Kitabı oku: «Arena Uno: Mercanti Di Schiavi », sayfa 10

Yazı tipi:

“Combatterò” gli dico. “Nell’arena”.

Ben ride, facendo più uno sbuffo ironico.

“Stai scherzando. Arena Uno è piena di assassini professionisti. E anche quegli assassini vengono uccisi. Nessuno sopravvive. Mai. È una prolungata sentenza a morte. Per il loro divertimento”.

“Questo non significa che non posso provarci” gli ribatto in malo modo, con la voce in crescendo, adirata per il suo pessimismo.

Ma Ben si rimette a guardare in basso, la testa fra le mani, e scuote il capo.

“Bene, allora io non ho chance”, dice.

“Se ragioni così, non ne avrai davvero”, gli dico bruscamente. È una frase che papà usava spesso con me, e sono sorpresa di sentire quelle stesse parole uscire adesso dalla mia bocca. È qualcosa che mi disturba, e mi chiedo quanto di lui, esattamente, abbia assorbito. Riesco a sentire la forza della mia voce, una forza che non avevo mai riscontrato fino a oggi, e che mi fa quasi sembrare che lui stia parlando attraverso me. Sembra stregoneria.

“Ben” gli dico. “Se pensi di poter sopravvivere, se riesci a visualizzare te stesso che sopravvive, allora ci riuscirai. È qualcosa che ha a che fare con quello che ti sforzi di immaginare in testa. Quello che dici a te stesso”.

“Questo è mentire a se stessi” dice Ben.

“No, non lo è” gli rispondo. “È allenarsi. C’è una differenza. È vedere il tuo futuro, quello che vuoi essere tu, creartelo nella testa e poi farlo succedere. Se non riesci a vederlo, allora non puoi crearlo”.

“Sembra che credi davvero di poter sopravvivere” dice Ben con tono sorpreso.

“Non ci credo” gli ribatto. “Lo so. Posso sopravvivere. Sopravviverò”, sento dire a me stessa, con crescente fiducia. Ho sempre avuto la capacità di caricarmi e darmi tanta motivazione. Nonostante tutto, sento una ritrovata fiducia, un nuovo ottimismo.

E di colpo, in quel momento, prendo una decisione: voglio sopravvivere. Non per me. Ma per Bree. Dopo tutto, non mi risulta che sia ancora morta. Potrebbe essere viva. E l’unica chance che ho di salvarla è rimanere viva. Sopravvivere a questa arena. E se questo è quello che va fatto, allora lo farò.

Sopravviverò.

Non vedo perché non dovrei avere chance. Se c’è una cosa che so fare, è combattere. Mi hanno cresciuta per diventare brava in questo. Sono stata in un ring in passato. Le prendevo di santa ragione. Ed è così che sono diventata più forte. Non ho paura.

“Allora come pensi di vincere?” chiede Ben. Stavolta la sua domanda sembra sincera, sembra che creda davvero che possa farcela. Forse qualcosa nella mia voce l’ha convinto.

“Non devo vincere” gli rispondo con tranquillità. “È questo il punto. Mi basta sopravvivere”.

Ho appena finito di pronunciare queste parole quando sento il suono degli anfibi che avanzano nella sala. Un istante dopo, arriva il suono della porta che si apre.

Sono venuti per me.

QUINDICI

La porta della cella si apre con un cigolio e dal corridoio arriva luce in quantità. Mi copro gli occhi con le mani, e vedo la sagoma di un mercante di schiavi. Mi aspetto che entri e mi porti via, ma invece indietreggia, getta sul pavimento qualcosa di duro, di plastica, e la calcia. Scivola sul pavimento e si ferma sbattendo sul mio piede.

“Il tuo ultimo pasto”, annuncia con voce cupa.

Poi si allontana e chiude la porta sbattendola.

Già da qua si sente l’odore del cibo, e il mio stomaco reagisce con un’acuta fitta di fame. Mi piego e raccolgo con attenzione il contenitore di plastica, non è facile con questa luce fioca: è lungo e stretto, coperto con un foglio di alluminio. Tiro via il foglio e subito l’odore di cibo – vero cibo cucinato, come non ne vedevo da anni – si abbatte su di me, più forte di prima. C’è odore di bistecca. E di pollo. E di patate. Mi abbasso e lo osservo: c’è una grossa, succosa bistecca, due cosce di pollo, patate schiacciate, e verdure. È il miglior profumo mai sentito. Mi sento in colpa che Bree non sia qui a condividerlo.

