sì, – risponde secco secco Marco.

– Ah sì? Ma faceva bene, sai? Benone! Vedendo tutto quel danaro sprecato, povero galantuomo, lui n'avrà avuto bisogno. Lo capisco. Sicché dunque accecasti in città?

– Vuoi farmi parlare? – dice Marco. – In città, sì. Da quella mia zia, ch'era monaca di casa.

– Che t'insegnò la Bibbia, è vero?

– M'insegnò… La leggeva; l'imparai.

– Sorella di tuo padre?

– Sì. Me la ricordo appena. Tirava certi calci!

– Calci?

– Stentava a leggere; s'arrabbiava…

– … e tirava calci?

– Perché io le suggerivo le parole che lei stentava a leggere. Non voleva. Le voleva leggere da sé. Ero già accecato. Mi dicevano di no; che m'avrebbero fatto l'operazione, quando… non so, dicevano che si doveva maturare. E aspettavo. Ma mi annojavo lì in casa della zia: volevo ritornare al mio paese, e piangevo. Zia alla fine si seccò e mi disse che al paese non avevo più nessuno, perché mio padre, perduto l'impiego, era partito per l'America. Per l'America? E come? Mi avevano abbandonato là, solo, in casa della zia? Ma seppi poi che cosa significava quell'America. L'altro mondo. Me lo disse la serva, quando mi morì anche la zia. Già due volte avevo cambiato casa, stando con lei e non sapevo dove mi fossi ridotto ad abitare. Vedevo ancora come in sogno casa mia, e mi credevo vestito come quando mio padre m'accompagnava a scuola. Ma la serva, due giorni dopo la morte di zia, mi prese per mano, mi fece scendere una scala che non finiva mai e mi condusse per istrada. Lì si mise a dir forte, mica a me, certe parole che io in prima non compresi: «Fate la carità a questo povero orfanello cieco, abbandonato, solo al mondo!». Mi voltai: «Ma che dici?». E lei: «Zitto bello, di' con me, e stendi la manina, così». La manina? Me la cacciai subito dietro come se avesse voluto farmi toccare il fuoco.

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