Kitabı oku: «Il Peso dell’Onore », sayfa 4
Marco gli sorrise.
“Non più,” rispose.
“Voi ragazzi siete pronti a lavorare?” chiese. Quindi guardò Alec. “E qui chi abbiamo?”
“Un mio amico,” rispose Marco. “Alec. Un bravo fabbro, e felice di unirsi alla nostra causa.”
“Davvero?” chiese Fervil scetticamente.
Guardò Alec con occhi duri, squadrandolo dalla testa ai piedi come se fosse inutile.
“Ne dubito,” rispose, “dal suo aspetto. Mi sembra tremendamente giovane. Ma possiamo metterlo a lavorare raccogliendo i nostri scarti. Prendi questo,” disse porgendogli un secchio pieno di pezzetti di metallo. “Ti farò sapere se mi serve altro da te.”
Alec arrossì indignato. Non sapeva perché non piacesse a quell’uomo, forse si sentiva minacciato. Sentì che nella forgia calava il silenzio, sentì tutti gli altri ragazzi che lo guardavano. In molti modi questo gli fece ricordare suo padre, e questo non poté che accrescere la sua rabbia.
Si sentì ribollire dentro non volendo più tollerare, dopo la morte della sua famiglia, tutto ciò che aveva sopportato prima.
Mentre gli altri si voltavano per allontanarsi, Alec lasciò cadere il secchio di rifiuti che sbatté sonoramente sul pavimento di pietra. Gli altri si girarono stupiti e di nuovo calò il silenzio mentre tutti si fermavano per osservare il confronto.
“Vattene dalla mia bottega!” ringhiò Fervil.
Alec lo ignorò. Gli passò invece oltre portandosi al tavolo più vicino, raccolse una spada lunga, la sollevò e la esaminò.
“È un tuo lavoro?” chiese.
“E tu chi sei per permetterti di farmi domande?” chiese Fervil.
“Si o no?” insistette Marco portandosi dalla parte dell’amico.
“Sì, è mia,” rispose Fervil sulla difensiva.
Alec annuì.
“È una schifezza,” concluse.
Nella stanza si udì un sussulto.
Fervil si alzò in tutta la sua altezza guardandolo con espressione accigliata e livida.
“Voi ragazzi ora potete andare,” ringhiò. “Tutti. Ho abbastanza fabbri qui.”
Alec rimase al suo posto.
“E nessuno vale niente,” ribatté.
Fervil arrossì e si fece avanti con fare minaccioso. Marco mise una mano tra loro.
“Ce ne andiamo,” disse.
Alec improvvisamente abbassò la punta della spada a terra, sollevò un piede e con un colpo la spezzò a metà.
Le schegge volarono ovunque lasciando tutti di stucco.
“Una buona spada dovrebbe fare così?” chiese Alec con un sorriso ironico.
Fervil gridò e si lanciò addosso ad Alec, ma quando gli fu vicino lui sollevò l’estremità appuntita della lama spezzata e lui si fermò di scatto.
Gli altri ragazzi, vedendo il confronto, sguainarono le spade e accorsero per difendere Fervil, mentre Marco e i suoi amici si mettevano dalla parte di Alec. Tutti i ragazzi erano ora lì in posizione, uno di fronte all’altro in un teso momento di stallo.
“Cosa stai facendo?” chiese Marco ad Alec. “Condividiamo tutti la stessa causa. Questa è una follia.”
“È proprio per questo che non posso lasciarli combattere con della robaccia,” rispose Alec.
Alec lanciò a terra la spada rotta e lentamente sguainò una spada lunga dalla sua cintura.
“Questa l’ho fatta io,” disse a voce alta. “L’ho plasmata con le mie mani nella forgia di mio padre. Un lavoro la cui fattura non vedrai mai in giro.”
Alec girò improvvisamente la spada, afferrò la lama e la porse dalla parte dell’elsa verso Fervil.
In un teso silenzio Fervil abbassò lo sguardo, chiaramente non aspettandosi un gesto del genere. Afferrò l’elsa lasciando Alec indifeso e per in momento sembrò stesse pensando a colpire Alec con essa.
Ma Alec rimase fermo, fiero e privo di paura.
