Kitabı oku: «Arena Uno: Mercanti Di Schiavi », sayfa 7
DIECI
Non so quanto tempo sono rimasta incosciente. Apro poco a poco gli occhi, e mi accorgo di avere un dolore tremendo alla testa. C’è qualcosa che non va, e non riesco a capire cosa.
Poi realizzo: il mondo è sottosopra.
Sento del sangue scorrermi in faccia. Mi guardo attorno, cercando di capire cos’è successo, dove sono, e se sono ancora viva. Poi, lentamente, inizio ad avere il quadro della situazione.
La macchina è capovolta, il motore si è spento e io sono ancora con la cintura allacciata nel sedile del guidatore. Tutto tace. Chissà per quanto tempo sono rimasta così. Provo a stendermi, muovo lentamente un braccio, controllo se qualcosa mi fa male. Subito, sento un dolore acuto a braccia e spalle. Non so se sono ferita, né dove, e non ho come dirlo finché penzolo a testa in giù dal sedile. Devo slacciare la cintura.
Allungo le braccia e, senza riuscire a vedere la fibbia, seguo la cinghia col tatto finché tocco qualcosa freddo e di plastica. Lo premo con il pollice. All’inizio, non va.
Premo più forte.
Dai.
Sento uno scatto improvviso. La cintura si slaccia di colpo e piombo giù, atterrando dritta sulla faccia contro il tettuccio di metallo; una caduta di mezzo metro, che peggiora di molto il mio mal di testa .
Mi ci vogliono alcuni secondi per riprendermi, e lentamente mi metto sulle ginocchia. Vedo Ben accanto a me; è ancora capovolto con la cintura allacciata. Ha la faccia coperta del sangue che gli cola lentamente dal naso, e non so dire se sia vivo o morto. Ha gli occhi chiusi, e lo prendo come un buon segno – per lo meno non sono aperti e immobili.
Controllo il ragazzo sul sedile posteriore – e subito mi dispiaccio. È steso sul fondo della macchina, con il collo girato in posizione innaturale, gli occhi aperti, non si muovono. Morto.
Mi sento responsabile. Forse avrei dovuto costringerlo a uscire dall’auto. Paradossalmente, a questo ragazzo sarebbe finita meglio con i mercanti di schiavi. Ma ormai non c’è niente che possa fare.
Vedere questo ragazzo morto aumenta la gravità dell’incidente; controllo di nuovo le ferite sul mio corpo, senza sapere dove guardare, visto che ho male dappertutto. Ma come mi giro, sento un dolore bruciante alle costole, e respirare a fondo mi fa male. Mi tocco, e vedo che quel punto è molto sensibile. Sembra che mi sia rotta un’altra costola.
Posso muovermi, ma fa un male del diavolo. Inoltre ho ancora il dolore tremendo al braccio per via della scheggia dell’incidente precedente. Ho la testa pesante, come se fosse stretta in una morsa, le orecchie che fischiano, e un mal di testa martellante che se ne va. Probabilmente ho una commozione cerebrale.
Ma adesso non ho tempo per pensarci. Devo vedere se Ben è vivo. Allungo le braccia e lo scuoto. Non risponde.
Rifletto sulla maniera migliore di farlo uscire e mi rendo conto che non esiste un modo più semplice per farlo. Tendo le braccia e premo forte il pulsante di scatto della sua cintura. La cinghia vola via e Ben piomba giù e atterra malamente sul tettuccio di metallo, cadendo di faccia. Emette versi rumorosi, e mi sento meglio: è vivo.
Se ne sta lì, raggomitolato, a gemere. Lo scuoto e lo spintono ripetutamente. Voglio svegliarlo, vedere com’è conciato. Si dimena, tuttavia non sembra completamente cosciente.
Devo tirarlo fuori da quest’auto: mi sento claustrofobica qua dentro, soprattutto dal momento che sono attaccata al ragazzo morto e ai suoi occhi che mi fissano immobili. Allungo le braccia, cercando la maniglia dello sportello. Ho la vista annebbiata, il che rende difficile trovarla, specialmente quando è tutto sottosopra. Uso due mani, tasto la porta, e alla fine la trovo. La tiro, e non succede niente. Grandioso. Lo sportello dev’essere bloccato.
Lo spingo più volte, ma ancora niente.