Chissà perché mi hanno dato un pasto tanto ricco. Poi capisco che non è un atto di gentilezza, ma che lo fanno nel loro interesse: vogliono che sia in forze per l’arena. Forse mi stanno anche tentando un’ultima volta, offrendomi un’anteprima di come potrebbe essere la vita se accettassi la loro offerta. Pasti veri. Cibo caldo. Una vita di lussi.

Man mano che il profumo penetra in ogni poro del mio corpo, la loro offerta si fa sempre più allettante. Erano anni che non sentivo l’odore di cibo vero. Tutto in un colpo mi rendo conto di quanto fossi affamata, malnutrita, e mi domando se, senza questo pasto, avrei mai avuto la forza per combattere.

Ben si mette seduto, si appoggia e inizia a guardare. Ovviamente. Improvvisamente mi sento colpevole per non aver pensato a lui. Deve stare crepando di fame quanto me, e sono sicura che l’odore – che riempie la stanza – lo sta facendo impazzire.

“Prendine anche tu” dico nell’oscurità. Faccio ricorso a tutta la mia forza di volontà per fargli quest’offerta – ma è la cosa giusta da fare.

Scuote la testa.

“No” dice lui. “Hanno detto che è per te. Mangia. Quando verranno per me, anch’io avrò un pasto. Adesso serve a te. Sei tu quella che sta per combattere”.

Ha ragione. Serva a me, adesso. Soprattutto perché non ho in mente solo di combattere – ho in mente di vincere.

Non ci è voluto molto a convincermi. L’odore del cibo mi sommerge, allungo le braccia, afferro la coscia di pollo e la divoro in pochi secondi. La mangio morso dopo morso, rallentando appena per ingoiare. È la cosa più deliziosa che abbia mai assaggiato. Mi sforzo comunque di mettere da parte una delle cosce di pollo e di conservarla per Ben. Potrebbe ricevere il suo pasto – ma anche no. In tutti i casi, dopo tutto quello che abbiamo passato, sento che è giusto condividerlo con lui.

Passo alle patate schiacciate, usando le dita come paletta per mettermele in bocca. Il mio stomaco brontola dal dolore, e mi rendo conto che ho bisogno di questo pasto, più di qualsiasi pasto che abbia mai avuto. Il mio corpo reclama: vuole che faccia un altro morso, e poi un altro ancora. Mangio davvero velocemente, e nel giro di pochi momenti, ho divorato più della metà. Mi sforzo di conservare il resto per Ben.

Sollevo la bistecca con le dita e faccio grandi morsi; mastico lentamente, cercando di gustare ogni boccone. È la cosa migliore che abbia mai avuto in vita mia. Se sarà questo il mio ultimo pasto, mi è andata bene. Conservo mezza bistecca e passo alle verdure, mangiando solo la metà. Finisco in pochi secondi – eppure non mi sento ancora soddisfatta. Guardo quello che è rimasto per Ben e vorrei divorare tutto. Ma faccio appello alla mia forza di volontà, mi metto lentamente in piedi, attraverso la stanza e gli metto il vassoio davanti.

Sta seduto, con la testa sulle ginocchia, senza guardare. È la persona con l’aspetto più abbattuto che abbia mai visto. Se fossi stata io seduta lì, l’avrei guardato mangiare ogni boccone, avrei cercato d’immaginarne il sapore. Ma pare che non gli sia proprio rimasta voglia di vivere.

Deve sentire l’odore del cibo da vicino, poiché alla fine alza la testa. Mi guarda, con gli occhi pieni di sorpresa. Sorrido.

“Non pensavi davvero che l’avrei mangiato tutto?” domando.

Sorride, ma scuote la testa e l’abbassa. “Non posso” dice. “È tuo”.

“Adesso è tuo” gli dico, e glielo metto nelle mani. Non ha altra scelta che accettarlo.

“Ma non è giusto —” inizia.

“Ne ho mangiato abbastanza” mento. “E poi, devo rimanere leggera per combattere. Non posso destreggiarmi a stomaco pieno, giusto?”.

La mia bugia non è tanto convincente, e credo che non se la stia bevendo. Ma riesco anche a vedere l’effetto che l’odore del cibo ha su di lui, riesco a vedere il suo istinto prendere il sopravvento. È lo stesso impulso che ho sentito io pochi minuti fa.

