Kitabı oku: «Arena Uno: Mercanti Di Schiavi », sayfa 5
Ho le mani che tremano, anche se ho i guanti, e mi rendo conto di quanto sono nervosa al pensiero di tirare il grilletto. Non ho mai ucciso nessuno prima.
L’uomo solleva di colpo le mani, le mette in alto, e fa un passo verso me.
“Non sparare!” urla.
“Rimani dove sei!” gli urlo per risposta, ancora non del tutto pronta a ucciderlo.
Rimane fermo, ubbidisce.
“Non sono uno di loro!” urla. “Sono un sopravvissuto. Come te. Hanno preso mio fratello!”
Mi chiedo se è una trappola. Ma poi alzo la visiera e lo squadro: vedo i suoi jeans consumati, ricoperti di buchi, proprio come i miei, vedo che indossa un solo calzino. Guardo più da vicino e vedo che non ha guanti, e che le sue mani sono blu; non ha nemmeno cappotto e indossa solo una logora maglia termica grigia, piena di buchi. Soprattutto, vedo che ha una faccia scheletrica, più scavata della mia, e noto le sue occhiaie. Non si fa neanche la barba da tempo. Non posso nemmeno fare a meno di notare quanto inaspettatamente attraente sia, nonostante tutto. Sembra avere più o meno la mia età, forse 17 anni, folta capigliatura castana, e grandi occhi azzurri.
È chiaro che sta dicendo la verità. Non è un mercante di schiavi. È un sopravvissuto. Come me.
“Mi chiamo Ben!” grida.
Lentamente, abbasso la pistola, mi distendo un pochettino, ma sono ancora tesa, nervosa con lui per avermi fermata, e presa dal bisogno di andare avanti. Ben mi ha tolto tempo prezioso, e mi ha quasi fatto fuori.
“Mi hai quasi ucciso!” gli grido. “Che cosa ci facevi in mezzo a una strada come questa?”.
Accendo il motore e do un colpo di pedale, pronta per partire.
Ma Ben fa diversi passi verso me, agitando freneticamente le mani.
“Aspetta!” grida. “Non andare. Ti prego! Portarmi con te! Hanno mio fratello! Devo andarlo a prendere. Ho sentito il tuo motore e ho pensato che eri uno di loro, così ti ho bloccato la strada. Non mi ero accorto che eri una sopravvissuta. Ti prego! Fammi venire con te!”
Per un attimo, provo simpatia per lui, ma il mio istinto di sopravvivenza si fa sentire, e sono in dubbio. Da un lato, avere lui potrebbe essere d’aiuto, vista la forza dei numeri; dall’altro, non conosco affatto questa persona e non conosco la sua personalità. Crollerà di fronte a un combattimento? Saprà come si combatte? E se lo lascio salire sul sidecar, consumerò più carburante, e mi rallenterà. Mi prendo un attimo, ci penso, e alla fine decido di no.
“Spiacente”, gli dico, chiudendomi la visiera e preparandomi ad andare. “Mi rallenteresti soltanto”.
Inizio a dare gas, e mi urla nuovamente.
“Me lo devi!”
Mi fermo un secondo, confusa dalle sue parole. Glielo devo? Per cosa?
“Quel giorno, la prima volta che sei arrivata”, continua lui. “Con tua sorella piccola. Ti ho lasciato un cervo. Era una scorta di cibo per una settimana. Te l’ho data io. E non ti ho mai chiesto niente in cambio”.
Le sue parole mi colpiscono duro. Ricordo quel giorno come fosse ieri, e quanto quello significò per noi. Non avrei mai immaginato di imbattermi nella persona che l’ha lasciato. Dev’essere stato qua vicino, tutto questo tempo – nascosto nelle montagne, proprio come noi. A sopravvivere. A badare a sé stesso. Con suo fratello piccolo.
Mi sento in debito con lui. E ci ripenso. Non mi piace essere in debito con le persone. Forse, dopo tutto, è meglio avere la forza dei numeri. E capisco come si sente: suo fratello è stato preso, proprio come mia sorella. Forse è motivato. Forse, insieme, possiamo fare più effetto.