Allora mi faccio indietro, mi porto le ginocchia al petto, e con entrambi i piedi calcio la portiera più forte che posso. Sento un frastuono di metallo e come si apre lo sportello, una raffica di aria fredda irrompe dentro la macchina.
Rotolo fuori e mi ritrovo in un mondo di bianco. Sta nevicando di nuovo, e viene giù più forte che mai. Si sta bene a essere usciti dall'auto. Mi piego sulle ginocchia e mi alzo lentamente. Sento una botta di sangue alla testa, e per un attimo gira tutto. Piano piano, il mal di testa si affievolisce. Mi fa bene essere di nuovo in piedi e respirare aria fresca. Come provo a mettermi dritta, il dolore alle costole aumenta, e lo stesso quello al braccio. Stendo il busto e mi sento rigida, piena di lividi. Ma non sembra esserci nient’altro di rotto, e non vedo sangue. “Sono fortunata”.
Raggiungo di corsa lo sportello del passeggero, mi metto in ginocchio, e tiro forte per aprirlo. Infilo le braccia e afferro Ben dalla camicia, cercando di trascinarlo fuori. È più pesante di quanto sospettavo, e devo metterci più forza; tiro lentamente ma con decisione, e alla fine riesco a tirarlo fuori, sulla neve fresca. Cade di faccia, e questo finalmente lo sveglia. Si gira su un fianco e si scrolla la neve dalla faccia. Poi si mette carponi, apre gli occhi e fa un grosso respiro. Il sangue gli gocciola dal naso e macchia la neve bianca.
Sbatte diverse volte gli occhi, disorientato; poi si volta, solleva la testa e mi guarda – con una mano si protegge gli occhi dalla neve che cade.
“Che è successo?” farfuglia.
“Abbiamo avuto un incidente”, rispondo. “Stai bene?”.
“Non riesco a respirare”, dice con voce nasale, mettendosi le mani a coppetta sotto il naso per raccogliere il sangue. Appena si volta capisco: si è rotto il naso.
“Hai il naso rotto”, gli dico.
Mi guarda, e man mano che capisce i suoi occhi si riempiono di paura.
“Non preoccuparti”, gli dico avvicinandomi. Sollevo le mani e gliele poso sul naso. Mi ricordo di quando papà mi ha insegnato come aggiustare un naso rotto. Era sera tardi, lui era tornato a casa da una rissa al bar. Non riuscivo a crederci. Mi ha fatto guardare, dicendo che mi avrebbe fatto bene imparare qualcosa di utile. Era nel bagno, sporto sullo specchio, sollevò le mani e lo fece. Ricordo ancora quel rumore, simile a un legnetto che si spacca.
“Resisti”, gli dico.
Con mossa fulminea, sollevo le mani, e facendo una forte pressione sui due lati del naso, riesco a raddrizzarglielo. Lui urla dal dolore, e mi dispiace. Ma era quello che gli serviva per rimetterlo a posto e arrestare l’emorragia. Raccolgo un mucchietto di neve e glielo metto direttamente nelle mani; poi glielo porto fino al naso, affinché se lo tenga di sopra.
“Questo bloccherà il sangue e ridurrà il gonfiore” gli dico.
Ben si tiene sul naso il mucchietto di neve, che diventa rosso nell'arco di pochi secondi. Sposto lo sguardo.
Faccio un passo indietro e do un’occhiata alla nostra auto: è capovolta, col telaio all’aria. Le tre ruote intatte girano ancora, molto lentamente. Mi volto e guardo l’autostrada. Siamo a una trentina di metri dalla strada – dobbiamo davvero avere rotolato parecchio. Chissà che vantaggio hanno.
Non riesco a credere che siamo ancora vivi, specialmente considerata la velocità a cui andavamo. Osservando questo pezzo di autostrada, mi rendo conto che siamo stati fortunati: se fossimo caduti dall’altro lato, saremmo precipitati dal pendio. E se non ci fosse stata la neve spessa ad attutire l’urto, sono sicura che l’impatto sarebbe stato peggiore.
Osservo la nostra auto, chiedendomi se c’è modo di farla ripartire. Poco probabile. Il che significa che non troverò mai Bree, che rimarremo bloccati qua, nel mezzo del nulla, e che moriremo nel giro di qualche giorno. Non abbiamo scelta: dobbiamo trovare un modo di farla funzionare.