Si china e lo divora. Chiude gli occhi, si appoggia e respira a fondo mentre mastica, assaporando ogni morso. Lo guardo finire, e mi accorgo di quanto ne aveva bisogno.

Anziché riattraversare la stanza fino al mio lato, prendo posto sul muro accanto a lui. Non so quanto tempo ho prima che vengano a prendermi, e per qualche motivo mi sono sentita sempre più vicina a lui negli ultimi minuti passati assieme.

Rimaniamo seduti, in silenzio, uno accanto all’altro, per non so quanto tempo. Ho i nervi a fior di pelle, le orecchie tese per intercettare qualsiasi rumore, e sto tutto il tempo a chiedermi se stanno arrivando. Mentre immagino quello che mi aspetta, il cuore inizia a battere più veloce, e provo a concentrarmi su qualcos’altro.

Credevo che ci avrebbero portato all’arena assieme e mi stupisce il fatto che ci stanno separando. Mi domando quali altre sorprese hanno in serbo. Cerco di non pensarci.

Non posso fare a meno di chiedermi se è l’ultima volta che vedrò Ben. Non lo conosco da tanto, e non dovrebbe davvero importarmene, in nessun senso. So che dovrei tenere la mente sgombra, le emozioni calme, e concentrarmi sul combattimento che ho davanti.

Ma per qualche ragione non riesco a smettere di pensare a lui. Non sono sicura del perché, ma in qualche modo inizio a sentirmi legata a lui. Mi mancherà. Non ha alcun senso, e ce l’ho con me stessa anche solo per averci pensato. A malapena lo conosco. Mi irrita pensare di rimanere turbata – più di quanto dovrei – nel dirgli addio.

Rimaniamo seduti in un silenzio rilassato, un silenzio tra amici. Non c’è più imbarazzo. Non parliamo ma so che nel silenzio mi sente, sente che gli sto dicendo addio. E che anche lui sta dicendo addio.

Aspetto che mi dica qualcosa – qualunque cosa. Dopo un paio di minuti, una parte di me inizia a pensare che forse c’è un motivo se non parla, che forse non prova le stesse cose nei miei confronti. Forse non gliene frega proprio niente di me; forse ce l’ha con me per averlo messo in questo macello. Improvvisamente, dubito di me stessa. Devo sapere.

“Ben?” sussurro, nel silenzio.

Aspetto, ma tutto quello che sento è il suono affannoso del respiro che passa per il suo naso rotto. Guardo meglio e vedo che si è addormentato subito. Questo spiega il silenzio.

Osservo la sua faccia: per quanto piena di lividi, è una bella faccia. Odio pensare che dobbiamo separarci. E che lui deve morire. È troppo giovane per morire. Immagino che lo sia anch’io.

Il pasto mi ha messo sonno, e nel buio, mio malgrado, mi si chiudono gli occhi. Prima di accorgermene, crollo contro il muro, la testa scivola fino ad appoggiarsi sulla spalla di Ben. So che dovrei rimanere sveglia, all’erta, e tenermi pronta per l’arena.

Ma dopo pochi secondi, nonostante i miei sforzi, mi addormento di botto.

*

Vengo svegliata dall’eco di stivali che avanzano lungo il corridoio. All’inizio penso che è solo un incubo – ma dopo mi accorgo che non lo è. Non so quante ore sono passate. Mi sento comunque riposata, il che significa che devo aver dormito per molto tempo.

Gli stivali diventano sempre più rumorosi e alla fine si fermano davanti alla porta. Sento un tintinnio di chiavi, e mi metto seduta per bene, col cuore che batte all’impazzata. Sono venuti a prendermi.

Non so come dire addio a Ben, e non so neanche se lui voglia farlo. E allora mi alzo, con tutti i muscoli doloranti, e mi preparo ad andare.

Di colpo, sento una mano sul polso. È sorprendentemente forte, e l’intensità della sua stretta mi si diffonde ovunque.

Ho paura di guardarlo, di guardare quegli occhi – ma non ho scelta. Mi fissa dritto per dritto. I suoi occhi emanano preoccupazione, e in quel momento, capisco quanto tenga a me. L’intensità di tutto questo mi spaventa.

“Sei stata brava” dice “a portarci fin qua. Non saremmo mai riusciti a rimanere vivi così a lungo”.