“Ti prego”, mi supplica. “Devo salvare mio fratello”.
“Sali” gli dico, indicando il sidecar.
Salta su senza esitare.
“C’è un secondo casco dentro”.
Un attimo dopo, si siede e armeggia col mio vecchio casco. Non aspetto un istante di più. Riparto a tutta velocità.
Sento la moto più pesante di prima, ma la sento anche più bilanciata. Nel giro di pochi secondi, sono di nuovo a 100 all’ora, giù per la ripida strada di montagna. Stavolta, non mi fermo per niente al mondo.
*
Scendo a zigzag per le tortuose strade di campagna, e come giro un angolo, una vista panoramica della vallata si stende davanti a noi. Da qui posso vedere tutte le strade e vedo le due auto dei mercanti di schiavi in lontananza. Sono almeno due miglia davanti a noi. Devono aver preso la Route 23 per raggiungere quella velocità, il che significa che sono scesi dalla montagna e si trovano in un’ampia strada dritta. Mi fa male pensare che Bree è nel retro di una di quelle auto. Penso a quanto dev’essere terrorizzata. Mi domando se la stanno tenendo bloccata, se ha dolori. Quella povera ragazza deve avere una crisi di nervi. Prego che non abbia visto Sasha morire.
Do gas con ritrovata energia, girando e curvando anche troppo bruscamente, e come mi guardo attorno noto che Ben se ne sta aggrappato al bordo del sidecar, con lo sguardo terrificato, temendo per la sua vita. Dopo molti altri tornanti, lasciamo la strada di campagna e arriviamo volando sulla 23. Finalmente, siamo su un’autostrada normale, su un terreno piatto. Ora, posso lanciare la moto al massimo.
E lo faccio. Cambio marcia, e ruoto l’impugnatura, dandogli tutto il gas che può avere. Non ho mai guidato questa moto – né nient’altro – così veloce in vita mia. Vedo superare i 170, poi i 180, poi i 190… C’è ancora neve sulla strada, e mi vola dritta in faccia, rimbalzando sulla visiera; sento i fiocchi sfiorarmi la pelle sulla gola. So che dovrei rallentare, ma non lo faccio. Devo riprendere questi tipi.
210… 220… Riesco a stento a respirare da quanto stiamo andando veloci, e so che se per qualche motivo devo frenare non lo potrò fare. Ci metteremmo a girare e a rotolare all’impazzata, non riusciremmo mai a farcela. Ma non ho scelta. 240… 250…
“RALLENTA!” urla Ben. “MORIREMO!”.
Ho la stessa identica sensazione: moriremo. Anzi, ne sono certa. Ma non m’importa più. Tutti questi anni passati a essere prudente, a nascondermi da tutti, ne ho abbastanza. Nascondermi non è nella mia natura; preferisco prendere le cose di petto. Scommetto che in questo senso sono come papà: preferisco rimanere in piedi e combattere. Adesso, finalmente, dopo tutti questi anni, ho la possibilità di combattere. E sapere che Bree è là proprio di fronte a noi, così vicina, mi ha fatto un qualche effetto: mi ha fatto infuriare. Non posso proprio decidere di rallentare. Vedo le macchine ora, e sono ancora più carica. Sto indubbiamente guadagnando terreno. Sono lontani meno di un chilometro, e per la prima volta, sento che li sto per prendere davvero.
L’autostrada curva, e li perdo di vista. Come seguo la curva, loro non sono più sull’autostrada; sembrano scomparsi. Sono confusa, fino a quando non guardo avanti e vedo cos’è successo. E sono costretta a frenare di colpo.
In lontananza, è caduto un grande albero e adesso sta in mezzo all’autostrada, bloccandola. Fortunatamente, ho il tempo di frenare. Vedo le tracce dei mercanti di schiavi cambiare direzione verso la strada principale, attorno l’albero. Mentre quasi ci fermiamo dietro l’albero – uscendo dalla strada per stare dietro alle tracce dei mercanti di schiavi – noto che la corteccia è stata tagliata da poco. E capisco cosa dev’essere successo: qualcuno deve averlo abbattuto. Un sopravvissuto, immagino, uno di noi. Deve aver visto quello che è successo, ha visto i mercanti di schiavi, e ha abbattuto l’albero per fermarli. Per aiutarci.