“La dobbiamo ribaltare” dico con improvvisa urgenza. “Dobbiamo rimetterla sulle sue ruote e vedere se funziona ancora. Mi serve il tuo aiuto”.
Lentamente, Ben recepisce quello che sto dicendo, e zoppicando corre dal mio lato. Messi uno accanto all’altro, davanti a un lato della macchina, iniziamo a spingere.
Cerchiamo di farla oscillare. Dopodiché sfruttiamo lo slancio e la spingiamo più volte. Devo fare ricorso tutte le energie che ho; i piedi iniziano a scivolare all’indietro sulla neve e sento il dolore acuto di bicipite e costole.
La macchina oscilla sempre di più, e quando inizio a sentire di non farcela, diamo un ultimo colpo. Alzo le braccia sopra la testa, e mi metto a spingere, avanzando sulla neve.
È sufficiente. L’auto raggiunge un punto critico, rimanendo in bilico su un lato, poi atterra con uno schianto su tutte e quattro ruote. Si alza un’enorme nuvola di neve. Sia io che Ben rimaniamo col fiato sospeso.
Controllo lo stato della macchina. È ampiamente danneggiata. Cofano, tettuccio e portabagagli sembrano essere stati presi a martellate. Ma sorprendentemente, la struttura è ancora integra. C’è però un problema evidente. Una delle gomme – quella a cui hanno sparato – è in pessime condizioni ed è impossibile guidare così.
“Forse ce n’è una di scorta”, dice Ben, leggendomi nel pensiero. Lo guardo e sta già correndo verso il portabagagli. Impressionante.
Accorro anch’io. Preme il bottone diverse volte, ma non si apre.
“Attenzione”, gli dico. Lui fa un passo indietro, mentre io alzo il ginocchio e colpisco forte col tallone. Il portabagagli si apre di scatto.
Mi sento rinfrancata nel vedere una ruota di scorta messa lì. Ben s’infila e l’afferra, io tolgo la copertura e sotto vi trovo cric e chiave. Li prendo e seguo Ben, che sta portando la ruota verso il muso dell’auto. Senza perdere un secondo, Ben prende il cric e lo piazza sotto il telaio, poi prende la chiave e inizia a girare la manovella. Sono impressionato dalla confidenza che ha con gli attrezzi e dalla rapidità con cui sta sollevando l’auto. Toglie tutti i bulloni, tira via la ruota inutilizzabile e la getta sulla neve.
Monta la gomma nuova, e gliela tengo ferma mentre rimette a uno a uno i bulloni. Li stringe, poi cala l’automobile. Facciamo un passo indietro e come alziamo lo sguardo l'impressione è quella di una gomma nuova di zecca. L'abilità da meccanico di Ben mi ha sorpreso; non me lo sarei mai aspettata da lui.
Non perdo tempo e apro lo sportello del guidatore, salto in auto, e giro le chiavi. Ma mi gela il sangue non appena sento il silenzio. L’auto è morta. Provo e riprovo a metterla in moto. Ma niente. Completamente niente. A quanto pare l’incidente l’ha messa ko. Sento insediarsi un senso di disperazione. È sato tutto inutile?
“Apri il cofano”, dice Ben.
Tiro la leva. Ben corre verso la parte anteriore dell’auto; scendo e lo raggiungo. Si sporge sul cofano e inizia ad armeggiare con dei cavi. Non m’aspettavo tanta destrezza.
“Sei un meccanico?” gli chiedo.
“Non proprio”, risponde. “Mio papà lo è. Mi ha insegnato tante cose, quando avevamo le macchine”.
Unisce due fili e viene fuori una scintilla. “Prova ora” dice.
Rientro di corsa e giro le chiavi, sperando, pregando. Stavolta, l’auto romba.
Ben sbatte il cofano, e vedo un sorriso di soddisfazione sulla faccia che inizia a gonfiarsi per via del naso rotto. Torna di corsa e apre il suo sportello. Sta per rientrare, quando all'improvviso si blocca e fissa il sedile posteriore.
Seguo il suo sguardo, e mi ricordo. Il ragazzo nel retro.
“Cosa dobbiamo fare con lui?” chiede Ben.
