Kitabı oku: «Il Cielo Di Nadira», sayfa 7
Capitolo 11
Inverno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna
Prima di perdere nuovamente conoscenza, Corrado fece in tempo a vedere l’icona della Madonna, quella inserita in una nicchia sulla facciata di casa, la quale era un segno obbligatorio per i cristiani. Michele l’aveva trasportato a spalla intanto che Apollonia li aveva anticipati facendosi largo tra la gran confusione di gente in preda al panico e intenta a spegnere gli incendi divampati poco prima. La casa di Umar veniva divorata dalle fiamme mentre al magazzino delle granaglie decine di uomini facevano avanti e indietro con l’intenzione di salvare quante più sementi possibili; tra di loro vi era anche Alfeo.
Caterina piangeva sulla porta mentre i suoi due figli naturali riportavano a casa l’altro, immolatisi e quasi morto per difendere l’onore della famiglia che lo aveva accolto.
Michele adagiò Corrado sul letto e corse a dare supporto al padre e ai compaesani contro le fiamme del magazzino.
Apollonia portava la lanterna, ma si bloccò sulla porta quando si accorse che sua madre aveva spogliato Corrado dei suoi abiti madidi di sudore e della rugiada della notte, per coprirlo con coperte asciutte. Non ricordava di averlo mai visto nudo, per questo arrossì e temette ad avvicinarsi. Poi, nelle ore più buie della notte, si ritrovò di nuovo da sola a vegliare su di lui, così come aveva fatto nei due giorni precedenti. Ora con una pezza bagnata frizionava la fronte di lui nel tentativo di fargli scendere la febbre.
Quando Corrado aprì gli occhi, i primi bagliori che anticipano l’aurora penetravano già dalla finestrella e l’adhān dell’alba risuonava per tutto il Rabaḍ, segno che la spiritualità doveva avere sempre la meglio sulle disgrazie. La febbre era scesa e Corrado cominciava a riprendere il controllo dei suoi muscoli. Le scure ecchimosi ai polsi gli ricordavano la causa della sua infermità e l’odio per colui che gli aveva causato quell’umiliazione… proprio a lui, nobile di fiera stirpe indomita.
Corrado aveva sopito il suo animo guerriero in vent’anni di quotidianità familiare. Quella realtà fatta di affetto, di una casa, di genitori amorevoli, di un fidato fratello e di un’amata sorella, aveva ripagato il disagio di essere lontano dalla sua gente, perduto in mezzo ad un popolo che da ragazzino gli avevano insegnato a disprezzare. In quegli anni, l’umiliazione di essere sottomesso all’esattore del Qā’id, a Fuad prima e ad Umar dopo, era stata ripagata dall’amore di Caterina, la madre che non aveva mai avuto.
Corrado adesso si ritrovò col capo dormiente di Apollonia appoggiato sul suo petto. Benché fosse stato ad intermittenza incosciente sapeva bene quanto avesse fatto per lui quella ragazza. Le passò perciò una mano tra i capelli e le accarezzò la guancia e l’orecchio.
Apollonia aprì gli occhi, tuttavia lui non poteva vederla. Era questo tutto ciò che lei poteva pretendere da quella vicinanza: fingere di dormire per godere delle carezze dell’altro. Sorrise immaginando che quelle mani fossero motivate da altri sentimenti, ma quelle briciole erano tutto ciò che poteva avere.
«Ho sete.» disse Corrado pensando a voce alta.
Apollonia a questo punto non poté più fingere di dormire e si rizzò sullo sgabello al quale stava seduta.
«Vado a prenderti dell’acqua.» rispose fin troppo velocemente, generando nel fratello il sospetto che in realtà non stesse dormendo.
«No, lascia che la prenda nostra madre. Tu resta qui.»
Perciò lo sguardo di Corrado si soffermò sul viso di Apollonia: un grosso livido ancora arrossato partiva dall’angolo della sua bocca e saliva fino a metà della guancia.
«Cosa ti è successo qui?» chiese, sfiorandole il viso.
Apollonia si ritrasse e rispose:
«Non ricordi proprio nulla?»
In realtà Apollonia sperava che Corrado non ricordasse affatto quel particolare... che non si fosse reso conto che Idris l’aveva colpita, affinché non gli andasse il sangue alla testa e ne volesse chiedere conto.
«Chi è stato a farti questo?» domandò ancora Corrado, appoggiandosi alla spalliera del letto.
Apollonia ne uscì combattuta: da un lato avrebbe voluto proteggere Corrado dal suo stesso temperamento, dall’altro non avrebbe mai voluto mentirgli.
«Dopo quello che è successo stanotte, che importa chi è stato?»
Corrado fu di colpo catapultato nella consapevolezza degli eventi a cui aveva assistito la notte prima; adesso tutto gli ritornava alla mente.
«Hanno rapito Nadira!» fece tutto d’un fiato, come se a quella verità vi stesse giungendo in quel momento.
«Lo so, Corrado… lo so… Quella povera ragazza! Fratello, la bellezza è una maledizione di Dio, e l’uomo è uomo! Jala ha visto tutto, gliel’hanno strappata via dalle braccia. Non si fa che parlarne in tutto il villaggio e Michele mi ha raccontato tutto, anche ciò che non sapevo.»
«Umar… quel cane di Umar! L’ho visto con i miei occhi cadere morto.»
«Umar è vivo... e anche la sua famiglia. Sono fuggiti in tempo prima che la casa crollasse su sé stessa. Ma dodici paesani, Corrado… dodici paesani… sono morti per difendere il Rabaḍ!»
Corrado si crucciò per i dodici abitanti del villaggio, ma poi la rabbia verso Umar ebbe il sopravvento.
«Avrebbe fatto bene a morire quel maledetto di Umar!»
«Allora è meglio che non ti dica chi è stato a trascinarlo lontano dalle fiamme mentre se ne stava svenuto e sua madre lo cercava come una disperata nel fumo.»
«Sei stata tu?» chiese furioso, puntandole un dito in faccia.
«No, io non sono stata in grado di trascinare neppure te. È stato Michele, quando è venuto per portarti a casa.»
«Michele!» urlò Corrado, volendo chiedere conto al fratello.
«Sta’ calmo, ti prego! La gente è tutta molto provata, e anche nella nostra famiglia è calato il lutto. Ho visto nostro padre rientrare a casa in lacrime. Abbiamo perso il raccolto di un anno e molti di quei dodici erano pure amici suoi.»
«Michele!» chiamò di nuovo Corrado.
«Finirà male se ci litigherai… Non fare quest’altro torto a nostro padre. Ti prego, Corrado!» lo supplicò lei prendendogli le mani.
«Quale torto gli avrei fatto?»
A questo punto Alfeo e Michele, avendo udito il richiamo di Corrado, misero piede nella stanza.
Apollonia lasciò allora le mani del fratello e si mise subito in piedi, come se quegli altri potessero interpretare con malizia quel gesto d’affetto, come se sapessero dei suoi sentimenti.
«Nessuno si era mai accorto di noi, Corrado, ed ora grazie a te siamo diventati un fetore per tutti i maomettani del Rabaḍ, e soprattutto per la casa di Umar.» spiegò Alfeo con il viso completamente annerito dal fumo.
«È per questo che Michele ha tratto in salvo il nostro nemico ancor prima di trarre in salvo me? Per pareggiare il torto che ho fatto a quello sterco d’uomo?» fece Corrado infuriato.
«È proprio così… Preghiamo Iddio che col gesto di Michele tutto ritornerà com'era prima.»
«Prima che prendessi le vostre difese, padre?»
«Non ti avevo chiesto nulla.»
«Ma quell’uomo vi ha umiliato!»
«Comandano loro; che c'è di strano?»
«Per questo non vi siete degnato di venire mentre me ne stavo lì?»
«Umar lo deve capire che noi non c’entriamo niente col tuo gesto.»
La rabbia di Corrado lasciò spazio alla delusione.
Apollonia si accorse quindi del viso basso del fratello e cercò di rincuorarlo:
«Suvvia… in fondo nostro padre ha ragione. Che pretendevi di fare insultando l’uomo del Qā’id?»