Il gesto mi sorprende, e mi riempie il cuore. Ho sempre sospettato che ci fosse una rete silenziosa fatta da quelli come noi nascosti qua in montagna, che si guardano le spalle a vicenda. Ora lo so per certo. A nessuno piacciono i mercanti di schiavi. E nessuno vuole vederlo succedere a loro.
Le tracce dei mercanti di schiavi sono chiare, e le seguo mentre girano lungo l’argine e fanno una brusca curva per tornare sull’autostrada. Torno subito sulla 23, e adesso lo vedo chiaramente, circa mezzo miglio davanti. Ho recuperato un po' di distanza. Accelero nuovamente, portando la moto alla massima velocità a cui può andare, ma anche loro sono a tavoletta adesso. Devono avermi vista. Un vecchio cartello arrugginito dice “Cairo: 2”. Siamo vicini al ponte. Solo pochi chilometri.
Da queste parti è più edificato, e mentre passiamo vedo le costruzioni a pezzi lungo il lato della strada. Industrie abbandonate. Magazzini. Negozi. Case. Tutto uguale: bruciato, saccheggiato, distrutto. Ci sono perfino veicoli abbandonati, ridotti a rottami. È come se al mondo non fosse rimasto niente di sano.
All’orizzonte, scorgo la loro destinazione, il ponte Rip Van Winkle. Un piccolo ponte – largo appena due corsie e ricoperto da travi d’acciaio – che attraversa il fiume Hudson, collegando la piccola cittadina di Catskill a ovest con la più grande Hudson a est. Un ponte poco conosciuto, un tempo usato da quelli del luogo, ora solo i mercanti di schiavi lo utilizzano. È proprio quello che gli serve: li porta dritti dritti sulla Route 9, quindi sulla Taconic Parkway e da lì, dopo una cosa come 150 chilometri, verso il cuore della città. È la loro arteria.
Ma ho perso troppo tempo, e indipendentemente da quanto gas do, non li posso raggiungere. Non riuscirò ad arrivare al ponte prima di loro. Però sto riducendo il divario, e se prendo abbastanza velocità, forse posso sorpassarli prima dell’incrocio con l’Hudson.
Alla base del ponte ci sta quello che prima era l’edificio dell’addetto al pedaggio, che obbligava i veicoli a mettesi in fila e passare da una cabina pedaggio. Prima c’era una barriera che impediva alle macchine di avanzare, ma ne è passato di tempo da quando l’hanno distrutta. I mercanti di schiavi volano sullo stretto passaggio, mentre sospeso sopra di loro dondola un segnale arrugginito con su scritto “E-Z PASS”.
Li seguo e corro sul ponte, che adesso è ricoperto di lampioni arrugginiti che non funzionano da anni, col metallo attorcigliato e piegato. Come prendo velocità, noto in lontananza uno dei loro veicoli che frena di colpo. Sono confusa – non capisco cosa stanno facendo. Improvvisamente vedo uno dei mercanti di schiavi che salta fuori dall’auto e pianta qualcosa sulla strada, poi torna di corsa in macchina e se ne va. Tempo prezioso guadagnato per me. Mi avvicino alla loro macchina – sono solo a quattrocento metri— e sento che sto per prenderli. Ancora non capisco perché si sono fermati – né cosa hanno piantato.
Di colpo, realizzo – e inchiodo.
“Che fai?” urla Ben. “Perché ti fermi!?”.
Ma io lo ignoro e freno ancora più forte. Freno troppo forte, troppo velocemente. La moto perde aderenza sulla neve, e iniziamo a girare e scivolare, ruotando e ruotando in tondo. Per fortuna ci sono le ringhiere di metallo, e sbattiamo forte su di esse anziché finire sotto a fare un tuffo nel fiume gelato.