Lentamente il volto di Fervil si ammorbidì, chiaramente rendendosi conto che Alec si era reso indifeso e guardandolo ora con maggiore rispetto. Abbassò lo sguardo ed esaminò la spada. La soppesò tra le mani e la sollevò alla luce. Alla fine, dopo un lungo tempo, guardò nuovamente Alec, impressionato.
“Lavoro tuo?” chiese con voce incredula.
Alec annuì.
“E posso forgiarne molte altre,” rispose.
Si avvicinò e guardò Fervil con sguardo intenso.
“Voglio uccidere i Pandesiani,” aggiunse. “E voglio farlo con armi vere.”
Nella stanza c’era ora un denso silenzio. Alla fine Fervil scosse lentamente la testa e sorrise.
Abbassò la spada e allungò una mano, che Alec afferrò. Lentamente tutti i ragazzi abbassarono le loro armi.
“Suppongo,” disse Fervil con un largo sorriso, “che possiamo trovarti un posticino.”
CAPITOLO OTTO
Aidan camminava lungo la strada nel mezzo della foresta, allontanandosi quanto non aveva mai fatto, sentendosi completamente solo al mondo. Se non fosse stato per il suo cane selvatico che lo accompagnava, sarebbe stato disperato, privo di speranza. Ma Bianco gli dava forza, anche seriamente ferito com’era. Aidan gli accarezzava la corta pelliccia bianca. Entrambi zoppicavano, entrambi acciaccati dopo l’incontro con quel selvaggio conduttore del carro. Ogni passo che facevano provocava loro dolore mentre il cielo si faceva più buio. A ogni passo claudicante che Aidan faceva, giurava che se mai avesse posato di nuovo gli occhi su quell’uomo lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
Bianco mugolava accanto a lui e Aidan allungò una mano per accarezzargli la testa. Il cane era alto quasi quanto lui, più una bestia selvatica che un cane. Aidan gli era grato non solo per la sua compagnia, ma anche per il fatto che gli aveva salvato la vita. Aveva salvato Bianco perché qualcosa dentro di lui non gli avrebbe permesso di voltargli le spalle e andarsene, e in cambio aveva ricevuto in ricompensa la sua vita stessa. Avrebbe rifatto tutto di nuovo, anche se sapeva che questo significava trovarsi ora piantato là fuori, nel mezzo del nulla, alle prese con fame e morte. Nonostante tutto ne valeva la pena.
Bianco piagnucolò ancora e anche Aidan iniziò a sentire le fitte allo stomaco per la fame.
“Lo so, Bianco,” gli disse. “Anche io ho fame.”
Aidan abbassò lo sguardo per osservare le ferite di Bianco, ancora fresche di sangue, e scosse la testa sentendosi orribile e inutile.
“Farei qualsiasi cosa per aiutarti,” disse. “Mi piacerebbe sapere come.”
Si chinò e lo baciò sulla testa, tra il pelo morbido. Bianco chinò la testa contro la sua. Era l’abbraccio di due individui che percorrevano insieme un cammino di morte. I versi di creature selvagge si levarono producendo una vera e propria cacofonia nella foresta che si faceva più buia e Aidan sentì che le sue piccole gambe gli facevano male, sentì di non poter andare molto oltre, sentì che sarebbero morti lì. Erano ancora distanti intere giornate da qualsiasi posto e con la notte che calava si trovavano ad essere vulnerabili. Bianco, ferito com’era, non era in forma per combattere contro niente e Aidan, disarmato e ferito, non era certo da meglio. Non passavano carri da ore e Aidan sospettava che non l’avrebbero fatto per giorni.
Aidan pensò a suo padre che si trovava là fuori da qualche parte e sentiva di averlo tradito. Se stava per morire, sperava almeno di poterlo fare da qualche parte al fianco di suo padre, combattendo per una buona causa. Oppure a casa, nel conforto di Volis. Non lì da solo, nel mezzo del nulla. Ogni passo sembrava trascinarlo più vicino alla morte.
