Kitabı oku: «Le amanti», sayfa 12
– Portaci a Monte di Dio – disse Massimo al cocchiere.
Costui, sempre sonnecchiando, domandò se doveva alzare il soffietto.
– Sì: fa freddo – rispose secco secco Massimo.
Il viaggio in carrozza si compì pure lentamente, poichè il cavallo si riaddormentava, ogni tanto: e quando era sveglio, andava con un trotterello affannoso di sciancato, facendo dei passetti corti corti. Nella carrozza Massimo e Luisa non scambiavano una parola: ma ella sentiva che l’ora precipitava e ogni tanto i suoi occhi si rivolgevano a quelli di Massimo, interrogando. Essa voleva sapere da lui una cosa, voleva sentirgli dare risposta alla domanda che le ferveva nell’anima, da quando erano andati soli, per le vie di Napoli, per mare, sotto la luna. E tacitamente, nell’ombra, con gli occhi, lo pregava di dirgliela, la parola; e lui intendeva la interrogazione continua, supplichevole, di quei cari occhi amorosi che volevano essere amati, niente altro, e si voltava in là, come distratto, cercando di sfuggire a quella muta domanda. Una amarezza, un’inquietudine lo teneva agitato, non potendo neppure più fumare le sue eterne sigarette: ed ella sentiva che il suo sogno non era completo, se Massimo non parlava. Passava l’ora, fuggiva l’ora, essi ritornavano con la carrozza per la via fatta, e lui non voleva, non voleva dire…
– Che avete? – finì per domandare lei.
– Sono stanco.
– Vi siete annoiato? – chiese timidamente Luisa.
– Sapete bene di no: non domandate, dunque – disse recisamente.
Ella si scosse al tono un po’ duro: e con quanta tenerezza di amore poteva esservi in lei, dopo qualche minuto di silenzio, non seppe fare altro che chiamarlo:
– Massimo.
Che fu l’effetto di quella voce, di quella parola? Che gli mise innanzi, che gli ricordò? È certo che egli quasi quasi si levò, parendo volendo buttarsi dalla carrozza, fuggendo alle prese di uno spettro: poi ricadde e con una voce fievole le disse:
– Luisa, non mi chiamate più così, non pronunziate il mio nome, ve ne prego, se mi volete bene…
Ella tremò, non intese che l’ultima frase, sorrise, con le lagrime della gioia agli occhi. Erano giunti. Salirono presto, l’uno dietro all’altro: si fermarono sul pianerottolo, prima di dividersi. Appoggiata al muro, come esausta, ella lo interrogava ancora con gli occhi, perchè le rispondesse. Ma egli, turbatissimo, la salutò: ognuno entrò nella propria casa, lentamente, le porte si richiusero con un rumor sordo. Faceva un po’ di freddo. Albeggiava. La notte di estate era finita.
II.
Per un mese di seguito Massimo e Luisa si erano riveduti spesso, ma per pochi minuti, sempre. Quando egli si affacciava al balcone, alla mattina, la trovava lavorando dietro alla persiana, e vedeva, al brillare di quegli occhi, che essa lo aspettava: quando egli rientrava alla sera, trovava la porta di Luisa socchiusa, ella dietro la porta, sorridendo, e si scambiavano qualche parola. Due volte, attirato da quell’irresistibile fascino di giovinezza, da quella irradiazione simpatica che mette attorno a sè l’amore, egli era andato a farle visita e contando di restar poco, era poi restato molto, tanto l’ingenuo e profondo amore della fanciulla lo commoveva. Egli la trattava con una tenera cortesia, con un’affettuosità repressa, e vedeva scintillare nei begli occhi tanta gratitudine, che la sua cortese tenerezza cresceva. Ma come i primi temporali di settembre ebbero spezzata, l’aria calda, egli sparve per qualche giorno, e invano, ansiosa, impaziente, infelicissima, ella lo aveva atteso sera e mattina. Infine, una sera, a metà settembre, ella lo vide rientrare; dalla porta socchiusa ella spiava: non osò chiamarlo, tanto le sembrò tetro il suo volto. Ma dopo un’ora, ella non ebbe più ritegno, e andò pian piano a bussare all’appartamento di Massimo. Il servitore, senza domandare nulla, la introdusse nel salotto: ivi, dietro la scrivania, sotto il gran paralume di seta rossa trasparente con merletti bianchi, Massimo scriveva. Era grave, pensoso, e si fermava ogni tanto a riflettere, con la penna appoggiata alle labbra: in una di queste pause, vide Luisa.
– Oh cara, cara – disse, levandosi e stringendole le mani – giusto… vi scrivevo.
– A me?
Si era seduta dall’altra parte della scrivania e lo fissava, pallidissima.
– Mi scrivevate? perchè?
– Per… nulla – disse vigliaccamente lui. Poi, vergognandosi, soggiunse presto:
– Per salutarvi. Parto.
– Partite? – esclamò lei, alzandosi a metà sulla sedia.
– Sì. Parto.
– Per poco?
– Per molto, invece.
– Quanto tempo?
– Quattro, sei anni.
– Ah! – disse ella, chiudendo gli occhi, come se svenisse. Anche lui era smorto; ma aveva una nervosità che lo ringiovaniva.
– Dove andate? – soggiunse ella, pigliando fiato a stento.
– A Pietroburgo.
– Tanto lontano, tanto… – mormorò ella, con voce di pianto.
– Già – fece lui, con indifferenza – lontano assai.
– E… non vi fa pena… non vi dispiace andarvene?
– No – disse lui, brutalmente, sperando guarirla con la crudeltà.
Ella appoggiava la testa a una mano, col gomito sulla scrivania: si nascose gli occhi coll’altra mano e si mise a piangere zitto zitto, a lagrime lunghe che le piovevano sulle guancie, sul collo, continuamente.
– Perchè piangete? – domandò lui, nervosissimo.
Essa gli fece cenno di non domandare; seguitava a piangere, tacitamente.
– Non è mica morto qualcuno… – -tentò di scherzare lui.
– Sì, sì, è morto qualcuno – -rispos’ella, a bassa voce – veramente, veramente, è morto qualcuno.
E, levando il capo, con la santa audacia della passione, gli disse:
– Non ve ne andate: io vi voglio bene.
– Io non merito il vostro bene, cara; fate male a volermene.
– Non posso fare diversamente; vi voglio bene, non ve ne andate.
– Io sono stanco e vecchio, e laggiù il dovere mi chiama.
– Non m’importa: se non potete restare, verrò con voi.
– Cara Luisa, voi perdete la testa, figliuola mia…
– Sì, sì, è da quella notte che l’ho perduta – ella rispose con aria smarrita.
– Da quale notte? – chiese lui, inconsciamente.
Ma si pentì subito. Presa da un impeto di disperazione, essa scoppiò in singhiozzi, torcendosi le mani, battendo la testa sulla scrivania, gridando fra il pianto:
– Oh Dio… egli ha tutto dimenticato… Signore, Signore, egli ha potuto dimenticare… Oh Dio mio, ha dimenticato, ha dimenticato…
Sgomento innanzi all’opera che egli aveva fatta, non trovava parole per consolarla, come il malvagio monaco medievale del poeta, che evocato il demone, non aveva poi più il motto magico per rimandarlo all’inferno. La lasciava farneticare, impaurito e dolente, pentito e amareggiato, sentendo tutta la verità di quel dolore, sentendo ancora una volta la fatalità dell’amore aggravarsi nella sua vita. Poi, non reggendoci più, si levò, le andò vicino, le prese le mani, la chiamò per nome e allora un novello fiotto di tenerezza invase l’anima dell’infelice; ella si mise a domandargli, con una desolazione, con uno strazio di far pietà:
– Oh Massimo, Massimo mio… perchè mi lasci, perchè te ne vai?… come posso stare, senza di te, come posso restare sola, se ti voglio bene… Massimo, Massimo, non andartene, non essere senza cuore…
– Luisa, ti prego, non piangere, non dirmi queste cose…
E le tenne le mani, la guardò negli occhi, ipnotizzandola, tenendola sotto la sua volontà.
– Massimo… Massimo… – ripeteva lei, calmandosi dolcemente, come se una speranza le rinascesse nel cuore.
– Se è vero che mi vuoi bene, devi farmi una promessa…
– Prometto.
– … Di esser buona, di non piangere, di ascoltare con pazienza, con rassegnazione.
– Prometto – mormorò lei.
– Senti, senti – riprese lui, tenendole le mani, guardandola, sempre negli occhi – te lo debbo ripetere, tu fai male ad amarmi: io non merito questo tesoro così prezioso, della tua giovinezza, del tuo cuore, io sono un uomo senza gioventù, senz’entusiasmo e senza illusioni. Io so tutto, io ho conosciuto tutto, io ho cento anni come Faust e non vi è più Margherita che possa farmi ringiovanire. Io sono un uomo morto, Luisa. Perchè ti sei innamorata di me?
– Così – diss’ella, con la voce monotona della disperazione.
– Senza una ragione?
– Così.
– Non basta, Luisa…
– Credevo…, sì, credevo che tu mi amassi…
– Ti sei ingannata – le disse. – Io non ti ho mai amata.
– Mai amata! – fu l’eco desolata della infelice.
– Perchè hai tu creduto questo, Luisa! Non sai tu dunque che cosa sia l’amore?
– Ho creduto… ho creduto… che vuoi, ho creduto! – disse ella, aprendo le braccia, con un gesto desolatissimo.
– Tu non sai nulla, cara.
– Forse non so nulla, hai ragione – replicò ella, con la umiltà dei vinti, dei perduti.
E chinando il capo, volendo almeno trovare una scusa alla sua follia, cercando ancora un barlume di speranza nei ricordi, riandò tutto quel sogno di una notte di estate per cui ella aveva fissata la sua vita. E a ogni dolce particolare, a ogni piccolo e pur grande fatto che le si presentava alla memoria, ella trasaliva, ella ricadeva nella sua illusione e alla fine, rendendo tutto il suo pensiero:
– Eppure tu mi hai amata, quella notte, Massimo.
– Si ama sempre un poco la donna che abbiamo accanto – mormorò lui, con un’ombra di sorriso.
– Qualunque sia?
– Qualunque sia.
– E dopo?
– Dopo, si dimentica subito.
– Ed essa?
– Se è savia, gode del fugace momento e… non lo rimpiange.
– E se ama, se ama?
– Luisa, tu mi hai promesso di esser calma…
Ella si era alzata e gli parlava concitatamente:
– Ma che ne so, io, di questa vostra ipocrisia sociale, di questa vostra galanteria mondana; la chiamate galanteria, non è vero? Io sono una fanciulla semplice, una sciocca, una illusa, io ti amavo già, quando, quella sera mi hai detto di venir teco. Ma quando si porta via, di notte, una donna, con le dolci parole che tu mi dicesti, costei deve credere che tu l’ami! Ma tu, nella barchetta, te ne ricordi? hai passato un’ora a chiamarmi sottovoce, come se solo le sillabe del mio nome esistessero! Te ne rammenti? E dopo, dopo, tu non devi averlo dimenticato, hai preso le mie mani, nell’oscurità della grotta di donn’Anna, tu le hai strette, domandandomi così qualche cosa, io ho risposto sì, stringendoti le mani, questo, certo, neppure lo puoi avere obliato, io l’ho nell’anima, quella stretta di mani… e laggiù, laggiù, ti rammenti, ti ho dato il fiore di menta, lo hai baciato perchè aveva toccato le mie labbra, lo hai conservato gelosamente, lo hai chiuso sul tuo petto, come se volessi che appassisse colà, al calore del tuo cuore: io ho il tuo gelsomino, dove è dunque andato il fiore di menta? Ma tu hai baciato la mano, questa qui, in questo punto, lentamente, dolcemente, con una lentezza e una dolcezza che mi parve mi facessero morire: ma tu hai tenuto la mia testa sulla tua spalla, ma tu mi hai abbracciata te ne ricordi, certamente, te ne ricordi, chi può avere scordato queste cose? ma insieme, insieme a me tu hai sognato, abbiamo sognato laggiù, nel paradiso, il nostro paradiso. Oh angeli santi, voi stessi avete dovuto sorridere, poichè quello era l’amore buono, l’amore bello, l’amore santo, poichè io amava e tu mi amavi, Massimo, non mentire, non mentire, non togliermi questa fede…
– Vi sono una quantità di cose che somigliano all’amore e che l’amore non sono – disse lui, glacialmente. – La sera è chiara, vi è una buona e bella fanciulla, vi è il mare, vi è la gran poesia di questo paese nostro, la notte è lunga, il cuore è malinconico – e allora un nome, chi non lo pronunzia, un fiore chi non lo chiude sul petto, un bacio chi non lo dà? Sciocco colui che lascia sfuggire questi purissimi brevi piaceri dell’anima e dei sensi, puri piaceri che non hanno la macchia del peccato, che non debbono portare alle lacrime, alla tragedia e che vi fanno egualmente cara una notte, un giorno! Tutto questo non è affatto l’amore nel suo immenso turbamento, con le sue lotte quotidiane, con la sua gelosia feroce, con la sua insaziabilità crudele e con la sua sazietà scorante! È invece un’altra cosa che all’amore rassomiglia, una cosa carina, graziosa, che resta dolce nella memoria, che non lascia ferita e che imbalsama poi, col suo profumo, le ore della vecchiaia. Amore no: tenerezza, simpatia, fascino, eterna attrazione del femminile, una cosa mite e tanto cara, senza dolori, senza singhiozzi… Luisa, Luisa, l’amore è un’altra cosa, è una vampa, è una vertigine, è uno sconquasso, Dio vi salvi…
– Io sono perduta – ella disse, brevemente, – perchè vi amo e non mi amate.
Come egli parlava, pianamente, con quella velatura d’ironia che rendeva triste la sua voce, con quel senso di disdegno che rivelava l’uomo esperto delle tempeste, come egli le veniva dolorosamente dimostrando la inanità delle sue illusioni, ella aveva inteso a poco a poco mettersi fra loro due una grande distanza, quasi che Massimo fosse già partito, già in viaggio per il gelido paese nordico. Ogni parola che infrangeva le sue speranze, le s’imprimeva nella mente, col lieve sogghigno che l’avea accompagnato, con la intonazione sprezzante che era stata pronunziata: e un lavoro di distruzione si operava in lei, la parola di lui spegneva tutta la cieca fiducia che ella aveva avuto nel suo sogno. Illusione, illusione, il bacio, il fiore, il nome, la voce tremante, la carezza, l’abbraccio, illusione tutto, morto tutto, finito tutto, finito. Una luce fredda le si era fatta dinanzi agli occhi della mente: egli aveva ragione, tutto quel sogno di una notte di estate, sotto il pallido, morbido raggio lunare, era una cosa graziosa, carina, niente altro, da dimenticare immediatamente, da ricordare poi più tardi, molto più tardi, con una certa soavità, anche con un po’ di gratitudine. Ella vedeva, vedeva bene, adesso. La scienza della vita le arrivava di un colpo solo, netto e preciso come quello di una mannaia che recide una mano: tutto sanguinava, ma, ella vedeva la verità. E si sentiva, perduta.
Egli taceva. Era tornato al suo posto e giocherellava con la sua penna di avorio bianco: ma era scomposto nel volto. Affettava una calma che non aveva: capiva che la crisi non finiva lì e soffriva per sè e per lei, immensamente. Ma le sue burrasche passate gli davano la forza di combattere ancora. La fanciulla taceva e pensava, quasi che nulla più le restasse da dire: anzi si alzò, come per andarsene. Ma arrivò sino al balcone chiuso e appoggiò ai vetri la fronte febbricitante. Stette qualche tempo così. Poi, ritornò. Pareva tranquillizzata. Ma si passava ogni tanto la mano sulla fronte, con un gesto che faceva pena. Si sedette di nuovo. Massimo la guardava, con una certa ansietà. No, tutto non era ancora finito…
– E… ve ne andate? – chiese ella, cercando di rafforzare la propria voce.
– Sì.
– Quando?
– Domani mattina: o anche stasera… meglio stasera.
– Infatti… meglio stasera – rispose lei, monotonamente. – E… non mi avreste salutata?
– Vi scrivevo…
– Lasciatemi vedere – diss’ella, pregando.
Egli obbedì, dandole la carta, dove erano scritte soltanto queste poche linee.
«Cara, cara Luisa – io debbo lasciare, per forza, questo caldo e bel paese, per un paese freddo e brutto. Me ne vado, pieno di ricordi della vostra bontà, me ne vado, addio, pregandovi di volermi un po’ di bene, da lontano, per quanto bene vi voglio io…»
– Come potete mentire così? – diss’ella, fieramente, levando la testa.
– Non mento: vi voglio bene: vi ho una gratitudine immensa, mi siete carissima…
– E partite, partite?
– Parto.
– Ah io non so più nulla, non so più nulla, io ho perduta la testa. Da quella notte… – mormorò ella, nascondendosi il viso fra le mani. Ma dopo qualche minuto, ella si levò, andò vicino a Massimo, si sedette accanto a lui, con una espressione di ansietà, di angoscia sulla faccia che avrebbe impietosito il cuore più duro.
– Sentite, sentite, voi non avete nessuna colpa, è vero, io non posso dire nulla contro di voi, voi non mi avete ingannata, sono io che ho voluto ingannarmi, lo confesso. Ma pure… io vi amo, io non posso levarmi dal cuore questo amore, io non resisto al pensiero di restare sola, qui, mentre voi ve ne andate, così lontano; morirei; sentite, non ho mai mentito, morirei. Bisogna pur concedere qualche cosa agli illusi, agli esseri semplici. Il mio destino è di amarvi, Massimo, non vi è altro, per me. Che volete, il mio sogno continua, io non mi sveglierò che per entrare nella tomba. Sentite. Lasciatemi venir con voi: andate solo, andate triste, laggiù, in un paese ove non avete nè amici nè parenti. Io, qui, non lascio nessuno. Posso disporre della mia persona, della mia vita. Direte che vi sono sorella, nipote, governante, direte che sono la vostra serva, mi contento. Purchè io possa seguirvi, vi servirò, laggiù. Non mi vedrà nessuno; non uscirò, non andrò in chiesa, rinunzierò al mondo, a Dio, a tutto, pure di vivere accanto a voi. Non importa, se non mi amate: portatemi via, vi amo, non posso restare qui. Laggiù, non importa se mi tratterete male, non importa se mi dimostrerete, che vi secco: io avrò pazienza, rassegnazione, come voi mi comanderete di avere. Forse, vedete, non vi nascondo la mia speranza, mi amerete un giorno; lontano, ma può giungere, il gran giorno! Lasciatemi aspettarlo al vostro fianco, segretamente, umilmente, piamente, con la fede degli antichi cristiani; lasciate che io possa spendere la vita mia per voi, non posso farne altro, della mia vita. Voi siete spesso triste, una volta le mie risate vi piacevano; vi piacevano le mie canzoni, io riderò, e canterò per voi, tacerò a una vostra parola, aspettando. Voi non mi amerete mai, forse, ma io vi amerò, sempre. Ah non mi respingete, non mi lasciate; se incontrate di notte, un povero cane senza padrone che vi segue, malinconicamente, voi non lo cacciate via, è vero? Perchè caccereste me? Siete uomo, siete cristiano, avete cuore, avete pietà, non mi riducete alla disperazione, portatemi con voi, voglio morire accanto a voi, non qui, sola, non sola, per carità, portatemi con voi.
E la disgraziata scivolò dalla sedia a terra, cadendogli ginocchioni davanti, con la testa convulsa fra le mani.
– Luisa, Luisa, che fate? – gridò lui, vivamente, cercando di sollevarla.
– No, no, resterò qui, sino a che mi avrete fatto questa grazia – diss’ella, resistendo.
– Luisa, ve ne scongiuro, voi mi fate disperare… – E la sollevò sorreggendola, aiutandola a risedersi: ella lo guardò supplichevole.
– Ditemi la parola – mormorò abbattuta.
Egli capì che l’ora era giunta.
– Non posso, Luisa.
– Perchè non potete?
– Non posso tenervi nè come moglie, nè come amante.
– A me non importa della mia riputazione: vi voglio bene, voglio venir con voi.
– Non posso.
– Ma perchè?
– Perchè non vi amo di amore…
– Non importa, vi amerò io.
Egli la guardò, smarrito: l’ora era giunta, l’ora incalzava.
– Io amo un’altra donna! – proclamò lui, a voce chiara.
– Oh! – ella disse, come soffocando. Egli si alzò a metà, come se volesse aiutarla. Fredda, muta, Luisa lo fermò con un gesto. E solo nel guardarla in viso con gli occhi dove il cerchio nero, intorno, era diventato così largo, con le labbra bianche e con due pieghe alle labbra, dove prima si disegnava la curva del sorriso, con dieci anni di più, infine, con quella gioventù che pareva sfiorita per sempre, egli si sentiva torturare dai rimorsi. Ah, che egli non avrebbe mai voluto pronunziarla, la fatale parola, il segreto profondo del suo cuore, la nascosta angoscia di tutta la sua esistenza! Aveva esitato un’ora, arretrandosi davanti agli intimi recessi dove il suo amore viveva, non sapendo violare quel mistero impenetrabile, non sapendo ferire così mortalmente quel giovane cuore sì amoroso e disperato. Giammai, giammai, egli avrebbe confessato ad alcuno che amava, se quella desolazione di anima buona appassionata, non lo avesse spinto a tentarne così una disperata salvezza: il suo segreto sarebbe rimasto chiuso nel cuore, noto solo a Dio e a colei che aveva ispirato quell’amore, bocca umana non lo avrebbe ripetuto, orecchio umano non lo avrebbe udito, morto con lui, il segreto. Ma innanzi a quelle lacrime, a quei singhiozzi, innanzi a quella esistenza perduta, egli aveva finito per chiedersi se non era un poco colpevole, se non doveva espiare, tentando di togliere al naufragio quell’anima, con un rimedio estremo. E aveva dischiuso il tempio dove il suo idolo si ergeva, fiero e implacabile, aveva mostrato alla disgraziata fanciulla che l’altare aveva la sua dea, invitta, immortale. Egli, il più mistico fra i sacerdoti dell’amore, che stava a guardia, silenzioso, immoto, del tabernacolo che niun occhio d’uomo doveva rimirare, aveva adesso sollevato i veli sacri e mostrato all’occhio di Luisa la immagine divina. Si sentiva adesso fiacco, senza coraggio, senza forza, come se quella parola di rivelazione, avesse vuotato a un tratto le sue vene. Aveva detto.
Luisa non piangeva, non singhiozzava, non sospirava: era seduta al suo posto, con la faccia nascosta fra le mani sovrapposte, non dando segno di vita: anche le mani che avevano tremato sempre, ora erano ferme, bianche come quelle di una statua. Quando le abbassò, quando rialzò il capo e Massimo potette vedere la sua faccia, egli sentì il danno fatto. Oramai la luce di quegli occhi dolci e amorosi si era intorbidata per sempre, e li opprimeva la inguaribile mestizia delle speranze infrante: oramai le traccie del riso erano cancellate da quella delicata e giovanile fisonomia, mentre fra le sopracciglia si creavano quelle due rughe dolorose delle lunghe cogitazioni malinconiche; oramai il sangue era fuggito da quelle fresche, fragranti labbra e il pallore della viola, fiore esangue, fiore dolente, vi si era impresso, per sempre. La disgraziata aveva parlato, nella sua ansia, nel suo abbandono, di risa, di canzoni: ma bastava guardare la serietà oramai incancellabile del suo viso, per intendere che eran finite, per sempre, le canzoni e le risate. Ah veramente, veramente, come l’antico audace che tentò disollevare la cortina del tempio, come a Salammbo, figlia di Amilcare, che pose sul suo capo il velo di Tani, cosparso di stelle e commise il sacrilegio, così la povera umile fanciulla era stata fulminata perchè aveva tentato di schiudere un cuore, perchè aveva voluto entrare nel sacrario della dea. Invero, egli aveva in sè una pietà immensa e sterile, una pietà fiacca e triste, per quella creatura fulminata: non sapeva dirle più nulla, la fatalità sfugge alla discussione, e non ha conforti che l’attenuino. Infatti, fu essa la prima a parlare. Era una voce senza dolcezza, senza tristezza, non velata, non roca, ma veramente spezzata: nessun sentimento vi vibrava più: infranta. Adesso le domande che faceva, stanche, lente, sembravano l’appagamento di una mesta curiosità, un riandare sulla sventura, così, per sapere: senza che la conoscenza novella potesse mai più cangiare nulla di quello che era stato.
– Voi l’amate… molto?
– L’amo: quando si ama, si ama.
– Lo so – replicò ella, sempre senza fremito nella voce, sempre senza luce negli occhi. – Lo so: domandavo… così… per sapere.
Il braccio di Luisa era disteso sulla scrivania e la mano sottile aperta sul panno scuro. E pareva così abbandonata, così bianca, che a lui sembrò vedere, veramente, una mano di persona morta. Ma salvo ad averne una infinita compassione, che cosa ci poteva fare, lui? Ambedue soffrivano, e malgrado tutto, l’uno non poteva aiutare l’altro nella propria disgrazia; essa lo amava, egli, aveva di lei una pietà grande, ma l’uno non poteva tergere neppure una lacrima dell’altro. Così è, l’amore. La divina armonia di due cuori che si scelgano e che si amino, non risuona che assai raramente, nelle anime umane. E non è, invece, che una catena, l’amore, di cui gli anelli sono di metalli diversi, male appaiati, di forme diverse, che si corrodono e si contorcono, senza potersi spezzare. Che ci poteva fare, lui? Tutto era inutile, tutto.
– Voi l’amate da molto tempo? – ricominciò lei, con quella intonazione d’indifferenza, che faceva più male di uno straziante singhiozzo.
– Da molto tempo.
– Da quando?
– Da… sempre.
– Non avete mai amata alcun’altra?
– No: mai. Vi è un amore che altri non ne ammette.
– È vero: lo so – ella disse, chinando gli occhi.
Poi, tacque, pensando. Sembrava che riflettesse a un’altra domanda da fare, e che temesse di farla, di cui non potesse ritrovare la forma. Difatti, due o tre volte fu lì lì per parlare, quasi che la parola volesse fuggirle irresistibilmente dalle labbra; ma si rattenne. Egli aspettava, oramai deciso a dir tutto, sempre più debole, sempre più esausto di forze morali. Invero erano due infelici creature: ma non vi era nessun rimedio. Alla fine, ella, si decise e disse:
– Voi l’amerete… sempre?
Prima di rispondere egli si raccolse e nei brevi minuti del silenzio, ritornò su quello che era stato, su quello che era la sua passione, provò a misurare il valore e la durata di quel vincolo che gli anni, la morale e material consuetudine avevano reso profondo e non risolvibile che dalla vecchiaia o dalla morte.
– Credo… credo – egli mormorò, esaurito – che l’amerò sempre. Sono vecchio, Luisa: e la vita non si ricomincia. Voi siete giovane… e potete obbliare…
– Voi non avete diritto di parlarmi così – ella disse, con un amaro sorriso. – Non vi accuso, non mi lagno; ma non cercate di consolarmi con queste vaghe parole. Io valgo meglio di questi banali conforti.
– Scusatemi – egli soggiunse, inchinandosi a quell’altero dolore, che non soffriva di essere turbato da nessuna voce, fosse pur quella della persona amata. – Era un augurio che vi facevo: vi auguro di dimenticare… con tutto il cuore, ve lo auguro.
Ella scorse il capo, senza rispondere.
– Voi la raggiungete, colà?
– Sì – egli disse, a bassa voce.
– Vi aspetta?
– No, non mi aspetta: ma mi ha chiamato – soggiunse lui amaramente.
– E voi obbedite?
– Obbedisco sempre. Ella mi ha detto di venir qui, nell’estate, lasciandomi senza notizie, senza lettere, senza neppure farmi sapere dove viaggiava: e sono stato qui, tre mesi per obbedirla.
– Ah, va bene, ho inteso – ella disse, senz’altro.
– Adesso mi scrive due parole, dicendomi di raggiungerla, dandomi il suo indirizzo: e io parto, io attraverso l’Europa, vado dove ella è, poichè questo, capite, è il mio destino.
– Essa vi ama?
– No.
– Non vi ama?
– No, niente.
– Non vi ha amato?
– Mai.
– Nè avete speranza?
– Nessuna.
– Ma perchè non vi ama?
– Perchè vie della gente che non ama mai, Luisa – gridò lui, subitamente esaltato.
– È vero, è vero – ella rispose, vagamente. – Vi è molta gente che non ama ed è forse felice.
– Forse.
– Ma perchè vi chiama?
– Perchè le fa piacere di avere un servo.
Un lugubre silenzio si fece intorno: le due vittime si guardarono, smorte dello stesso pallore, esauste dallo stesso morbo morale; e fu lei che per la prima, con una infinita dolcezza, gli disse:
– Voi siete come me.
– Come voi – mormorò l’uomo forte, l’uomo scettico, umilmente, dolentemente.
Niente altro. Ella si sollevò dalla sedia, rimase ritta davanti alla scrivania.
– Adesso me ne vado; buona sera.
– Ve ne andate? – chiese lui, un po’ affannoso.
– Sì, sì, me ne vado; buona sera, Massimo.
– Restate ancora un poco – balbettò lui. – Ditemi…
– Noi ci siamo detto tutto: non vi è nulla nel vostro cuore che io non sappia: voi sapete tutto del mio, non vi è più nulla, più nulla; buona sera.
– Ma che farete? – egli disse. – Voglio sapere che farete!
– Niente – disse lei, voltandosi, facendo un gesto largo con le braccia. – Niente.
– Non ci possiamo lasciare così – disse lui, tutto agitato. – Restate…
– Sarebbe inutile. Non dovete voi andare?
– Sì.
– E io debbo restare. Addio, Massimo.
– Addio, Luisa.
Ella se ne andò senza voltarsi, un po’ curva, ombra tacita e dolente. Egli la vide sparire: udì aprire e chiudere due porte. E pensando che in quel minuto, rientrata nella sua casa deserta, sola col suo dolore, ella piangeva come tutte le misere creature umane, lui, misera umana creatura piegò il capo, nel silenzio, nella solitudine, nel dolore e pianse, di pietà, di rimpianto, su Luisa, su Massimo.
FINE