Lo guardo, senza sapere come rispondere. Vorrei dirgli che mi dispiace per tutto quanto. Vorrei anche dirgli che ci tengo a lui. Che spero che sopravviva. Che io sopravviva. Che possa rivederlo. Che ritroviamo i nostri fratelli. Che torniamo a casa.

Ma sento che già lo sa. E allora finisco col non dire una parola.

La porta si apre, e irrompono i mercanti di schiavi. Faccio per andare, ma Ben mi tira forte per il polso, costringendomi a tornare da lui.

“Sopravvivi” dice, con la veemenza di un uomo morente.

Lo fisso.

“Sopravvivi. Per me. Per tua sorella. Per mio fratello. Sopravvivi”.

Le parole risuonano nell’aria, come un comando, e non posso fare a meno di pensare che vengano da papà, passando attraverso Ben. Sento un brivido lungo la schiena. Prima, ero determinata a sopravvivere. Adesso, sento che non ho scelta.

I mercanti di schiavi vengono avanti e mi arrivano dietro.

Ben mi lascia andare e mi volto verso di loro con fierezza. Sento un impeto di forza che viene dal pasto e dal riposo, e li fisso con aria insolente.

Uno di loro ha in mano una chiave. All’inizio, non capisco perché – ma poi ricordo: le manette. Ce le ho avute addosso per così tanto tempo che me n’ero dimenticata.

Allungo le braccia e me le apre. Provo un grosso senso di sollievo non appena il metallo scatta e mi vengono tolte. Mi strofino i polsi in corrispondenza dei segni delle manette.

Esco dalla stanza prima che inizino a spingermi, cercando di procurarmi un po’ di vantaggio. So che Ben mi sta guardando, ma non ce la faccio a voltarmi a guardarlo. Devo essere forte.

Devo sopravvivere.

SEDICI

I mercanti di schiavi mi spingono per il corridoio, e man mano che cammino per le strette stanze senza fine, inizio a sentire un debole mormorio. All’inizio, è difficile capire cos’è. Ma mentre mi avvicino, risuona come il rumore di una folla. Una folla che grida, in una pioggia di urla e schiamazzi.

Scendiamo per l’ennesimo corridoio, e il rumore si fa più chiaro. C’è un grande boato, seguito da un rumore che sembra quello di un terremoto. Il corridoio sta tremando. Sembra la vibrazione di centomila persone che battono i piedi.

Vengo spinta verso destra, per un altro corridoio. Mi dà fastidio essere toccata e spintonata da questi mercanti di schiavi, soprattutto considerando che mi stanno portando a morire, e non c’è niente che mi piacerebbe di più che girarmi e picchiare uno di loro. Ma sono disarmata, e sono più grossi e forti di me, e non sarebbe una mossa vincente. E poi, devo conservare la mia forza.

Vengo spintonata un’ultima volta, e il corridoio si apre. In lontananza vedo una luce intensa, come di un riflettore, e il rumore della folla cresce inconcepibilmente, quasi fosse cosa viva. Il corridoio si apre e diventa un tunnel alto e largo. La luce si fa sempre più forte, e per un attimo mi pare di stare camminando all’aperto, alla luce del giorno.

Ma la temperatura non è cambiata. Sono ancora sottoterra e sto camminando nel tunnel d’ingresso. Ingresso all’arena. Penso al giorno in cui papà mi portò a una partita di baseball, a quando ci dirigevamo verso i nostri posti, dentro lo stadio – a quando siamo scesi nel tunnel e al momento in cui lo stadio si aprì di colpo davanti a noi. Mentre scendo  giù per la rampa, mi sembra tutto uguale. Tranne per il fatto che stavolta, sono io al centro dello spettacolo. Mi fermo e guardo, sgomenta.

Davanti a me c’è un enorme stadio, gremito di migliaia e migliaia di persone. Al centro c’è un ring di forma ottagonale; assomiglia a un ring di boxe, solo che al posto delle corde attorno al perimetro c’è una gabbia di metallo. La gabbia si estende verso l’alto, per circa cinque metri,  e circonda completamente il ring a eccezione del tetto, che è aperto. Mi ricorda la gabbia che un tempo veniva usata per l’Ultimate Fighting Championship, ma più grande. Questa gabbia, coperta di macchie di sangue, con spuntoni all’interno che sporgono una cosa come ogni tre metri, chiaramente non è fatta per lo sport – ma per la morte.