Aidan rifletteva sulla sua breve vita fino a quel momento, considerando tutte le persone che aveva conosciuto e amato, suo padre e i suoi fratelli, e soprattutto sua sorella Kyra. Pensò a lei, si chiese dove fosse in quel preciso momento, se avesse attraversato Escalon, se fosse sopravvissuta al viaggio verso Ur. Si chiedeva se lei mai pensasse a lui, se sarebbe stata fiera di lui in quel momento, mentre lui cercava così assiduamente di seguire i suoi passi, anche lui nel tentativo di attraversare Escalon per la sua strada, per aiutare suo padre e la sua causa. Si chiese se avrebbe mai vissuto abbastanza per diventare un grande guerriero e provò una profonda tristezza al pensiero di non rivederla mai più.
Aidan si sentiva sprofondare a ogni passo che faceva e non c’era molto che potesse fare eccetto cedere alle sue ferite e all’estrema stanchezza. Procedendo sempre più lentamente guardò versò Bianco e vide che anche lui trascinava le zampe. Presto avrebbero dovuto sdraiarsi e riposare su quella strada, andasse come andasse. Era un’idea spaventosa.
Aidan pensò di aver udito qualcosa, inizialmente debole. Si fermò e tese l’orecchio mentre anche Bianco si immobilizzava guardandolo con espressione interrogativa. Aidan sperava e pregava. Aveva le traveggole?
Poi lo sentì di nuovo. Questa volta ne era certo. Un cigolio di ruote. Di legno. Di ferro. Era un carro.
Aidan si voltò con il cuore che perse quasi un battito mentre strizzava gli occhi per vedere nella penombra. Poi, lentamente e con sicurezza, vide qualcosa apparire alla vista. Un carro. Numerosi carri.
Aidan sentì il cuore battergli nella gola rendendolo quasi incapace di contenere l’eccitazione mentre percepiva il tremito, sentiva i cavalli, vedeva la carovana dirigersi verso di lui. Ma poi l’eccitazione si smussò chiedendosi se si trattasse di persone ostili. Dopotutto chi altri poteva essere in viaggio in quel tratto di strada desolata, così lontano da tutto? Lui non poteva combattere e neanche Bianco, che ringhiava sommessamente, aveva tanta forza dalla sua parte. Si trovavano alla mercé di chiunque si stesse avvicinando. Era un pensiero spaventoso.
Il rumore si fece assordante mentre i carri si avvicinavano e Aidan rimase coraggiosamente al centro della strada, rendendosi conto di non potersi nascondere. Doveva approfittare dell’occasione. Gli parve di sentire della musica man mano che si avvicinavano e questo accrebbe la sua curiosità. Poi acquistarono velocità e per un momento pensò che lo avrebbero travolto.
Ma improvvisamente l’intera carovana rallentò e gli si fermò davanti, dato che lui bloccava il passaggio. Lo fissarono mentre la polvere volteggiava attorno a loro. Era un grosso gruppo, forse cinquanta persone, e Aidan sbatté le palpebre sorpreso di vedere che non si trattava di soldati. Si rese anche conto con un sospiro di sollievo che non sembravano essere ostili. Notò che i carri erano pieni di ogni genere di persone: uomini e donne di diverse età. Uno sembrava essere pieno di musicanti che tenevano vari strumenti; un altro di uomini che avevano l’aspetto di giocolieri o commedianti, i volti dipinti di colori brillanti e con indosso pantaloni e tuniche colorati. In un altro carro sembravano esserci degli attori, uomini che tenevano dei rotoli di carta e che stavano chiaramente ripassando i copioni con indosso dei costumi teatrali. In un altro ancora c’erano delle donne poco vestite e molto truccate.
Aidan arrossì e distolse lo sguardo capendo di essere troppo giovane per guardare cose del genere.
“Tu, ragazzino!” gridò una voce. Era un uomo con la barba molto lunga e rossa che gli arrivava alla vita, un uomo particolare dal sorriso amichevole.
“È tua questa strada?” gli chiese scherzosamente.
Da tutti i carri si levarono le risa e Aidan arrossì ancor più.
“Chi siete?” chiese Aidan sorpreso.
“Penso che la domanda più opportuna sia,” rispose l’uomo, “chi sei tu?” Guardarono intimoriti Bianco che ringhiava. “E cosa diavolo ci fai con un cane selvatico. Non sai che ammazzano la gente?” chiesero con paura nella voce.