Ma Corrado, invece di starla a sentire, puntualizzò:
«Mio padre, il mio vero padre, sarebbe stato fiero di me, e lo sarebbe stato anche se legato a quel palo ci fossi morto. Voi invece mi rimproverate pure!»
Adesso i toni si surriscaldarono sul serio. Alfeo si indignò gravemente per quelle parole, mentre Michele se ne stava in silenzio poiché sapeva di aver tradito la fiducia della persona che più ammirava.
Caterina sopraggiungeva sulla porta quando il marito fece un passo avanti e sbottò:
«Dov’è oggi il tuo vero padre? Ha preferito farsi ammazzare lasciandoti solo! Per cosa, Corrado, per l’onore? Per non essere umiliati? Sono certo che per la gente come tuo padre queste sarebbero state ragioni più che sufficienti per farsi ammazzare, abbandonando il proprio figlio al suo destino. Tuttavia non sono queste le ragioni per cui il tuo vero padre non ti ha cresciuto… tuo padre si è fatto ammazzare per denaro!»
Corrado a questo si alzò dal letto, ma, accorgendosi di essere nudo, si coprì alla buona con la coperta che aveva addosso; Apollonia intanto si era prontamente girata.
«Era un soldato!» giustificò Corrado.
«Ed io sono un contadino… con un padrone da servire!»
Corrado fece un altro passo verso Alfeo e rispose:
«Per questo da duecento anni leccate i piedi a dei pagani. Comincio a pensare che il gusto della polvere fra i denti vi piaccia. È per questo che la mia gente ha in mano l’altra parte del Faro mentre voi vi fate schiaffeggiare per una tassa non pagata. Roul lo diceva sempre: “Maledetti greci!”.»
Detto questo passò oltre ed uscì di casa.
Si sentiva un verme, soprattutto per l’ultima frase. Quell’uomo con cui litigava era colui che l’aveva accolto e cresciuto al pari degli altri figli e lui ora si mostrava ingrato, sminuendolo nel paragone col padre che invece l’aveva lasciato all’età di nove anni. D'altronde, che cosa pretendeva da quella famiglia che della sottomissione al padrone aveva fatto la propria sopravvivenza? Il cuore di Corrado era indomito di nascita, è vero, ma anche completamente incompatibile con la natura mansueta di Alfeo. Ad un certo punto, mentre se ne stava seduto sotto il fico sul retro della casa, ancora arrotolato nella coperta, arrivò alla conclusione che l’inadatto fosse lui, e che per via del suo carattere avrebbe causato solo problemi a quelle persone che amava più di ogni altra cosa. Faceva freddo e lui non era del tutto guarito, ma fu in quel momento che maturò la decisione di partire. Il cuore gli batté forte dentro il petto e il respiro si fece profondo. Adesso gli ultimi decenni scomparvero; Corrado sentì i suoi ventinove anni come se fossero nove, come se il tempo al Rabaḍ non fosse mai trascorso.
Apollonia venne fuori piangendo, intanto che lui se ne stava immerso in quei pensieri.
«Ancora non ti sei ripreso… entra per favore.» lo pregò.
Corrado tuttavia sorrise compiaciuto per la decisione maturata di getto pochi minuti prima.
«Sono contento che Michele abbia salvato la vita ad Umar.» rispose lui, lasciandola completamente perplessa.
«E adesso cosa c’entra?»
«C’entra perché è arrivato il momento che io mi comporti così come è in uso tra la mia gente. Chiederò conto ad Umar per ciò che mi ha fatto e la farò pagare ad Idris per ciò ha fatto a te. Non credere che io non l’abbia visto stanotte!»
«Così ti farai ammazzare!»
«Poco importa, poiché questo non è vivere… è strisciare!»
«Ragiona, non ci va così tanto male... Prima che Umar colpisse nostro padre non ci avevano mai fatto nulla.»
«Se Umar è improvvisamente cambiato allora lo sono anch’io.»
«E se se la prenderanno con noi?»
«Nostro padre e Michele sapranno discolparsi disconoscendomi, così come hanno fatto in questi giorni.»
Apollonia gli si gettò alle gambe, abbracciandolo.
«Non te lo permetto, a costo di raccontare tutto a nostro padre.»
«Tu non lo farai, sorella, non tu che non mi hai mai tradito.»
Apollonia alzò lo sguardo e lo fissò... Al che lui le accarezzò con un dito lo zigomo.
«La vendetta è una delle rovine dell’uomo. Me lo hai raccontato tu di come la guerra di vent’anni fa non ebbe successo per i cristiani a causa della vendetta di quel tizio.»
«Arduino il longobardo… ma non fu per la sua vendetta che gli eserciti cristiani se ne tornarono al di là del mare; fu perché il suo generale volle umiliarlo pubblicamente… proprio come Umar ha fatto con me.»
Capitolo 12
Inizio estate 1040 (431 dall’egira), vallate ad est di Tragina
Passarono diversi giorni, forse una settimana o più, tempo in cui Conrad non smise di frequentare la chiesa rupestre. Vi dormì, vi mangiò, vi pregò e pian piano cominciò a scambiare qualche parola con chi vi ci si recava, soprattutto con quei pochi frati di rito greco che conoscevano la lingua d’oïl, ma anche con alcuni della servitù e dei soldati di guardia all’accampamento. Conrad vi passò così tante ore che nei pochi momenti in cui mise il naso fuori, i suoi occhi dolsero per l’intensa luce solare. Imparò chi fosse ciascuno dei personaggi dipinti sul muro, il nome di tutti i santi e si affezionò all’immagine di Sant’Andrea, orante a bocca aperta e facente il simbolo trinitario con la mano; proprio quel santo apostolo sovrastava la sepoltura del padre.
Roul e gli altri avevano girovagato tra le campagne per giorni, ed ora, di ritorno dall’inseguimento, rincasavano all’accampamento insieme al grosso dell’esercito. Erano le prime ore del pomeriggio quando Conrad sentì la gran gazzarra che proveniva da sotto e giurò che per certo tra le tende si festeggiava.
Non passò molto che il suo affidatario venne su.
«Figliolo, vieni fuori!»
Conrad allora uscì, ma rimase davanti l’ingresso.
«L’intero esercito ritorna.»
«Festeggerete voi per la vittoria… io porto il dolore per mio padre.»
«Molti dei soldati hanno perso un parente nella battaglia, un fratello e perfino un padre… Pochi giorni fa hanno sepolto anche loro i propri morti, e non in un bel mausoleo come questo, ma in mezzo al campo. Adesso però è giusto godere dei nostri sacrifici… loro sono morti anche per questo.»
«Non voglio lasciare mio padre.» avanzò Conrad.
«E se qualche infedele profanasse questo luogo?» rafforzò la sua tesi.
«Lo punirà il buon Dio, ma a tuo padre non possono ammazzarlo due volte. Oggi festeggeremo insieme, e poi, compenso in tasca, torneremo a Siracusa per dar manforte a quelli di noi che sono rimasti, in modo da completare l’assedio. Si è fatto un grande bottino in questi giorni… Dio solo sa quanti villaggi sono stati predati nell’inseguimento e sulla strada di ritorno! Ognuno avrà la sua parte e a te spetterà quella di tuo padre.»
«Non me la sono guadagnata.»
«Cosa ti sei guadagnato di tutto ciò che tuo padre ha fatto per te? Ragazzo, comincio a stancarmi dei tuoi capricci! Oggi quasi stentavo a credere che te ne fossi stato quassù per più di una settimana. Ma io non sono tuo padre, e se non potrò onorare la promessa che ho fatto a lui allora è tanto meglio che ti stacchi la testa con due dita piuttosto che averti tra i piedi!»
«Cosa volete da me?» chiese dunque Conrad alzando la voce.
«Che ti convinci che tuo padre è morto e che la smetti di frignare. E che tu sappia che io ero amico di Rabel, non tuo, per cui non mi farò scrupoli ad appenderti allo stendardo se non farai quello che dico.»
«Prendetevi la parte del bottino di mio padre e lasciatemi in pace.»
Quando dopo questa frase Conrad si voltò per andare a rintanarsi dentro la grotta, Roul l’afferrò per la nuca e lo issò ad oltre due metri d’altezza. La mano del guerriero abbracciava quasi tutto il collo del ragazzino, quindi la strinse a tal punto che gli occhi del più giovane parvero schizzare fuori.
«Mi chiamano Pugno Duro e dovrei farmi insultare da te, lurido moccioso? Non ci starò un niente a sfracellarti su queste rocce!» urlò che pareva il Diavolo.
Dunque lo fece cadere scompostamente lasciando la presa.
«Se qualcuno dovesse vedere come cerchi di calpestarmi, la mia reputazione verrebbe messa a repentaglio. Ho ucciso uomini per molto meno! Ringrazia tuo padre e il mio onore se oggi non ti strozzo. Adesso alzati e vieni all’accampamento!»
Conrad era ferito, più che nel corpo nell’anima, ed evitava di guardare l’altro negli occhi, standosene ancora rannicchiato sull’erba secca. Neppure suo padre l’aveva mai disciplinato in tale modo.
Ad un certo punto vide la gigantesca mano di Roul avvicinarsi al suo volto; strinse perciò gli occhi immaginando il concretizzarsi di quella minaccia.
«Alzati e vieni con me. Ti farò vedere come viveva tuo padre, ti farò conoscere i suoi amici, ti farò bere quello che lui beveva e ti farò andare con le donne che lui preferiva.» lo invitò Roul con un inusuale tono gentile, porgendogli la mano.
Conrad l’afferrò e si rimise in piedi, quindi si asciugò le lacrime che bagnavano le sue lentiggini e forzò un’espressione di durezza.
«Così mi piaci!» si complimentò l’energumeno prima di voltargli le spalle e cominciare a scendere dall’erta.
«Roul!» chiamò invece Conrad.
«Che altro c'è?» rispose spazientito l’adulto tra i due.
«Voglio che mi portiate con voi nella prossima battaglia.»
Roul rise, era compiaciuto che i suoi mezzi portassero risultati, ma rise di gusto.
«Moccioso, che cosa vorresti tu?»
«Volete insegnarmi a vivere come viveva mio padre… bene, portatemi anche a combattere. Mio padre mi insegna la spada da che cammino. So farlo!»
«Me ne darai una dimostrazione non appena sarà possibile. Per quanto riguarda la guerra… beh, figliolo, prima devi preparare il tuo cuore… devi imparare ad odiare!»
«Io so già odiare! Mettetemi qui davanti un infedele e vedrete come lo riduco a brandelli.»
«Non basta, non sei abbastanza forte.»
«Datemi la vostra ascia e abbatto quest’ulivo in tre colpi.»
Roul rise ancor più forte e rispose:
«Tu non sapresti neppure sollevarla la mia ascia! Verrai con me in battaglia, ma non adesso. L’esercito regolare di Costantinopoli è composto da uomini che abbiano compiuto almeno diciotto anni. Noi non siamo certo al loro scarso livello, ma lascia che ti spunti almeno qualche pelo prima di venire.»
«Il prossimo anno?» chiese innocentemente Conrad.
«Il prossimo anno… va bene.» accordò Roul per toglierselo davanti.
«Vendicherò mio padre!»
Roul questa volta non rispose, piuttosto mise una mano sulla spalla dell’altro e riprese a scendere.
L’accampamento era un brulicare di gente; prima di allora a Conrad non era sembrato così grande. L’aria era quella della festa e tutto intorno i soldati ridevano e scherzavano, questa volta senza mostrare quella diffidenza che intercorreva tra stirpi diverse. Un tizio a lato della strada, presso le grandi tende, aveva una cassa piena di strani oggetti metallici con punte su più lati. Roul ne prese uno, lo mostrò a Conrad e gli spiegò:
«Vedi questo arnese, ragazzo? È così che Abd-Allah intendeva sconfiggerci, disseminando il terreno con centinaia di questi cosi. Ma i nostri cavalli sono ferrati con piastre larghe e i pungoli non ci hanno fatto un bel niente. Comincia ad imparare qualcosa sulla guerra.»
Carri carichi della roba del bottino continuavano ad arrivare scortati dai soldati regolari e confluivano presso il largo spiazzo antistante la tenda del comando, quella di Giorgio Maniace; ovviamente anche i carri e i buoi facevano parte del bottino. Su qualcuno di questi carri vi erano anche uomini e donne presi prigionieri nelle scorrerie: si trattava dei malcapitati civili mori che non erano riusciti a nascondersi. Molte di quelle donne avrebbero fatto parte dei festeggiamenti come iniziale atto di servitù, prima di essere mandate in Terraferma come bottino da recapitare alle famiglie dei nuovi padroni. Le donne avrebbero fatto parte delle corti nei palazzi nobiliari e gli uomini sarebbero diventati servi della gleba, oppure, sia uomini che donne, sarebbero finiti in mano ai mercanti di schiavi giudei, i quali li avrebbero sparsi nei mercati di tutto il Mediterraneo. Ai cristiani era infatti teoricamente proibito commerciare direttamente esseri umani ridotti in schiavitù, ma la verità era che il traffico dei prigionieri rendeva bene a tutti, cristiani e non.
Una delegazione degli abitanti di Rametta arrivava con carichi di provviste da destinare alle truppe. Rametta, arroccata in posizione formidabile sulle Caronie, era caduta in mani saracene solo nel 965, l’ultima tra tutte le città di Sicilia, ed era considerata il baluardo della cristianità siciliana e dell’eroismo mostrato per la difesa della fede. Giorgio Maniace l’aveva ripresa poco dopo il suo passaggio oltre il Faro, ingaggiando una sanguinosa battaglia in cui i guerrieri normanni avevano pagato il maggior contributo di sangue. Adesso i suoi abitanti sostenevano la riconquista cristiana in ogni modo a loro possibile, inviando uomini e vettovaglie. Lo stesso facevano i cittadini di Rinacium53 - nome della città negli atti ufficiali - a poche miglia ad ovest da lì, essendo il centro abitato di una certa consistenza più vicino all’accampamento.
Dopo poco tempo si presentò Tancred, il quale portava un otre di vino.
«Alcuni ne hanno già prosciugati tre!» disse questi, porgendo al suo commilitone l’oggetto a cui si riferiva.
«To’, fatti un sorso!» invitò Roul, passando il vino a Conrad.
Il ragazzino afferrò l’otre e ne ingurgitò un boccone, quindi stranì in viso e lo mandò giù a fatica. Gli altri due risero di gusto vedendo la difficoltà del figlio di Rabel a comportarsi da adulto.
«Mi sa che per le donne c'è ancora tempo!» esclamò Roul, sottolineando il fatto che se Conrad avesse ancora difficoltà col vino, figuriamoci con le donne.
«Cosa ti aspetti? Ha solo nove anni.» fece notare Tancred.
«Io a nove anni andai con la mia prima baldracca!» rispose Roul, pur se la cosa sembrava assurda.
Quella fu l’ultima frase che Conrad ascoltò con lucidità. Al secondo sorso di vino cominciò a vedere annebbiato e a non discernere più le singole voci dall’enorme e nebuloso vociare di migliaia di bocce parlanti in decine di lingue differenti.
«Pugno Duro, mi sa che il tuo figlioccio l’abbiamo perso...» commentò Geuffroi, un nobile normanno loro amico.
«È il figlio di frate Rabel, non il mio… Il figlio di Pugno Duro saprebbe bere il fuoco di questo monte.» si vantò Roul, speculando su un erede mai avuto e indicando il Jebel.
«Donne, dadi e vino… fuori dalla tenda della guardia variaga se la spassano alla grande!» s’intromise un altro, arrivando tutto eccitato e col fiatone.
Si diressero al luogo interessato, sennonché, una volta giunti presso lo spiazzo della tenda del comando, dovettero desistere da ogni proposito. Conrad se ne stava ancora rimbambito e seguiva i vecchi amici di suo padre senza capire alcunché. Decine e decine di persone, soldati di ogni genere, religiosi e persino alcune donne non ancora del tutto ricomposte lì dove si erano lasciate scoprire, se ne stavano tutte attorno al centro dello spiazzo, intente ad assistere a qualcosa. Regnava il silenzio e l’apprensione era tipica di quando sta per succedere qualcosa di terribile. Pure gli uomini della guardia variaga, coloro che avrebbero dovuto spassarsela, se ne stavano attenti a fissare il centro della scena. Roul perciò si fece largo spostando gli individui davanti a lui; Tancred, Geuffroi e Conrad ne approfittarono per avanzare.
Dalla tenda di Giorgio Maniace vennero fuori quattro uomini, quattro stratioti54 di Costantinopoli, riconoscibili dall’armatura e dall’aspetto mediterraneo. Tutt’attorno alla scena che stava per concretizzarsi, altri soldati romei55… calabresi, macedoni e pugliesi, si schierano a protezione, temendo la reazione di qualcuno tra la folla.
A questo punto Tancred rivolse la parola ad un compagno d’armi lì vicino, il quale probabilmente aveva assistito alla scena sin dall’inizio.
«Amico, che diamine succede qui?»
E quello, a bassa voce e mettendo una mano sulla bocca:
«Maniakes56 e Arduin… pare che sia nata una discussione tra loro.»
«Per cosa?»
«Parlavano in greco, non ho capito tutto… però…»
«Però cosa?»
«Pare che l’alterco sia scoppiato per un cavallo.»
I carri col bottino erano stati in parte svuotati e degli uomini fidati smistavano la roba secondo la tipologia a cui essa apparteneva. Effettivamente un bellissimo purosangue arabo, nero come la pece e dal pelo lucidissimo, stazionava davanti ai carri. A questo punto i quattro stratioti fecero presto a tirare la bestia verso il luogo da cui erano usciti. Si fecero avanti anche alcuni longobardi57, ma le picche dei soldati a protezione li fecero desistere dall’intervenire.
Venne allora fuori Giorgio Maniace, con le mani ai fianchi e tutto furioso. Questi col suo occhio buono cominciò a fissare in cagnesco ogni presente. Poi urlò nella sua lingua, ma tutti compresero:
«Qualcun altro ha intenzione di sfidare lo Strategos58?»
Questa domanda introduceva ciò che stava per concretizzarsi.
I quattro che avevano portato dentro il cavallo adesso tiravano fuori di forza, peggio di come si farebbe con una bestia, Arduino, capo del contingente longobardo. Afferrarono questi per la barba, affinché si assoggettasse alla prossima volontà di Maniace, e lo legarono al pennone posto all’angolo della tenda del comando, quello con su issata la bandiera con l’aquila bicefala di Costantinopoli. Infine Giorgio Maniace strappò una sferza di corde dalle mani di un suo servitore lì accanto e, dopo aver fatto denudare la schiena e il fondoschiena del malcapitato Arduino, lo prese a colpire personalmente. Ovviamente quell’altro non emise suono, duro e testardo com’era.
Comandare altra gente non è mai stato cosa facile, si rischia di far contento uno e scontento un altro, tuttavia Giorgio Maniace non faceva contento nessuno, ed eccetto la gente del popolo che lo vedeva come il liberatore della cristianità, per il resto lo odiavano tutti.
Ciò che era accaduto sotto gli occhi dell’intero esercito era qualcosa di incredibile: un capo… un capo delle truppe ausiliarie, era stato umiliato al pari di uno schiavo. Maniace contava sul pezzo più grosso dell’esercito, quello regolare affidato al suo comando diretto, per cui gli era facile far valere le sue pretese. Arduino controllava invece i conterati, uomini armati di scudo e lancia reclutati con la forza in Puglia; è chiaro che, eccetto per qualche fedele nobile longobardo, nessuno l’avrebbe difeso.
Il nocciolo della questione aveva poi dell’assurdo:
Per farla breve Arduino si era rifiutato di consegnare quel bellissimo purosangue arabo al suo generale, lo Strategos, ed era nata una discussione in cui nessuno dei due aveva voluto cedere. All’ennesimo rifiuto di Arduino, Maniace aveva deciso che dargli una lezione esemplare avrebbe ammansito la sua indisciplinatezza.
Tuttavia non sempre la forza risolve le contese, anzi spesso le conseguenze derivate dal suo uso e abuso risultano più spiacevoli della causa per cui si era deciso di attuarla. Ciò che quel gesto scatenò non poteva immaginarlo neppure Maniace, il quale, a dire il vero, spinto da un pessimo carattere, spesso agiva d’impulso e senza badare ai risultati delle sue azioni. Per di più, mentre l’esercito dava importanza alla vittoria sul campo e intendeva spassarsela, lui valutava la riuscita fuga di Abd-Allah un insuccesso. Tutta colpa della flotta che aveva permesso all’emiro saraceno di imbarcarsi al di là dei monti e di raggiungere la capitale Balarm. Chi comandava la marina, il quale avrebbe dovuto fornire supporto alle truppe di Maniace, era Stefano il Calafato, tuttavia l’abilità militare di quest’ultimo non poteva minimamente paragonarsi alla capacità del generale. Stefano comandava la flotta soltanto perché era il cognato dell’Imperatore, e a causa di questa considerazione che non teneva conto del merito, Giorgio Maniace non lo sopportava.
«Così finisce chi sfida Geórgios Maniákis!» concluse il generale, guardando gli astanti nella loro interezza e stendendo verso di loro il braccio con la sferza.
La folla a quel punto iniziò a diradarsi, ma era chiaro che la festa fosse finita lì, nella visione della schiena sanguinante di Arduino. Il longobardo perciò venne raccolto dai suoi fedelissimi e riportato nella sua tenda. Non sarebbe finita lì e tutti lo sapevano...
Roul e i suoi compagni d’armi si ritirarono mestamente verso la sezione di accampamento in cui si erano sistemati; perfino il vino e le donne persero il loro ascendente per quella sera.
Una volta ritiratisi in disparte, ed era già il tramonto, Roul, appoggiandosi al palo a cui era legato il suo cavallo, esordì:
«Ciò che abbiamo visto oggi ha dell’assurdo!»
«Io dico che saremmo dovuti intervenire.» avanzò Tancred.
«Noi rispondiamo a Guaimar di Salerno, non ad Arduin.» rispose Roul.
«Anche Arduin risponde a Guaimar. Ci ha assoldati lo stesso signore.»
«Allora che gli ristabilisca l’onore il suo signore! Non è anche Guaimar un longobardo?» fece notare Geuffroi, d’accordo con Roul.
«Non è questione di sangue o di fratellanza, è questione che nessun nobile, per giunta di buona stirpe, sia meritevole di subire quel trattamento. Non saremmo intervenuti se al posto di Arduin ci fosse stato Willaume de Hauteville?»
«Willaume gli avrebbe strappato il cuore con un morso!» esclamò Roul.
«Ma Willaume si guarda bene dal contraddire quel maledetto cane rabbioso di un macedone!» affermò qualcuno… bensì non era chiaro chi avesse parlato.
Il fatto che i tre soldati fecero un gesto di riverenza la dice lunga su chi fosse il tizio sopraggiunto.
«Willaume, noi parlavamo solo perché il fiato fa parte del compenso.» si giustificò Tancred con un filo di ironia, proprio colui che metteva in dubbio il non intervento da parte di tutti.
«Tancred Lunga Chioma, un giorno mi spiegherete perché vi chiamano così.» rispose Willaume, ovvero Guglielmo d’Hauteville.
«Lunga Chioma era mio nonno… io ho solo ereditato il nome.»
Poi guardò il più grosso fra tutti e subito dopo Conrad lì accanto.
«Roul Pugno Duro, è onorevole quello che fate per questo fanciullo.»
«Willaume, qualcosa più forte del sangue mi lega a mio fratello Rabel.»
«Ciò dimostra che dietro quell’ascia c'è un cuore…»
Dunque riprese fiato e disse:
«Ad ogni modo voglio che sappiate che provengo dalle tende della guardia variaga… e la cosa non è piaciuta neppure ad Harald.»
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