Sento rumore di metallo. Due persone stanno combattendo dentro il ring e una di loro è stata appena lanciata contro la gabbia. Il suo corpo sbatte sul metallo, mancando per poco uno spuntone, e la folla scoppia in un grido di acclamazione.

L’avversario più piccolo, ricoperto di sangue, rimbalza contro la gabbia e finisce a terra, disorientato. Il più grande, un gigante, sembra un lottatore di sumo. È asiatico, e deve pesare almeno duecento chili. Dopo aver tirato il piccolo, esile uomo, il lottatore di sumo parte all’attacco: l’afferra con due mani e lo solleva con facilità sopra la testa, come se fosse una bambola. Cammina in tondo, con la folla che urla selvaggiamente.

Lancia l’uomo e lo fa volare per tutto il ring, fino a farlo sbattere di lato contro la gabbia, mancando nuovamente lo spuntone di un nulla. Atterra sul duro pavimento, non si muove.

L’intera folla scoppia in un boato e si alza in piedi, urlando.

“FINISCILO!” urla qualcuno dal pubblico, sovrastando il baccano con la voce.

“UCCIDILO!” urla un altro.

“SCHIACCIALO!”.

Migliaia di persone iniziano a gridare e a sbattere gli stivali sulle pedane di metallo; il rumore si fa assordante. Il lottatore di sumo stende le braccia e si gode lo spettacolo camminando lentamente in tondo e gustandosi il momento. Le urla si fanno sempre più forti.

Lentamente, con fare minaccioso, il lottatore di sumo attraversa il ring, si dirige verso l’uomo incosciente, che giace faccia a terra sul pavimento. Mentre si avvicina, si tuffa violentemente su un ginocchio, atterrando dritto sui reni dell’uomo. Si sente un rivoltante rumore di ossa che si rompono non appena i suoi 200 chili colpiscono la spina dorsale dell’uomo, frantumandola. La folla reagisce con versi di sdegno, mentre diventa chiaro che gli ha spezzato la schiena.

Mi giro dall’altra parte, non voglio guardare; mi sento malissimo per il piccoletto indifeso. Mi chiedo perché non la fanno finita. È chiaro che ha vinto il lottatore.

Ma a quanto pare, non hanno in programma di concludere – e il lottatore di sumo non ha finito. Afferra il corpo molle dell’uomo con due mani, lo solleva, e lo lancia di faccia contro il ring. L’uomo sbatte nella gabbia di metallo e crolla nuovamente per terra. La folla è in delirio. Il suo corpo atterra in una posizione innaturale, e non so dire se è morto o meno.

Il lottatore non è ancora soddisfatto. Alza le braccia, volteggiando lentamente, mentre la folla intona cori.

“SU-MO!  SU-MO!  SU-MO!”

Il boato cresce e diventa assordante. Il lottatore di sumo attraversa il ring un’ultima volta, alza un piede e lo affonda sulla gola dell’uomo indifeso. Sale con entrambi i piedi sulla gola dell’uomo, schiacciandogliela. Gli occhi dell’uomo si spalancano mentre solleva entrambe le mani cercando di togliersi i piedi dal collo. Ma è inutile, e dopo pochi secondi di lotta, è finita. Le sue mani cadono di lato, afflosciate. È morto.

Il pubblico salta in piedi fra le urla.

Il lottatore di sumo raccoglie il ragazzo morto, lo issa sopra la testa e lo scaglia per il ring. Stavolta mira a uno degli spuntoni sporgenti, e vi ci impala il corpo, che rimane attaccato al lato della gabbia, con uno spuntone infilato nello stomaco e il sangue che cola giù.

La folla urla ancora più forte.

Vengo spinta da dietro con violenza, e barcollo nella luce intensa, mentre scendo la rampa verso lo stadio aperto. Come entro, finalmente capisco con esattezza dove mi trovo: questo era Madison Square Garden. Solo che adesso l’area è tutta in rovina e il tetto ha ceduto, lasciando entrare la luce del sole e l’acqua, arrugginendo e corrodendo gli spalti.

Il pubblico deve avermi notato, visto che si voltano verso di me e iniziano un coro di attesa. Guardo da vicino le loro facce, mentre gridano e schiamazzano, e vedo che sono tutte Biovittime. Le loro facce sono deformate, maciullate. Molti sono scarni, magri come chiodi. Vi sono alcuni dei tipi dall’aspetto più sadico che abbia mai visto, e ce n’è un assortimento infinito.