“Non questo,” rispose Aidan. “Siete tutti… artisti?” chiese ancora curioso, chiedendosi cosa ci stessero facendo tutti lì.
“Una parola graziosa!” gridò qualcuno da un carro con una roca risata.
“Siamo attori, suonatori, giocolieri, giocatori d’azzardo, musici e clown!” esclamò un altro uomo.
“E bugiardi, canaglie e puttane!” gridò una donna facendo ridere tutti di nuovo.
Qualcuno strimpellò un’arpa mentre le risa salivano e Aidan arrossiva nuovamente. Un ricordo gli tornò alla mente di quando una volta aveva incontrato gente del genere, da piccolo, quando ancora vivevano ad Andros. Si ricordò di aver visto degli artisti entrare a fiumi nella capitale per intrattenere il re. Ricordava i loro volti colorati e vivaci, i coltelli che volavano, un uomo che mangiava il fuoco, una donna che cantava, un bardo che recitava poemi. Ricordi che sembravano durare per ore. Ricordava di essere rimasto confuso al pensiero di come qualcuno potesse scegliere una vita del genere e non voler fare il guerriero.
Gli si accesero gli occhi quando improvvisamente capì.
“Andros!” gridò. “State andando ad Andros!”
Un uomo balzò giù da un carro e gli si avvicinò. Era un uomo grande e grosso di forse quarant’anni, con la pancia prominente, la barba marrone spettinata, in sintonia con i capelli ugualmente arruffati. Sorrideva in maniera calorosa. Gli si fece vicino e mise un braccio paterno attorno alle spalle.
“Sei troppo piccolo per startene qua fuori,” disse. “Direi che ti sei perso, ma dalle ferite che avete te e quel cane, oserei dire che c’è dell’altro. Pare che tu ti sia messo in qualche pasticcio e ti ci sia trovato troppo invischiato, sbaglio?” concluse osservando Bianco con cautela. “E aggiungerei che è qualcosa che ha a che fare con l’aver aiutato questa bestia.”
Aidan rimase in silenzio, non sapendo quanto dire mentre, con sua grande sorpresa, Bianco si avvicinava e leccava la mano dell’uomo.
“Il mio nome è Motley,” aggiunse l’uomo allungando una mano.
Aidan lo guardò con circospezione. Non gli strinse la mano ma fece un cenno con la testa.
“E il mio è Aidan,” rispose.
“Voi due potete starvene qua fuori a morire di fame,” continuò Motley, “ma non è un modo molto divertente di morire. Io almeno vorrei prima avere qualcosa di buono da mangiare per poi morire in qualche altro modo.”
Tutti nel gruppo si misero a ridere mentre Motley continuava a tenere la mano tesa, guardando Aidan con cortesia e compassione.
“Direi che voi due, feriti come siete, avete bisogno di una mano,” aggiunse.
Aidan rimase fermo e impettito, non volendo mostrare debolezza, proprio come suo padre gli aveva insegnato.
“Stiamo benissimo,” disse.
Motley scoppiò a ridere e così fecero gli altri.
“Come no,” rispose.
Aidan guardò sospettosamente la mano dell’uomo.
“Sto andando ad Andros,” disse.
Motley sorrise.
“Proprio come noi,” rispose. “E siamo fortunati che la città è grande abbastanza per tenerci tutti quanti e anche di più.”
Aidan esitò.
“Ci faresti un piacere,” aggiunse Motley. “Possiamo usare del peso extra.”
“E delle bocche extra da sfamare!” esclamò un altro istrione dalla folla, ridendo.
Aidan lo guardò diffidente, troppo orgoglioso per accettare, ma trovando un modo per salvarsi la faccia.
“Beh…” disse. “Se vi facciamo un favore…”
Aidan prese la mano di Motley e si trovò ad essere tirato sul carro. Era più forte di quanto si fosse aspettato, dato che, dal modo in cui vestiva, sembrava essere un giullare di corte. La sua mano, nerboruta e calda, era grande due volte la sua.
Motley poi si allungò, sollevò Bianco e lo mise delicatamente nel retro del carro, accanto ad Aidan. Bianco si accoccolò vicino a lui, nel fieno, appoggiandogli la testa in grembo, gli occhi mezzi chiusi per la stanchezza e il dolore. Aidan capiva fin troppo bene quella sensazione.
Motley salì con un balzo e il conduttore fece schioccare la frusta. Il carro partì mentre tutti esultavano e la musica cominciava di nuovo. Era una canzone allegra, uomini e donne pizzicavano le arpe, suonavano flauti e cembali, mentre numerosi altri, con sorpresa di Aidan, danzavano sui carri in movimento.
Aidan non aveva mai visto un gruppo così gaio di persone in vita sua. Aveva trascorso tutta la sua esistenza nel buio e nel silenzio di un forte pieno di guerrieri e non era certo di cosa pensare. Come poteva una persona essere così allegra? Suo padre gli aveva sempre insegnato che la vita era una cosa seria. Tutto questo non era triviale?
Mentre procedevano a scossoni lungo la strada, Bianco mugolava per il dolore mentre Aidan gli accarezzava la testa. Motley si avvicinò loro e con sorpresa di Aidan si inginocchiò accanto al cane e gli mise delle garze sulle ferite, tamponando con un unguento verde. Lentamente Bianco si quietò ed Aidan provò grande gratitudine per il suo aiuto.
“Chi sei?” chiese Aidan.
“Beh, ho avuto molti nomi,” rispose Motley. “Il migliore è stato ‘attore’. Poi c’è stato ‘furfante’, ‘giullare’, ‘buffone’… e la lista continua. Chiamami come vuoi.”
“Non sei un guerriero quindi,” confermò Aidan deluso.
Motley si raddrizzò e rise di piacere con le lacrime che gli scorrevano lungo le guance. Aidan non capiva cosa ci fosse di così divertente.
“Un guerriero,” ripeté Motley scuotendo la testa meravigliato. “Questo è un modo in cui non mi hanno mai chiamato. E non è neanche un appellativo che abbia mai desiderato avere.”
Aidan corrugò la fronte senza capire.
“Io discendo da una famiglia di guerrieri,” disse Aidan con fierezza spingendo il petto in fuori mentre stava seduto, nonostante il dolore. “Mio padre è un grande guerriero.”
“Allora sono desolato per te,” disse Motley ancora ridendo.
Aidan era confuso.
“Perché desolato?”
“È un sentenza,” rispose Motley.
“Una sentenza?” ripeté Aidan. “Non c’è nulla di più grande nella vita che essere un guerriero. È tutto ciò che ho sempre sognato.”
“Davvero?” chiese Motley divertito. “Allora mia spiace doppiamente per te. Penso che fare festa e ridere e dormire con bellissime donne sia la cosa più bella che ci sia, molto meglio che sfilare in parata attorno alla campagna sperando di piantare una spade nella pancia di un uomo.”
Aidan arrossì, frustrato. Non aveva mai sentito un uomo parlare di battaglia in quel modo e se ne sentiva offeso. Non aveva mai conosciuto nessuno neanche lontanamente simile a quell’uomo.
“Dov’è l’onore nella tua vita?” chiese Aidan confuso.
“L’onore?” chiese Motley apparendo sinceramente sorpreso. “È una parola che non sento da anni, ed è una parola troppo grossa per un ragazzino come te.” Motley sospirò. “Non penso che l’onore esista, almeno non l’ho mai visto. Una volta pensavo di essere onorevole e questo non mi ha portato da nessuna parte. E poi ho visto troppi uomini onorevoli cadere preda di donne subdole,” concluse tra le risate degli altri sul loro carro.
Aidan si guardò attorno, vide tutte quelle persone che ballavano, cantavano e bevevano per passare il tempo e provò un miscuglio di sentimenti diversi nel trovarsi tra loro. Erano uomini gentili ma che non avevano il desiderio di condurre una vita da guerriero, che non erano devoti al valore. Sapeva di dover essere riconoscente per il passaggio, e lo era, ma non sapeva come sentirsi riguardo al suo stare insieme a loro. Non erano certo il genere di uomini con cui suo padre avrebbe stretto amicizia.
“Viaggerò con voi,” concluse infine Aidan. “Saremo compagni di viaggio. Ma non posso considerarmi vostro fratello d’armi.”
Motley sgranò gli occhi scioccato e rimase in silenzio per dieci secondi buoni, come se non sapesse cosa rispondere.
Poi alla fine scoppiò a ridere, una risata che durò a lungo e riecheggiò tra le voci di quelli che stavano attorno a lui. Aidan non capiva quell’uomo e pensava di non poterci mai riuscire.
“Pensò che mi piacerà la tua compagnia, ragazzino,” disse alla fine Motley, asciugandosi una lacrima. “Sì, penso che mi piacerà un sacco.”
CAPITOLO NOVE
Duncan, affiancato dai suoi uomini, marciava attraverso la capitale di Andros seguito dai passi di migliaia di soldati vittoriosi e trionfanti, le armature che sferragliavano mentre sfilavano nel mezzo di quella città liberata. Ovunque andassero venivano accolti dalle grida trionfanti dei cittadini, uomini e donne, giovani e anziani, tutti vestiti con gli indumenti decorati della capitale, tutti intenti a correre loro incontro lungo le strade ricoperte di ciottoli, gettando fiori e delizie verso di loro. Tuti sventolavano con fierezza le bandiere di Escalon. Duncan si sentiva trionfante nel vedere i colori della sua patria di nuovo alti, nel vedere tutta quella gente – che solo il giorno prima era oppressa – ora così giubilante, così libera. Era un’immagine che non avrebbe mai dimenticato, un’immagine che dava valore a tutto ciò che avevano fatto.
La mattina presto il sole si alzò sulla capitale e Duncan si sentiva come se stesse camminando in un sogno. Quello era il posto dove era stato certo di non rimettere mai più piede, non da vivo e di certo non sotto quelle condizioni. Andros, la capitale. La corona di gioielli di Escalon, sede dei re per migliaia di anni, ora sotto il suo controllo. Il forte pandesiano era caduto. I suoi uomini controllavano i cancelli, le strade, le vie. Era molto più di quanto avrebbe mai sperato.
Si meravigliava al pensiero che giorni prima si trovava ancora a Volis, con tutta Escalon sotto il pollice d’acciaio di Pandesia. Ora tutta la parte nord-occidentale di Escalon era libera e la sua capitale, il suo cuore e anima, era libera dalla legge dei Pandesiani. Duncan si rendeva conto che ovviamente avevano ottenuto quella vittoria solo grazie alla rapidità e all’effetto sorpresa. Era stata una vittoria brillante, ma anche potenzialmente transitoria. Non appena si fosse diffusa la voce nell’Impero pandesiano, sarebbero venuti a cercarlo e non con pochi soldati, ma con i potere del mondo. La terra avrebbe sobbalzato sotto i passi degli elefanti, il cielo si sarebbe riempito di frecce, il mare si sarebbe ricoperto di navi. Ma questo non era un motivo per smettere di fare ciò che stava ora compiendo e che gli era richiesto in quanto guerriero. Per ora almeno avevano ottenuto il loro obiettivo. Per ora almeno erano liberi.
Duncan udì un tonfo e si voltò vedendo un’immensa statua di marmo del glorioso Ra, governatore supremo di Pandesia, capovolta, tirata già con delle funi da folle di cittadini. Andò in mille pezzi quando colpì il terreno e gli uomini esultarono calpestandone i frammenti. Altri cittadini accorsero e afferrarono le bandiere gialle e blu di Pandesia strappandole dai muri, dagli edifici, dalle torri.
Duncan non poteva fare a meno di sorridere osservando quell’adulazione, quel senso di orgoglio provato da quel popolo nel riconquistare la libertà, un sentimento che lui stesso capiva fin troppo bene. Guardò Kavos e Bramthos, Anvin ed Arthfael, Seavig e tutti i loro uomini e li vide raggianti, esultanti, intenti a godersi quella giornata che sarebbe stata scritta nei libri di storia. Era un ricordo che avrebbero tutti portato con sé per il resto delle loro vite.
Marciavano tutti attraverso la capitale oltrepassando piazze e cortili, svoltando in strade che Duncan conosceva benissimo per gli anni passati trascorsi lì. Svoltarono a una curva e Duncan sollevando lo sguardo sentì il cuore accelerare in petto vedendo l’edificio del governo di Andros, la sua cupola dorata luccicante al sole, le sue alte e arcuate porte dorate imponenti come non mai, la facciata di marmo bianco che brillava, decorata, come ricordava, dalle antiche scritte dei filosofi di Escalon. Era uno dei pochi edifici che Pandesia non aveva toccato e Duncan provò un senso di orgoglio nel vederlo.
Ma provò anche una fitta allo stomaco: sapeva che ad attenderlo all’interno c’erano i nobili, i politici, il consiglio di Escalon in carica, uomini di politica, di intrighi, uomini che non capiva. Non erano soldati, non erano capitani di guerra, ma uomini benestanti e potenti, uomini che esercitavano l’influenza ereditata dai loro antenati. Erano uomini che non meritavano di detenere il potere, eppure uomini che in qualche modo ancora serravano il pugno su Escalon.
Peggio di tutto, Tarnis stesso era certamente con loro.
Duncan si preparò e fece un respiro profondo mentre saliva la scala di marmo, i suoi uomini accanto a lui mentre le grandi porte venivano aperte per loro dalla guardia del re. Fece un altro respiro, sapendo che avrebbe dovuto sentirsi esultante, ma sapendo anche che stava entrando in un covo di serpi, in un luogo dove l’onore aveva ceduto il passo al compromesso e al tradimento. Avrebbe preferito una battaglia contro tutta Pandesia piuttosto che un’ora trascorsa in un incontro con quegli uomini, uomini che accettavano il compromesso, uomini che non avevano valori, uomini che si erano persi tra menzogne che loro stessi non capivano.
La guardia del re, con indosso le armature rosse brillanti che Duncan non vedeva da anni, con i loro elmi a punta e le alabarde da cerimonia, aprirono le porte e guardarono Duncan con rispetto. Quelli almeno erano veri guerrieri. Erano una forza antica, leali solo al re di Escalon. Erano l’unico esercito di soldati rimasto, pronti a servire qualsiasi re avesse regnato, vestigia di ciò che c’era un tempo. Duncan ricordò il suo giuramento a Kavos, pensò al fatto di diventare re e provò una stretta allo stomaco. Era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
Condusse i suoi uomini attraverso le porte fino ai sacri corridoi dell’edificio del governo, in contemplazione come sempre degli altissimi soffitti decorati con i simboli dei clan di Escalon, i pavimenti in marmo bianco e blu su cui era disegnato un grande drago che teneva un leone in bocca. Trovarsi lì gli fece tornare tutto alla mente. Non contava quante volte ci fosse stato: ogni volta si ritrovava annichilito da quel posto.
I passi dei suoi uomini riecheggiavano nei vasti saloni e mentre Duncan avanzava diretto verso la Sala del Consiglio, si sentiva come sempre come in una tomba dorata dove politici e nobili potevano congratularsi gli uni con gli altri nell’escogitare piani che li tenessero al potere. Aveva cercato di trascorrere là dentro sempre meno tempo possibile quando risiedeva nella capitale, e ora desiderava starci ancora meno.
“Ricorda il tu giuramento.”
Duncan si voltò e vide Kavos che lo fissava, gli scuri occhi luccicanti di intensità incorniciati dalla barba nera. Bramthos era accanto a lui. Era il volto di un vero guerriero, di un guerriero con il quale era immensamente in debito.
Lo stomaco di Duncan si strinse alle sue parole. Era un giuramento sancito che lo perseguitava. Il giuramento di assumere il comando. Di sollevare dall’incarico il suo vecchio amico. La politica era l’ultima cosa a cui ambiva: ciò che desiderava erano solo libertà e un campo di battaglia aperto.
Eppure aveva fatto un giuramento e sapeva che avrebbe dovuto onorarlo. Mentre si avvicinava alle porte di ferro sapeva che ciò che sarebbe seguito non sarebbe stato piacevole, eppure andava fatto. Dopotutto chi in quella stanza di politici avrebbe voluto porgergli il potere, riconoscerlo come re, anche se era stato lui a vincere tutto per loro?
Attraversarono un arco aperto e un altro contingente di guardie del re si fece di lato mostrando due porte gemelle in bronzo. Le porte del consiglio, antichità che erano durate sotto moltissimi re. Le aprirono completamente e si misero da parte. Duncan si trovò quindi ad entrare nella Sala del Consiglio.
A forma circolare, con il diametro di circa trenta metri, la Sala del Consiglio aveva al centro un tavolo rotondo di marmo nero attorno al quale si trovava, chi seduto chi in piedi, un’enorme folla di nobili. Il caos completo. Duncan percepì all’istante la tensione nell’aria, le voci di uomini agitati che discutevano, che camminavano avanti e indietro. La stanza era più gremita che mai. Di solito là dentro si trovava un ordinato gruppetto di una dozzina di nobili, seduto attorno al tavolo, presieduti dal vecchio re. Ora la stanza conteneva un centinaio di uomini, tutti con i loro migliori abiti. Duncan si aspettava che l’umore fosse gaio lì, dopo la sua vittoria, ma non era così per quegli uomini. Loro erano dei malcontenti professionisti.
Al centro sedeva Tarnis e quando Duncan e i suoi uomini entrarono, tutto il cicaleccio si interruppe e calò il silenzio. Tutte le teste si voltarono con espressioni stupite sui volti, espressioni di sorpresa, meraviglia e rispetto, ma soprattutto paura. Paura del cambiamento che stava per verificarsi.
Duncan si portò al centro con i suoi comandanti, mentre le restanti decine dei suoi uomini prendevano posizione ai lati della stanza, mettendosi di guardia in silenzio tutt’attorno. Era la dimostrazione di forza che Duncan voleva. Se quegli uomini gli avessero opposto resistenza o avessero pianificato di tenersi il potere, Duncan avrebbe ricordato loro chi aveva liberato la capitale, chi aveva sconfitto Pandesia. Vide i nobili scambiarsi occhiate nervose guardando i suoi soldati, poi lui, man mano che si avvicinavano. Politici professionisti fino alla fine, non mostrarono alcun genere di reazione.
Tarnis, il più professionale di tutti loro, si voltò verso Duncan e mostrò un rapido quanto forzato sorriso. Allungò una mano e iniziò ad avvicinarglisi.
“Duncan!” esclamò calorosamente, come accingendosi ad abbracciare un fratello perduto da tempo.
Tarnis, un uomo sulla sessantina, con la pelle ben abbronzata, bei lineamenti e i capelli grigi e setosi che gli arrivavano al mento, aveva sempre avuto un bell’aspetto: ovviamente era così, data la vita di pompa magna e lusso che aveva sempre vissuto. Dimostrava anche un’espressione saggia, ma Duncan sapeva che si trattava solo di una facciata. Era un bravo attore, il più bravo di tutti e sapeva come dar a vedere la saggezza. Dopo tutto gli anni trascorsi insieme, Duncan sapeva che era un maestro nell’apparire in un modo e agire in un altro.
Tarnis si fece avanti e lo abbracciò. Duncan ricambiò freddamente l’abbraccio, ancora insicuro sui sentimenti da provare nei suoi confronti. Si sentiva ancora ferito, enormemente deluso da quell’uomo che una volta aveva rispettato quanto un padre. Dopotutto quello era l’uomo che si era arreso cedendo la loro terra. Era un insulto per Duncan vederlo lì, in quella sala del potere, dopo la vittoria appena perpetra. Era un posto dove ora non meritava più di stare. E da come i nobili ancora lo guardavano, Duncan poteva percepire che Tarnis dava ancora per scontato di essere re. Era evidentemente come se niente fosse cambiato.
“Pensavo di non rivederti mai più,” disse Tarnis. “Specialmente non in circostanze come queste.”
Duncan lo guardò, incapace di fare un sorriso. Era sempre stato onesto con le sue emozioni e non poteva fingere di provare affetto per quell’uomo.
“Come hai potuto fare una cosa del genere?” gridò una voce arrabbiata.
Duncan si voltò e vide dall’altra parte del tavolo Bant, il capitano di guerra di Baris, quartiere meridionale della capitale, che lo guardava con ira. Bant era noto come un uomo difficile, un uomo litigioso come tutti quelli di Baris, che vivevano nel mezzo di un canyon. Erano un popolo duro e scialbo. Non era gente di cui fidarsi.
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