Le giravolte ci riportano verso la parte del ponte da cui siamo arrivati. A poco a poco ci andiamo fermando, la velocità cala, e spero soltanto di riuscire a fermarci in tempo. Perché adesso ho capito – troppo tardi – cosa hanno lasciato in strada.
C’è un’enorme esplosione. E come esplodono le bombe, si alza un fuoco alto fino al cielo.
Un’ondata di calore arriva dritta verso di noi, e iniziano a volare schegge. L’esplosione è fortissima: le fiamme si propagano ovunque, e la sua onda d'urto ci colpisce come un tornado, facendoci volare all'indietro. Sento il calore che mi brucia la pelle – pur attraverso i vestiti – e che ci travolge. Centinaia di frammenti mi rimbalzano sul casco, e il rumore mi rintrona in testa.
La bomba ha creato un buco tanto grosso da aver squarciato in due il ponte, aprendo una breccia di 10 metri tra le due parti. Ora non c’è modo di attraversarlo. E peggio, stiamo cadendo dritti verso la crepa, e finiremo col volare di sotto per decine di metri. Meno male che ho tirato i freni quando ho deciso di farlo, con l’esplosione ancora a cinquanta metri. Ma la nostra moto non vuole smettere di scivolare, e ci sta portando dritti verso quel punto.
Alla fine, la nostra velocità scende a cinquanta, poi trenta, poi quindici… Ma sul ghiaccio la moto non riesce a fermarsi completamente, e io non riesco a smettere di scivolare, proprio in direzione del centro del ponte – dove si sta aprendo una vera voragine.
Tiro i freni più forte che posso, provando di tutto. Ma mi rendo conto che ormai niente di tutto questo serve a qualcosa, visto che stiamo continuando a scivolare, senza controllo, verso la nostra morte.
E l’ultima cosa che faccio, prima di precipitare, è sperare che Bree possa avere una morte migliore della mia.
PARTE II
CINQUE
Cinque metri…tre…due…. La moto rallenta, ma non è abbastanza, e siamo a meno di un metro dal bordo. Mi preparo per la caduta, sicura che è così che morirò.
Poi, accade la cosa più impensabile: sento un forte rumore e sbatto in avanti mentre la moto si scontra con qualcosa e si ferma del tutto. Un pezzo di metallo, squarciato dall’esplosione, sporge dal ponte e si è andato a incastrare nel raggio della nostra ruota anteriore.
Sto seduta sulla moto in stato di shock. Guardo lentamente in basso e mi si gela il sangue: sto penzolando nel vuoto, oltre l’orlo della voragine. Non c’è completamente niente sotto di me. Decine di metri sotto vedo il bianco Hudson gelato. Non capisco come mai non stia precipitando.
Mi giro e vedo che l’altra metà della moto – il sidecar – è ancora sul ponte. Ben, che sembra più stordito di me, è sempre seduto dentro. Ha perso il casco per strada, e ha le guance coperte di fuliggine e bruciacchiate dall’esplosione. Mi guarda, poi guarda la voragine in basso, e poi di nuovo me, incredulo, come se non s’aspettava di vedermi ancora viva.
Mi rendo conto che il suo peso, nel sidecar, è l’unica cosa che mi tiene in equilibrio, impedendomi di cadere. Se non l’avessi preso a bordo, a quest'ora sarei morta.
Devo fare qualcosa prima che l’intera motocicletta si ribalti. Lentamente, con delicatezza, tiro fuori dal sedile il mio corpo dolorante e mi arrampico sul sidecar raggiungo Ben. Poi gli passo sopra e metto i piedi per terra, sulla strada; lentamente tiro su la moto.
Ben capisce quello che sto facendo ed esce ad aiutarmi. Insieme, allontaniamo la moto dal bordo e la riportiamo al sicuro sul terreno.
Ben mi guarda coi suoi grandi occhi azzurri: sembra essere appena uscito da una guerra.
“Come facevi a sapere che era una bomba?” domanda.
Alzo le spalle. In qualche modo lo sapevo.
“Se non avessi inchiodato in quel momento, saremmo morti”, mi dice con riconoscenza.
“Se non c’eri tu seduto nel sidecar, sarei morta”, gli rispondo.
Touché. Siamo in debito a vicenda.
Guardiamo entrambi in giù verso la voragine. Alzo gli occhi e vedo lontano le auto dei mercanti di schiavi che stanno per arrivare dall’altro lato del fiume.
“E adesso?” mi chiede.
Mi giro ovunque, freneticamente, valutando le opzioni a disposizione. Guardo di nuovo in basso verso il fiume. È completamente bianco, ghiacciato e innevato. Guardo il fiume in tutta la sua estensione, da un lato all’altro, alla ricerca di qualche altro ponte, o di altri attraversamenti. Non ne vedo nessuno.
A questo punto, realizzo cos’è che devo fare. È rischioso. Con ogni probabilità significherà morire. Ma devo provare. L’ho giurato a me stessa. Non mi arrenderò. Qualsiasi cosa succeda.
Risalgo sulla moto. Ben mi segue, e salta dentro il sidecar. Mi rimetto il casco, giro la manopola e ritorno verso il lato da cui siamo venuti.
“Dove vai?’, mi urla. “Questa è la parte sbagliata!’
Lo ignoro, e allungo sul ponte, riportandomi verso la nostra sponda dell’Hudson. Supero il ponte e giro a sinistra in Spring Street, dirigendomi verso la cittadina di Catskill.
Ricordo che ci venivo da bambina, e che c’era una strada che portava dritto al margine del fiume. Venivamo qui a pescare, ci accostavamo vicino al fiume e non c'era neanche bisogno di scendere dal pick-up. Mi ricordo che era incredibile arrivare con la macchina fino a ridosso dell’acqua. E adesso, mi viene in mente un piano. Un piano molto, molto rischioso.
Superiamo una piccola chiesa abbandonata e un cimitero sulla nostra destra – le lapidi spuntano fuori dalla neve – tipici delle città del New England. Mi stupisce come, con il mondo saccheggiato e distrutto, i cimiteri sembrano rimanere intatti. È come se i morti controllassero la terra.
La strada diventa a T; svolto a destra su Bridge Street e scendo per un ripido pendio. Dopo qualche isolato, arrivo alle rovine di un’enorme costruzione in marmo, “Tribunale Civile della Contea di Greene” ancora infisso sul colonnato. Giro a sinistra sulla Main Street, e sfreccio giù per quella che una volta era la placida cittadina di fiume di Catskill. Ci sono file di negozi su ciascun lato, rottami bruciati, edifici crollati, finestre rotte, e veicoli abbandonati. Non si vede un’anima viva. Scendo verso il centro della Main Street, priva di elettricità, supero i semafori che non funzionano più. Non che mi sarei fermata se avessero funzionato.
Sorpasso le rovine dell’ufficio postale sulla mia sinistra e sterzo intorno a un mucchio di macerie che si trovano in mezzo alla strada: sono le rovine di un edificio residenziale che a un certo punto dev’essere franato. Il percorso continua in discesa, tortuoso, e la strada si fa più accidentata. Passo scafi di barca arrugginiti, che giacciono distrutti sulla riva. Dietro vi sono le immense strutture corrose di ciò che un tempo erano depositi di carburante: hanno forma circolare e sono alti decine di metri.
Giro a sinistra, verso il parco fluviale, ormai ricoperto di erbacce. Su quel che resta di un segnale si può leggere “Approdo degli Olandesi”. Il parco sporge sul fiume, e a dividere la strada dall’acqua ci sono soltanto pochi massi con delle aperture in mezzo. Miro a una di quelle aperture, abbasso la visiera, e sprono al massimo la moto. Ora o mai più. Sento già il cuore che batte.
Ben deve aver capito quello sto per fare. Si siede dritto come un chiodo, nel panico, tenendosi stretto ai fianchi della moto.
“FERMATI!” urla. “CHE STAI FACENDO?”
Ma ormai è più previsto fermarsi. Si è iscritto alla corsa e non può più tornare indietro. Gli proporrei di scendere, ma non c’è più tempo da perdere; e poi, se mi fermo, potrei non avere più il coraggio di fare ciò che sto per fare.
Controllo il tachimetro: 100…110…120….
“CI FARAI FINIRE DRITTO NEL FIUME!” urla.
“È TUTTO GHIACCIATO!” gli rispondo.
“IL GHIACCIO NON TERRÀ!” urla nuovamente.
150…160…170….
“LO SCOPRIREMO!” gli rispondo.
Ha ragione. Il ghiaccio potrebbe non tenere. Ma non vedo altri modi. Devo attraversare quel fiume, e non ho altre idee.
200…210…220….
Il fiume si avvicina velocemente.
“LASCIAMI ANDARE!” grida disperato.
Ma non c’è più tempo. Sapeva quello a cui andava incontro.
Accelero per l’ultima volta.
Dopodiché diventa tutto bianco.
SEI
Guido la moto nello stretto passaggio tra le rocce, e l'unica cosa che so è che stiamo volando. Per un attimo ci libriamo nell'aria, e nel mentre mi domando se il ghiaccio terrà quando lo colpiremo – o se ci schianteremo finendo nell’acqua ghiacciata, dritti verso una morte certa e brutale.
Un secondo dopo sobbalzo con tutto il corpo: abbiamo urtato qualcosa di duro.
Ghiaccio.
Lo colpiamo a 230 chilometri all'ora, più veloce di quanto immaginassi, e come tocchiamo perdo il controllo. Le gomme non hanno aderenza, e la mia guida diventa una specie di scivolata controllata; faccio del mio meglio per reggere il manubrio che ondeggia freneticamente. Ma, con mia sorpresa e sollievo, almeno il ghiaccio tiene. Voliamo sopra la solida lastra di ghiaccio che è l'Hudson, sterzando a destra e a sinistra, ma riuscendo almeno a procedere nella giusta direzione. Nel mentre, prego Dio che il ghiaccio tenga.
Improvvisamente sento dietro di me l’orribile suono del ghiaccio che si rompe, perfino più forte del rumore del motore. Controllo dietro di me e vedo che si sta formando un’enorme crepa, che segue la scia della nostra moto. Il fiume si sta aprendo proprio dietro di noi. Quello che ci salva è che stiamo andando così veloce che la crepa non può raggiungerci, è sempre un pelo indietro. Se il motore e le gomme reggono per qualche altro secondo, forse, forse, riusciamo a distanziarla.
“VELOCE!” urla Ben, con gli occhi spalancati per la paura mentre si guarda alle spalle.
Vado più veloce che posso, sfioro i 240. Siamo lontani trenta metri dalla sponda opposta, e ci stiamo avvicinando.
Dai, dai! penso. Ancora pochi metri.
Poi un tremendo botto, e vengo sballottata avanti e indietro con tutto il corpo. Ben geme dal dolore. Mi gira tutto, ed è qui che mi rendo conto che siamo arrivati sulla sponda opposta. Sbattiamo a 240 chilometri all'ora, colpendo violentemente la riva scoscesa, e le teste ci schizzano indietro nell'impatto. Ma dopo qualche brutto sobbalzo, siamo sopra la riva.
Ce l’abbiamo fatta. Siamo tornati sulla terraferma.
Dietro di noi, il fiume si è completamente aperto: è spaccato nel mezzo, e l’acqua si sta riversando sul ghiaccio. Non penso che avremmo potuto farlo una seconda volta.
Non c’è tempo per pensarci adesso. Cerco di migliorare il controllo della moto, di rallentare, visto che stiamo andando più veloce di quanto vorrei. Ma la moto fa ancora resistenza, le gomme stanno ancora provando a recuperare aderenza – e all’improvviso guidiamo su qualcosa di incredibilmente duro e irregolare, che mi fa sbattere la mandibola sui denti.
Guardo in basso: binari del treno. Me n’ero dimenticata. Qui ci sono ancora i vecchi binari, proprio lungo il fiume, rimasti dai tempi in cui passavano i treni. Li colpiamo violentemente una volta attraversato il fiume, e come ci saltiamo sopra, la motocicletta trema così forte che quasi perdo la presa. Sorprendentemente, le gomme tengono, e seguiamo i binari sulla strada secondaria che corre parallela al fiume. Riesco finalmente a rallentare la moto, e scendo a 110. Passiamo la struttura arrugginita di un vecchio, grosso treno, buttato su un fianco, bruciato. Poi giro bruscamente a sinistra su una strada con un vecchio cartello con su scritto “Greendale”. È un’angusta stradina sterrata in pesante salita, lontana dal fiume.
Perdiamo velocità mentre la imbocchiamo. Spero che sulla neve la moto ce la faccia e che non scivoli all’indietro. Come cala la velocità, aumento il gas. Saremo sui 30 chilometri orari quando finalmente raggiungiamo la cima. Sul terreno pianeggiante, ritroviamo equilibrio, e prendo di nuovo velocità mentre scendiamo filati per questa stretta stradina. Passiamo attraverso il bosco, poi attraverso del terreno agricolo, poi di nuovo per il bosco, e infine una vecchia caserma dei pompieri abbandonata. Andiamo avanti così, a zigzag, tra avvallamenti e salite che ci portano per case di campagna abbandonate, greggi di cervi e stormi di oche, fin oltre un piccolo ponte di campagna che attraversa un ruscello.
Finalmente confluiamo in un’altra strada, Church Road, ovvero strada della chiesa. Mai nome fu più azzeccato: alla nostra sinistra passiamo infatti i resti di un’enorme chiesa metodista e il suo cimitero adiacente – ovviamente ancora intatto.
C’è solo un modo per i mercanti di schiavi di passare. Se vogliono la Taconic, e lo devono volere per forza, non c’è modo di arrivarci senza prendere la Route 9. Procedono verso sud – mentre noi ci dirigiamo verso est. Il mio piano è tagliargli la strada. E adesso, finalmente, ho io il vantaggio. Attraverso il fiume un miglio più lontano rispetto a loro. Se riesco ad andare abbastanza veloce, li posso battere sul tempo. Alla fine, mi sento ottimista. Gli taglierò la strada – e loro non se l’aspettano mai. Li colpirò in perpendicolare e forse riuscirò a neutralizzarli.
Accelero ancora, portandola sopra i 220.
“DOVE STAI ANDANDO?” grida Ben.
Sembra ancora traumatizzato, ma non ho tempo di spiegargli: in lontananza, vedo improvvisamente le loro auto. Sono esattamente dove pensavo che fossero. Non mi vedono arrivare. Non vedono che sono allineata per schiantarmi su di loro.
Le loro macchine procedono in fila indiana, a una ventina di metri di distanza fra loro, e mi rendo conto che non posso colpirle entrambe. Dovrò sceglierne una. Decido di mirare a quella davanti: se riesco a sbatterla fuori strada, forse quella dietro sarà costretta a inchiodare, o sbanderà e magari si schianterà. È un piano rischioso: l’impatto potrebbe davvero ucciderci. Ma non vedo altri modi. Non è che posso chiedergli di fermarsi. Spero solo che, in caso di successo, Bree sopravviva allo schianto.
Aumento la velocità, e mi avvicino. Sono a cento metri… poi 50… poi 30…
Alla fine, Ben capisce cosa sto per fare.
“CHE FAI!?” grida, e riesco a sentire la paura nella sua voce. “COSÌ LI COLPIRAI!”
finalmente realizza. È esattamente quello che spero di fare.
Accelero un’ultima volta, sfiorando i 240, e riesco a stento a prendere fiato mentre ci lanciamo a tutta velocità sulla strada di campagna. Pochi secondi dopo, voliamo sulla Route 9 – e ci schiantiamo direttamente contro il primo veicolo. È un colpo perfetto.
L’impatto è tremendo. Sento il fragore del metallo sul metallo, il mio corpo che sballotta. Poi mi sento volare dalla moto e librare in aria. Vedo le stelle e mentre vado su, penso che è così che ci si deve sentire quando si muore.