Vengo portata giù per la rampa, fino a ridosso del ring; non appena lo raggiungo, sento migliaia di occhi addosso, e fischi e grida di scherno. A quanto pare, non gli piacciono i nuovi arrivati. O forse sono io a non piacergli.

Vengo portata a bordo ring e spinta su di una scala di metallo, a un lato della gabbia. Guardo il lottatore di sumo, che mi fissa con aria minacciosa dall’interno del ring. Osservo il corpo morto, ancora impalato sulla gabbia. Esito un attimo: non sono entusiasta di entrare in questo ring.

Vengo malamente spintonata con una pistola puntata sui reni, e non ho altra scelta che fare il mio primo passo sulla scala. Poi un altro, e un altro ancora. La folla urla, e sento le ginocchia che tremano.

Un mercante di schiavi apre la porta della gabbia, e faccio il mio primo passo dentro. Sbatte la porta dietro di me, e non posso evitare d’indietreggiare. Il pubblico urla nuovamente.

Mi giro e osservo lo stadio, cercando un qualche segno di Bree, di Ben, di suo fratello – o qualche faccia amica. Ma non ce ne sono. Mi sforzo di guardare dall’altro lato del ring, dove c’è il mio avversario. Il lottatore di sumo sta lì e mi guarda. Sorride, e come mi vede scoppia a ridere. Sicuramente pensa che uccidermi sarà uno scherzo. Non lo biasimo.

Il lottatore di sumo si gira di schiena e solleva completamente le braccia, rivolto verso la folla, a caccia di adulazione. Chiaramente, non è preoccupato da me, e pensa che l’incontro è già finito. Sta già festeggiando la vittoria che sta per arrivare.

La voce di papà mi riempie improvvisamente la testa:

Sii sempre tu a iniziare il combattimento. Non esitare. La sorpresa è la tua arma migliore. Un combattimento inizia quando TU lo inizi. Se aspetti che inizi il tuo avversario, hai già perso. I primi tre secondi di un combattimento ne decidono l’esito. Vai. VAI!

Sento in testa la voce di papà che grida, e lascio che mi guidi. Non mi fermo a pensare quanto folle sia ciò che sto per fare, quando sono sfavorita. Tutto quello che so è che, se non faccio niente, morirò.

Mi lascio trasportare dalla voce di papà, ed è come se il mio corpo fosse controllato da qualcun altro. Mi ritrovo a caricare dall’altra parte del ring, puntando il lottatore di Sumo. Ha ancora la schiena ancora rivolta verso di me e le braccia sollevate; si sta ancora godendo lo spettacolo. E adesso, almeno in questo momento, è vulnerabile.

Corro dall’alta parte del ring, ogni istante mi sembra un’eternità. Penso al fatto che sto ancora indossando gli anfibi con le punte rinforzate in acciaio. Faccio tre grossi passi, e prima che il lottatore di Sumo possa reagire, salto in aria. Volo – mi lascio trasportare dallo slancio – e miro con precisione alla parte di dietro del suo ginocchio sinistro.

Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono, sento dire a papà.

Spero che sia vero.

A questo punto ho solo un colpo a disposizione.

Gli do un calcio sul retro del ginocchio con tutta la forza che ho. Sento la mia punta d’acciaio che urta la sua carne morbida, e spero che funzioni.

Con mia sorpresa, il suo ginocchio gli parte in fuori, e va a terra sull’altro ginocchio, facendo tremare tutto il pavimento del ring per il peso.

La folla scoppia in urla di piacere e di sorpresa; ovviamente non se l’aspettava.

Il più grande errore che puoi fare in un combattimento è colpire qualcuno e andartene. Non si vince un combattimento con un solo pugno, o un solo calcio. Si vince con le combinazioni. Dopo che gli dai un calcio, dagliene un altro. E un altro. E un altro. Non ti fermare fino a quando non è più in grado di alzarsi.

Il lottatore di Sumo inizia a girarsi verso di me, con la faccia mezza sconvolta. Non aspetto.

Gli giro attorno e gli pianto un calcio di gancio esattamente sulla nuca. Va a terra di faccia, sbattendo forte sul pavimento, che nuovamente si mette a tremare. Il pubblico è in delirio.