Non abbiamo altro tempo da perdere. Scendo, vado dietro ed estraggo il ragazzo il più delicatamente possibile, cercando di non guardare. Lo trascino sulla neve per diversi metri, fino a un grande albero, e lo stendo là sotto. Lo guardo un attimo, poi mi volto e ritorno di corsa all’auto.
Ben è ancora là in piedi.
“Tutto qua?” chiede con tono di rimprovero.
“Cosa t’aspettavi?” Gli ribatto malamente. “Un servizio funebre?”
“È solo che sembra un po’… indelicato” dice. “È morto per causa nostra”.
“Non abbiamo tempo per questo”, gli dico esasperata. “Moriremo tutti comunque!”.
Risalto nella macchina in moto, col pensiero fisso a Bree, a quanto sono andati lontano gli altri mercanti di schiavi. Mentre Ben sta ancora chiudendo lo sportello, apro tutto il gas.
L’auto vola sul campo innevato, risalendo lo scosceso pendio, e torniamo sull’autostrada con un tonfo. Dapprima pattiniamo, poi troviamo aderenza. Siamo di nuovo in corsa.
Do gas, e iniziamo a prendere velocità. Sono stupefatta: quest’auto è invincibile. Va come se fosse nuova.
In un niente, stiamo andando sopra i 160. Sono traumatizzata dall’incidente e stavolta sono un po’ più prudente. La porto fino a 180, ma non vado oltre. Non posso rischiare di uscire nuovamente di strada.
Loro avranno probabilmente dieci minuti di vantaggio, e potremmo non riuscire a riprenderli. Ma tutto può succedere. Quello che mi serve è che loro prendano una buca, che gli capiti un contrattempo… Altrimenti, dovrò seguire le loro tracce.
“Dobbiamo trovarli prima che raggiungano la città”, dice Ben, quasi leggendomi nel pensiero. Lo dice con un modo di fare fastidioso. “Se ci arrivano prima di noi, non li ritroveremo mai”.
“Lo so”, rispondo.
“E se entriamo in città, non ce la faremo mai. Lo sai questo, vero?”.
Nella mia testa c’è lo stesso identico pensiero. Ha ragione lui. Da tutto quello che ho sentito, la città è una trappola mortale, piena zeppa di predoni. Non siamo abbastanza ben equipaggiati per metterci a combattere.
Accelero, dando un po’ più gas. Il motore romba, e stiamo ormai andando a 190. La neve – non ha rallentato – rimbalza sul parabrezza. Penso al ragazzo morto, rivedo la sua faccia, i suoi occhi immobili; ripenso a quanto ci siamo andati vicini anche noi, e una parte di me vuole rallentare. Ma non ho scelta.
Mentre guidiamo il tempo sembra avanzare lentamente. Guidiamo per quaranta chilometri, poi cinquanta, poi sessanta… e ancora e ancora, sempre nella neve. Afferro il volante con tutt’e due le mani, mi sporgo in avanti e scruto la strada più attentamente di quanto abbia mai fatto in vita mia. Svolto bruscamente a destra e a sinistra per evitare le buche, come in un videogioco. E non è facile da fare a questa velocità e in mezzo alla neve. Riesco comunque a evitarle quasi tutte. Una o due no, e ne paghiamo caro il prezzo: la testa finisce sul tettuccio e i denti sbattono nuovamente fra loro. Ma non importa, vado avanti.
Mentre facciamo la curva, scorgo in lontananza qualcosa che mi preoccupa: le tracce dell’auto dei mercanti di schiavi sembrano uscire dalla strada e andare verso un campo. Non ha senso, e mi chiedo se sto vedendo bene, specie con questa tormenta.
Ma più ci avviciniamo, più ne sono certa. Rallento clamorosamente.
“Che fai?” chiede Ben.
Il mio sesto senso mi dice di rallentare, e come ci avviciniamo sono lieta di averlo fatto.
Schiaccio i freni, e fortunatamente sto andando solo a 80. Pattiniamo per circa 20 metri, e alla fine ci fermiamo.
Giusto in tempo. L’autostrada termina bruscamente in un enorme cratere, che sembra finire al centro della terra. Se non mi fossi fermata, ora saremmo sicuramente morti.
Guardo in giù, oltre l’orlo del precipizio. È un cratere imponente, largo probabilmente cento metri. È come se durante la guerra a un certo punto avessero sganciato un’enorme bomba sull’autostrada.
Giro le ruote e seguo le tracce dei mercanti di schiavi, che portano prima su un campo innevato, poi per tortuose stradine di campagna. Dopo diversi minuti, rieccoci in autostrada. Riprendo velocità: stavolta arrivo fino a 210.
Guido, guido, guido, e mi sembra di stare andando dall’altra parte del mondo. Passano probabilmente altri 65 chilometri e inizio a chiedermi quanto è lunga quest’autostrada. Il cielo nevoso inizia a farsi scuro, e presto sarà notte. Sento che devo accelerare e porto l’auto a 225. So che è rischioso, ma devo riprenderli.
Superiamo i vecchi segnali arrugginiti delle principali arterie, ancora agibili: la Sawmill Parkway; la Major Deegan; la 287; la Sprain…. La Taconic si biforca e confluisce nella Sprain Parkway, poi nella Bronx River Parkway: sempre dietro alle tracce dei mercanti di schiavi. Ormai ci stiamo avvicinando alla città, il cielo aperto viene gradualmente rimpiazzato da alti edifici sgretolati. Siamo nel Bronx.
Sento il bisogno di riprenderli e spingo l’auto fino a 240. Fa tanto di quel rumore che ci sento a malapena.
Mentre facciamo un’altra curva, il cuore mi si fa piccolo piccolo: li vedo, là in lontananza, a poco più di un chilometro.
“Sono loro!” urla Ben.
Ma man mano che riduciamo il divario, mi rendo conto di dove sono diretti. Un cartello storto recita “Willis Avenue Bridge”. È un piccolo ponte, rivestito da travi di metallo, largo a malapena due corsie. All’ingresso ci sono diversi Humvee, con mercanti di schiavi seduti sul cofano, e mitragliatrici sopra puntate verso la strada. Ci sono altri Humvee dall’altro lato del ponte.
Accelero, schiacciando al massimo il pedale del gas, e raggiungiamo i 240. Il mondo fuori diventa una massa indistinta. Ma non stiamo recuperando: anche i mercanti di schiavi stanno accelerando.
“Non possiamo seguirli dentro!” urla Ben. “Non ce la faremo mai!”.
Ma non abbiamo scelta. Hanno almeno un centinaio di metri di vantaggio, e il ponte disterà da loro altri cento metri. Non riusciremo ad arrivare lì prima di loro. Sto facendo tutto il possibile, e l’auto vibra per la velocità. Non abbiamo alternative: dovremo entrare in città.
Mentre ci avviciniamo al ponte, mi domando se le guardie si accorgeranno che non siamo dei loro. Spero solo di passare abbastanza veloci, senza dargli il tempo di capire e iniziare a spararci di sopra.
L’auto dei mercanti di schiavi vola tra le guardie e corre sul ponte. Noi siamo subito dietro, a una cinquantina di metri, e ancora le guardie non si sono accorte di niente. Siamo a trenta metri… poi 20… poi 10.
Attraversiamo l’entrata: siamo abbastanza vicini da vedere l’espressione terrorizzata sui volti delle guardie. Adesso se ne sono accorti.
Guardo e vedo le guardie puntare le mitragliatrici nella nostra direzione.
Un secondo dopo, arrivano i colpi.
Ci ritroviamo sotto il fuoco della mitragliatrice automatica, che si abbatte sul cofano e sul parabrezza, sparpagliando proiettili ovunque. Mi abbasso.
Peggio, qualcosa inizia ad abbassarsi e a bloccarci la strada: è un cancello di ferro con spuntoni. Lo stanno calando sul ponte, per bloccarci l’ingresso a Manhattan.
Stiamo andando troppo veloce, e non c’è modo di fermarsi in tempo. Il cancello sta calando troppo rapidamente, e troppo tardi mi rendo conto che fra qualche istante ci andremo a schiantare, e che la nostra auto finirà in pezzi.
Mi preparo all’impatto.
UNDICI
Il cancello sta scendendo e sto per finirci addosso. Ormai è troppo tardi per tornare indietro, e troppo tardi per schiacciare i freni. Dall’aspetto di quelle pesanti barre di ferro rinforzate, con gli spuntoni all’estremità, non vedo come mai potremmo sfondarlo. A questo punto la nostra unica possibilità è essere più veloci del cancello e scivolargli sotto prima che sia calato completamente. Allora accelero, e la macchina romba e vibra. Quando siamo ormai a pochi passi dal cancello, le guardie saltano via dalla strada, e sono pronta all’impatto.
Sento un tremendo rumore di metallo che si scontra con altro metallo, e insieme quello del vetro che si rompe. È assordante, come se una bomba mi fosse esplosa proprio dietro le orecchie. È lo stesso suono che fanno quegli enormi compattatori d’automobili quando schiacciano una macchina fino a renderla piatta.
L’auto sobbalza violentemente all’impatto, e per un attimo penso di stare per morire. C’è vetro in frantumi ovunque, e faccio del mio meglio per tenere dritto il volante mentre mi porto la mano sugli occhi. Un secondo dopo, è tutto finito. Nonostante il mio shock, la macchina sta andando avanti, e fila sul ponte, all’interno di Manhattan.
Cerco di capire cos’è successo. Guardo il tettuccio, mi guardo dietro, e mi rendo conto che abbiamo superato le sbarre – che però erano riusciti a calare abbastanza da perforare il tettuccio, facendolo in pezzi. Sembra che sia passato sotto un’affettatrice. Se n’è andata anche la parte superiore del parabrezza, che ora è incrinato quanto basta per compromettermi la visibilità. Posso ancora guidare, ma non è facile.
Dappertutto è pieno di vetro in frantumi e pezzi di metallo. Dentro soffia un’aria gelida e fiocchi di neve mi si posano in testa.
Guardo e vedo Ben scosso, ma incolume. L’ho visto abbassarsi all’ultimo secondo, proprio come ho fatto io, e questo gli ha probabilmente salvato la vita. Mi guardo alle spalle e vedo un gruppo di guardie radunarsi in fretta e seguirci; ma il cancello di ferro è tutto giù, e non sembrano in grado di risollevarlo. Stiamo andando molto veloce, e abbiamo comunque un grande vantaggio su di loro. Fortunatamente, nel tempo che loro si organizzano noi saremo già lontani.
Ritorno sulla strada e in lontananza, forse un quarto di miglio, vedo gli altri mercanti di schiavi che procedono spediti per Manhattan. Abbiamo superato il punto di non ritorno. A stento riesco a credere che ci troviamo sull’isola di Manhattan, che abbiamo davvero attraversato il ponte – probabilmente l’unico ponte ancora utilizzabile per entrare o uscire di qua. Non esiste via di ritorno.
Prima di arrivare a questo ponte, avevo immaginato di salvare Bree e portarla a casa. Ma ora, non sono più così sicura. Sono ancora intenzionata a salvarla – ma non sono sicura di come fare per andarcene di qua. Sento crescere un senso di terrore. Sta sempre più diventando una missione senza ritorno. Una missione suicida. Ma Bree è l’unica cosa che importa. Se morirò provandoci, allora così sarà.
Do nuovamente gas e supero i 220. Ma anche i mercanti di schiavi accelerano, nel tentativo di seminarci. Hanno un discreto vantaggio e a meno che non gli vada storto qualcosa, raggiungerli non sarà facile. Chissà qual’è la loro destinazione. Manhattan è vasta, e potrebbero stare andando ovunque. Mi sento come Hansel e Gretel che vagano nel bosco.
I mercanti di schiavi girano bruscamente a destra in un largo viale, butto un occhio e vedo un cartello arrugginito con su scritto “125esima”. Li seguo, e mi accorgo che si stanno dirigendo a ovest, tagliando la città. Mi guardo attorno e mi accorgo che la 125esima è una specie di cartolina dell’apocalisse: ovunque ci sono automobili abbandonate, bruciate, parcheggiate di traverso nel mezzo della strada. Ogni pezzo è stato smontato e recuperato. Gli edifici sono tutti stati saccheggiati e i negozi fracassati, ridotti a cumuli di vetro sui marciapiedi. Molti palazzi sembrano gusci svuotati, carbonizzati dal bombardamento. Altri sono crollati. Mentre guido, devo fare lo slalom tra i vari cumuli di macerie. Inutile dirlo, non ci sono segni di vita.
I mercanti di schiavi fanno una brusca curva a sinistra, e mentre li seguo noto un segnale capovolto che recita “Malcolm X Boulevard”. È un altro vialone, va in direzione sud, proprio verso il cuore di Harlem. Il centro. Chissà dove sono diretti. Svoltiamo così velocemente che le gomme stridono, il copertone brucia, e il rumore è più forte che mai ora che non abbiamo più il tettuccio sano. C’è ancora neve sulle strade, e l’auto scivola per una buona decina di piedi prima di raddrizzarsi. Prendo la curva più velocemente dei mercanti di schiavi e guadagno un paio di secondi.
Malcolm X Boulevard è messa male quanto la 125esima: distruzione dappertutto. Ma qui c’è anche dell’altro: carri armati e veicoli abbandonati. Scorgo un Humvee, girato su un lato, ridotto a un rottame, e mi chiedo quali battaglie hanno avuto luogo qua. Un’enorme statua di bronzo giace su un lato, nel mezzo della strada. Ci giro attorno, poi attorno a un carro armato, salgo sul marciapiede e sradico una cassetta postale con un gran botto. La cassetta ci vola sopra il tettuccio, e Ben si deve abbassare.
Ritorno sulla strada e accelero. Mi sto avvicinando. Ormai sono a soli cento metri. Anche loro procedono in slalom per evitare detriti, buche, e rottami d’auto. Ogni volta devono rallentare, mentre tutto quello che devo fare io è seguire le loro tracce; in questo modo riesco a mantenere velocità. Sto guadagnando su di loro, e inizio a pensare che posso prenderli.
“Prendigli le gomme!” grido a Ben, cercando di superare il rombo del motore. Prendo dalla cintura la pistola in più, tendo un braccio e l’allungo a Ben sfiorandogli il fianco, senza togliere gli occhi dalla strada.
Ben prende la pistola, la osserva: è chiaro che non ne ha mai usata una. Riesco a percepire la sua ansia.
“Mira in basso!” gli dico. “Assicurati di non prendere il serbatoio!”.
“Non sono un buon tiratore!” dice Ben. “Potrei colpire mio fratello. O tua sorella” mi urla.
“Tu mira in basso!” grido. “Dobbiamo tentare. Dobbiamo fermarli!”.
Ben deglutisce rumorosamente mentre stende la mano e apre il finestrino. Sento entrare tremendo rumore e aria freddissima irrompe nell’auto. Ben si sporge fuori dal finestrino con in mano la pistola.
Gli siamo sempre più vicini, e Ben sta iniziando a prendere la mira – quando improvvisamente colpiamo una grossa buca. Saltiamo tutt’e due per aria, e sbatto la testa sul soffitto. Vedo la pistola volare via dalla mano di Ben, fuori dal finestrino – poi la sento sbattere non appena tocca il suolo dietro di noi. Mi si gela il sangue. Non posso credere che abbia fatto cadere la pistola. Sono furiosa.
“Hai perso la nostra pistola!” gli grido.
“Mi dispiace” grida per risposta. “Tu hai preso quella buca! Perché non hai guardato la strada?”.
“Perché non l’hai tenuta con due mani?” gli grido io. “Hai appena perso la nostra unica chance!”.
“Ti puoi fermare e tornare indietro a prenderla” mi dice.
“Non c’è tempo!” gli chiedo bruscamente.
La faccia mi diventa rossa. Inizio a pensare che Ben sia completamente inutile, e mi pento di averlo portato. Mi sforzo di pensare a come ha riparato l’auto, come mi ha salvata col peso del suo corpo, sul ponte. Ma è difficile. Ora come ora, sono solo furiosa. Mi chiedo se posso fidarmi di lui per una qualsiasi cosa.
Infilo le mani nella fondina, tiro fuori la pistola, e gliela passo di lato.
“Questa è la mia” gli dico. “Falla cadere, e butto fuori te”.
Ben la tiene stretta, con entrambe le mani, e si sporge nuovamente dal finestrino. Prende la mira.
Ma proprio in quel momento appare un parco, e i mercanti di schiavi vi scompaiono dentro.
Non ci posso credere. Dritto davanti a noi c’è Central Park, riconoscibile da un enorme albero caduto che ostruisce il cammino. I mercanti di schiavi vi girano attorno ed entrano nel parco, e all’ultimo secondo, lo faccio anch’io. Ben rientra in auto, ha perso la chance – ma almeno ha ancora la pistola.
Central Park non è per niente come lo ricordavo. Ricoperto di erbaccia alta che spunta dalla neve, è stato lasciato selvaggio in questi ultimi anni, e ora sembra una foresta. Gli alberi sono caduti in maniera irregolare in posti diversi. Le panchine sono vuote. Le statue sono frantumate o crollate, cadute di lato. Ci sono anche segni di battaglia: carri armati e Humvee carbonizzati, capovolti, giacciono in ogni punto del parco. Il tutto imbiancato dalla neve, che gli dà quel senso surreale di paese invernale fatato.
Provo a staccare gli occhi da tutto questo, e di concentrarmi sui mercanti di schiavi che ho davanti. Devono sapere dove stanno andando, visto che sono su una strada tutta curve che taglia il parco. Li seguo da vicino mentre vanno avanti a zigzag. Alla nostra destra, vicino alla 110ima, superiamo i resti di un grande laghetto vuoto. Poco dopo, superiamo le rovine di una pista di pattinaggio, che oramai è solo un posto sventrato, col piccolo fabbricato razziato e distrutto.
Fanno una curva brusca verso una piccola stradina, che in realtà è poco più di un sentiero. Ma sono sempre dietro a loro. Procediamo verso il cuore della fitta foresta, evitando gli alberi per un pelo, su e giù per salite e discese. Non mi ero mai resa conto che Central Park fosse così primitivo. Non si riesce a vedere il cielo: sembra davvero di essere nella foresta.
L’auto sbanda sulla strada innevata in terra battuta, ma riesco a stargli dietro. Nel giro di poco tempo raggiungiamo l’ampia cima di un pendio; tutto attorno si estende il parco. Voliamo oltre la cima, rimanendo in aria per qualche secondo finché non riatterriamo con un botto. Loro corrono giù per la collina, e io gli sto proprio dietro, a sempre meno distanza.
Passiamo per quelli che una volta erano imponenti campi da baseball. Uno dopo l’altro, guidiamo giù verso il centro dei campi. Le basi non ci sono più – o se ci sono, sono nascoste dalla neve, ma riesco ancora a individuare la recinzione metallica arrugginita che un tempo delimitava le panchine. È un campo innevato, e l’auto sbanda mentre li seguiamo. Ci stiamo decisamente avvicinando, ora siamo a 30 metri. Mi domando se il loro motore abbia avuto dei problemi, o se stanno rallentando apposta. In tutti i casi, questa è la nostra chance.
“Che cosa stai aspettando!?” Grido a Ben. “Spara!”
Ben apre il finestrino e si sporge, impugnando la pistola con entrambe le mani e prendendo la mira.
Inaspettatamente, i mercanti di schiavi girano di colpo a sinistra, sterzando bruscamente. Ed è allora che realizzo perché hanno rallentato: dritto davanti a me c’è un laghetto mezzo ghiacciato. Hanno rallentato per tenderci una trappola; speravano che finissi dritta in acqua.
Giro il volante con forza, e riusciamo a evitare di volare in acqua. Ma la curva è stata troppo brusca e veloce, e l’auto si mette a girare in testacoda nel campo di neve. Mi sento stordita mentre il mondo gira tutto in tondo in una chiazza sfuocata, e spero che non ci schiantiamo contro niente.
Fortunatamente, non succede. Attorno a noi non c’è alcun tipo di struttura – se c’era, ci avremmo sicuramente sbattuto. Invece, dopo diversi 360, smettiamo finalmente di girare. Rimango un attimo seduta un momento, la macchina ferma, e respiro profondamente. Ce la siamo cavata per un pelo.
Questi mercanti di schiavi sono più furbi di quello che pensavo. È stata una mossa audace da parte loro e devono conoscer bene questo territorio. Sanno esattamente dove stanno andando. Chissà se qualcun altro è mai riuscito a seguirli tanto lontano quanto noi. Mi guardo accanto e vedo che Ben è riuscito a tenere stretta la pistola stavolta; un altro colpo di fortuna. Mi chiarisco le idee, rimetto la marcia, e do gas.