Di nuovo, non aspetto. Salto in alto per un calcio di rimbalzo, e gli colpisco i reni con il tacco dell’anfibio. Poi, senza fermarmi, concludo prendendolo violentemente a calci sui lati della faccia, colpendolo con le punte di acciaio dritto sulle tempie. Il punto debole. Lo prendo ripetutamente a calci. Si ricopre subito di sangue, e cerca di proteggersi la testa.

La folla impazzisce. Saltano e urlano.

“UCCIDILO!” urlano. “FINISCILO!”.

Ma esito. Vederlo steso a terra, senza energie, mi fa sentire male. So che non dovrei – è uno spietato assassino – ma ciononostante non riesco a finirlo.

E questo è il mio grande sbaglio.

Il lottatore di sumo si avvantaggia della situazione. Prima che me ne accorga, allunga le braccia e mi afferra la caviglia. Ha una mano enorme, incredibilmente enorme, e mi agguanta la gamba come se fosse un ramoscello. Con mossa fulminea, mi tira dalla gamba, mi fa girare e volare dall’altra parte del ring.

Vado a sbattere contro la gabbia di metallo, mancando di due centimetri uno degli spuntoni affilati, e cado per terra.

Il pubblico sembra approvare. Alzo lo sguardo, stordita, con la testa che gira. Il lottatore di sumo si sta già mettendo in piedi ed è pronto ad attaccarmi. Il sangue gli cola sulla faccia. Non riesco a credere che sono stata io. Non riesco a credere che è anche solo vulnerabile. E ora, deve essere davvero arrabbiato.

Rimango impressionata da quanto è veloce. In un battito di ciglia mi è quasi di sopra, salta in aria e si prepara ad atterrarmi di sopra. Se non mi sposto rapidamente, verrò schiacciata.

All’ultimo secondo mi rotolo di lato, evitandolo per un pelo. Mi atterra accanto violentemente, e scuote il pavimento così forte da farlo letteralmente sobbalzare facendomi finire per aria.

Rotolo via finché non sono dall’altro lato del ring. Mi metto subito in piedi, e intanto si alza anche il lottatore di sumo. Ci troviamo sui due lati opposti del ring, uno di fronte all’altro; respiriamo tutt’e due affannosamente. La folla sta impazzendo. Stento a credere che sono riuscita a sopravvivere così a lungo.

Si prepara ad attaccarmi, e mi rendo conto che non ho opzioni. Non ci sono molti spazi dove andare in questo ring, soprattutto con un uomo di questa stazza. Una mossa sbagliata, e sono finita. Ho avuto la fortuna dell’elemento sorpresa. Ma ora devo combattere sul serio.

All’improvviso, cade qualcosa dall’alto. Alzo gli occhi e vedo che hanno lanciato qualcosa sul tetto aperto della gabbia.  Piomba per terra con un botto, proprio in mezzo a noi due. È un’arma. Una grossa ascia da combattimento. Non me lo sarei mai aspettato. Immagino che è così che equilibrano gli incontri e prolungano il loro divertimento. L’ascia atterra nel centro del ring, alla stessa distanza da ciascuno di noi due – circa tre metri.

Non ho esitazioni. Scatto verso l’arma, e vedo che per fortuna sono più veloce di lui. Ci arrivo per prima.

Ma lui è più veloce di quanto mi aspettassi, e proprio mentre mi piego e raccolgo l’ascia, sento le sue enormi mani attorno al torace che mi sollevano da dietro in una stretta micidiale. Mi solleva in alto, senza il minimo sforzo, come se fossi un insetto. Il pubblico è in delirio.

Stringe sempre più forte; sento spremermi fuori l’aria e ogni costola sembra essere sul punto di rompersi. Cerco di tenere stretta l’ascia – ma non serve a un granché. Non riesco nemmeno a muovere le spalle.

Mi fa roteare, si diverte un po’ con me. La folla risponde con schiamazzi di gioia. Se solo riuscissi a liberarmi le braccia, potrei usare l’ascia.

Ma non ce la faccio. Sento tutta l’aria uscire dal corpo. Ancora pochi momenti e soffocherò.

Alla fine, ho esaurito tutta la fortuna.

Yaş sınırı:
16+
Litres'teki yayın tarihi:
09 eylül 2019
Hacim:
293 s. 6 illüstrasyon
ISBN:
9781632911025
İndirme biçimi:
Serideki Birinci kitap "Trilogia Della Sopravvivenza"
Serinin tüm kitapları
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 3 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 4,8, 6 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 4,8, 6 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 1 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 5, 2 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre