Kitabı oku: «L’anello dei draghi», sayfa 4
CAPITOLO SETTIMO
“Riportatemi indietro!” Aurelle insisteva con il capitano del piccolo vascello che la stava trasportando fuori da Astare. “Ti prego, non posso lasciare Greave da solo. Morirà laggiù.”
Non faceva alcuna differenza, come tutte le altre sue suppliche. Il capitano era un uomo grande e grosso, dal viso di pietra che non lasciava trapelare granché, ma adesso sorrideva.
“Morirà senza di te lì a proteggerlo?”
L’equipaggio intorno ad Aurelle rise e questo non fece che intorbidire ancora di più il disordine per il dolore, il lutto e la vergogna dentro di lei. Naturalmente, sapeva cosa vedevano quando la guardavano, la stessa cosa che era stata così attenta a proiettare fin dal momento in cui aveva incontrato Greave. I suoi capelli rossi potevano essere liberi di agitarsi al vento invece che essere raccolti in un’elaborata e nobile treccia, ma ogni cosa in lei era ingannevole: gli abiti nobili che la coprivano, la tagliente eleganza dei suoi lineamenti, la sua struttura sottile, tutto fino al semplice fatto che era una donna. Tutto ciò li portava a pensare che fosse qualcuno di debole e indifeso.
Arretrò da lui, cercando di trovare un modo per farlo, per tornare da Greave e spiegargli le cose. Tutto sarebbe andato al suo posto, se solo avesse potuto dimostrargli… se solo avesse potuto dimostrargli che lo amava.
Si aggrappò al parapetto della barca, cercando di capire se poteva in qualche modo tornare a nuoto da Greave, ma ormai era troppo lontano e, in ogni caso, le grandi navi del Regno del Sud l’avrebbero forse fermata prima che fosse giunta a metà strada.
Doveva trovare un altro modo e la Casa dei Sospiri gliene aveva insegnati infiniti.
Osservò i lavori sulla nave, cercando di capire se c’era un modo per farlo accadere per caso. Guardò una mezza dozzina di uomini che si muovevano in concerto per cercare di farla funzionare senza intoppi, ma era chiaro che non c’era modo di invertire la rotta senza il loro aiuto. Ma dopo, che cosa?
Aspettò il momento in cui il capitano si diresse sottocoperta per un minuto o due, poi si infilò nello spazio dietro di lui, seguendolo, cercando di giudicare il modo migliore per farlo. Cosa avrebbe fatto per tornare da Greave? O, più precisamente, cosa non avrebbe fatto?
“Sei qui per cercare di nuovo di convincermi a invertire rotta?” chiese il capitano mentre gli si avvicinava.
“Esatto,” replicò Aurelle. “Devo tornare dal mio principe. Farò qualsiasi cosa per tornare indietro. Qualsiasi cosa.”
Si avvicinò al capitano.
“Credi davvero che funzionerà?” chiese lui.
Aurelle estrasse un coltello e glielo premette contro la gola con un unico movimento fluido.
“Riportami indietro, subito,” gli intimò.
“Uccidimi e i miei uomini uccideranno te,” ribatté il capitano. La parte peggiore era che probabilmente era vero. Con abbastanza posti per nascondersi, Aurelle avrebbe potuto far fuori tutti gli uomini, ma nel piccolo spazio della barca, avrebbe combattuto frontalmente contro sei uomini. Anche un Cavaliere dello Sperone non ce l’avrebbe fatta, forse, e lei non era un cavaliere. Era sempre meglio conficcare un coltello nella schiena che combattere apertamente.
Anche se in qualche modo fosse riuscita a ucciderli tutti, non avrebbe saputo riportare indietro la barca. Aurelle non poteva pilotarla da sola fino al porto.
“Perché non inverti rotta?” chiese lei.
Il capitano alzò le spalle. “Sono leale alla corona e sono leale quando mi pagano. Il principe Greave mi ha pagato per portarti fino a Royalsport, ed è quello che farò.”
“Ma morirà lì,” disse Aurelle. “Dobbiamo salvarlo. Io… io lo amo.”
“I miei uomini probabilmente non hanno sentito nulla di quello che tu e il principe vi siete detti,” replicò il capitano, “ma io sì. Io so chi sei. So cosa sei, mia signora, e non ho tempo per questo tipo di inganni. Ti riporterò indietro e sei fortunata che non ti tagliamo la gola e ti buttiamo in mare per aver tradito il principe.”
Tornò sul ponte e ci volle un attimo prima che Aurelle potesse seguirlo; lo shock del suo fallimento la tenne per un attimo inchiodata al suo posto. Era stata così sicura che avrebbe trovato un modo per far tornare indietro la barca, sicura che potesse trovare un modo per manipolare il mondo a suo piacimento. Ora, era bloccata e, con un sospiro, tornò sul ponte.
Lì, vide le banchine di Astare in fiamme.
“No!” gridò Aurelle a quella scena; le fiamme mangiavano le navi, il legno della parte anteriore del molo. Scorse una figura solitaria in piedi sull’estremità ardente di uno dei moli, e la vide precipitare in acqua, mentre il fuoco sembrava consumare il mondo che lo circondava. “No, ti prego, no.”
Aurelle guardò verso il capitano, ma lui alzò ancora la vela, allontanandosi da Astare il più veloce possibile. Non c’era modo che invertisse rotta adesso, non c’era modo che portasse la sua barca fra quelle fiamme che potevano consumarla, disobbedendo ai comandi impartitigli da Greave.
Mentre si aggrappava al parapetto del peschereccio, Aurelle sentiva il suo cuore spezzarsi. Sapeva di provare per Greave più di quanto avrebbe mai dovuto, più di quanto fosse sicuro o ragionevole, eppure questo… poteva fare tanto male perdere qualcuno se lo si amava più di ogni altra cosa al mondo. Almeno, Aurelle pensava che quello fosse il suo caso; non aveva mai amato nessuno in quel modo prima d’ora.
Nella Casa dei Sospiri, Aurelle si era sempre vantata di non essere mai stata toccata da qualcosa di così sciocco come il sentimento. Aveva visto tutti i modi in cui le persone cercavano di usarsi l’una con l’altra; era stata onesta sulle transazioni al centro di tutte le cose, anche quando altri avevano cercato di tessere stupide trame fatte di bisogni o sentimenti, che non facevano altro che essere d’ostacolo. Quando era stata scelta per spiare e agire nell’ombra, Aurelle l’aveva trovato facile. Non le era sembrato un tradimento quando non c’era stato amore.
Adesso, si sentiva una traditrice. Aveva tradito Greave spiandolo e aveva tradito tutto ciò che doveva essere, osando innamorarsi di lui. Aurelle non sapeva cosa fare.
Guardò il porto in fiamme e, proprio in quel momento, sentì il suo cuore ridotto allo stesso modo, andava a fuoco con una tale ferocia che presto non sarebbe rimasto nulla se non cenere. Aurelle suppose che quel tipo di danno potesse compromettere l’invasione del Regno del Sud, ma non era una consolazione. In ogni caso, la battaglia ad Astare si era tenuta e la città era loro.
La cosa peggiore era che i suoi datori di lavoro sarebbero stati probabilmente contenti per il modo in cui erano andate le cose. Poteva quasi immaginare il modo in cui il Duca Viris avrebbe sorriso, appena gli avesse detto che la biblioteca che conteneva la cura per la malattia a squame era stata bruciata, che il principe che l’aveva cercata era scomparso, insieme all’ultima pagina della ricetta.
Anche se avesse provato a dirgli che era accaduto tutto per caso e non per sua mano, il duca avrebbe forse supposto che fosse solo prudente e sarebbe stato più che contento di com’erano andate le cose. Aurelle poteva immaginare anche il modo in cui avrebbe voluto festeggiare, perché un uomo del genere non l’avrebbe mai vista come qualcosa di diverso da una cortigiana, nonostante quanto avesse fatto per lui.
Meredith… Aurelle sapeva che la maitresse della Casa dei Sospiri agiva sempre nell’interesse dell’equilibrio, del regno e della Casa, che cercava sempre di proteggere le donne e gli uomini che la servivano. Aurelle non poteva biasimarla per aver preso i soldi del duca, sapendo che se la missione fosse riuscita, la Casa dei Sospiri avrebbe acquisito una certa influenza su di lui.
Ma poteva dare la colpa al Duca Viris e a suo figlio. Probabilmente, lui pensava che Aurelle fosse stupida e incapace di capire i suoi piani. Il suo desiderio di destabilizzare la famiglia reale e, allo stesso tempo, di spingere Finnal sempre più in alto era così ovvio, visto cosa stava succedendo. Il fatto che uomini come lui così spesso la pensassero in quel modo, era almeno una delle ragioni per cui la Casa dei Sospiri era così brava in quello che faceva.
Greave era diverso… non l’aveva vista in quel modo, e quel pensiero bastò a far correre una nuova ondata di dolore attraverso Aurelle. Lui era stato l’unico ad averla amata per quello che era e non per quello che poteva fare per lui. L’unico ad averla mai amata, e ora se n’era andato.
Aurelle restò lì in piedi, sentendosi del tutto vuota, mentre Astare scompariva in lontananza. Non sapeva cosa avrebbe fatto ora, né dove sarebbe andata una volta tornata a Royalsport. Non voleva dire al Duca Viris che ci era riuscita, che tutti i suoi piani stavano andando a buon fine.
Capì quello che voleva fare invece; era stupido, pericoloso e probabilmente l’avrebbe fatta finire in più guai di quanti potesse sperare di superare. Se solo fosse tornata indietro e avesse finto di aver svolto il lavoro alla perfezione, sarebbe stata ben pagata e magari avrebbe anche acquisito una posizione di potere in tutto ciò.
Aurelle non voleva fare nulla di tutto questo. Non sopportava il pensiero di un mondo in cui Greave non c’era più, ma in cui Finnal era salito al potere mentre il Duca Viris sorrideva sullo sfondo; la faceva sentire come avesse delle unghie conficcate nella pelle che procedevano a squarciarla. Non sopportava quel pensiero… quindi perché non fare qualcosa al riguardo?
Quello che stava contemplando non avrebbe riportato indietro Greave. Non avrebbe disfatto nessuno dei danni che aveva contribuito ad arrecare al mondo, non avrebbe sistemato le cose, ma forse, solo forse, avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Li avrebbe uccisi entrambi.
CAPITOLO OTTAVO
L’acqua sbatteva Renard, scaraventandolo a destra e a sinistra come un marito che era tornato prima del previsto, cosicché sembrava rimbalzare fuori dall’acqua stessa. Era un uomo grande e grosso, ma la corrente lo lanciava come un giocattolo, spostando il suo peso come se fosse nulla.
Si impigliò nel mantello che indossava, facendolo diventare un peso di piombo intorno alle sue spalle. Sbrindellò l’indumento, togliendoselo di dosso, ma la fibbia si impigliò nel rosso dei suoi capelli, tenendolo in posizione mentre si lacerava contro una roccia. Si strappò una ciocca di capelli chiari e si liberò, spinto in avanti dalla corrente.
Lottò per tornare in superficie, cercando di ricordarsi perché gli era sembrata una buona idea gettarsi in acqua. Venne su, riuscì a prendere fiato e ricordò tutto quando vide la grande massa rossa del drago che indugiava in lontananza. Rispetto a essere bruciato vivo, cos’era un po’ d’acqua?
Il fiume rispose, trascinandolo di nuovo sotto, spingendolo con una velocità maggiore di quella che Renard avrebbe mai potuto raggiungere fuggendo a cavallo. Urtò delle rocce, sentendole sbattere contro le sue costole, e dovette usare le braccia e le gambe per allontanarsi dalla peggiore di esse prima che potesse inciderlo.
L’unica consolazione era che peggio di così non poteva andare.
Tornò in superficie e si pentì subito anche solo di averlo pensato. Davanti a lui, l’acqua cedeva il passo a spruzzi e schiuma, mentre il fiume sembrava semplicemente scomparire al di là degli spuntoni di alcune rocce. Una cascata o una diga giaceva davanti a lui, e Renard non voleva davvero scoprire passandoci sopra quale delle due fosse.
Nuotò verso la riva, non volendo affrontare il fiume in maniera diretta, ma trascinandosi in posizione angolare. Si rese conto, grazie a due primi colpi, che non avrebbe funzionato. Il fiume era troppo forte e lo trascinava troppo velocemente. Adesso, Renard doveva scegliere se rischiare di andare oltre il bordo oppure schiantarsi contro le rocce che poteva vedere; ma, del resto, di recente, sembrava che tutta la sua vita fosse diventata un bivio fra due scelte di quel tipo.
Renard intuì che la maggior parte delle persone avrebbe scelto le rocce, cercando di aggrapparsi a esse per evitare di affrontare la cascata. Probabilmente, come risultato, sarebbero stati colpiti a morte da esse, ma Renard non era mai stato fra quelli che si aggrappavano all’opzione sicura. Nuotò verso il passaggio tra esse, si prese un momento per osservare il precipizio che si estendeva per un centinaio di metri o più fino al fiume sottostante, e poi stava cadendo.
Trasformò la caduta in un’immersione come meglio poteva, ma nonostante ciò, l’eleganza non aveva molto a che vedere con il modo in cui cadde nelle acque che lo aspettavano. Laggiù c’era una piscina circolare, e doveva solo sperare che fosse abbastanza profonda, o la sua caduta sarebbe finita all’improvviso.
Allungò le mani, dividendo l’acqua a metà mentre la colpiva con un impatto che gli fece stridere le ossa. Inarcò la schiena, cercando di rendere la sua immersione più debole, ma anche così, colpì il fondale della piscina con una forza sufficiente a togliergli il respiro.
Sopra, Renard vedeva la superficie come un cerchio di luce che sembrava troppo lontano per allungare una mano e poterlo toccare. Gli stavano già iniziando a bruciare i polmoni e dovette lottare per non prendere fiato mentre si avviava verso la luce.
Sembrò volerci un’eternità per arrivarci. La sua vista cominciò a oscurarsi e la pressione ad accumularsi nella sua testa, fino a quando sembrò potesse esplodergli. Presto avrebbe ripreso a respirare, che lo volesse o no, e questo avrebbe significato che l’acqua gli si sarebbe riversata dentro, affogandolo…
Renard irruppe in superficie, ansimando in cerca d’aria. Alzò lo sguardo e vide la cascata fragorosa che svettava sopra di lui; da laggiù sembrava ancora più alta di come gli era parsa nella caduta. L’acqua precipitava violenta intorno a lui e, in quel preciso momento, gli sembrava la cosa più rinfrescante del mondo, perché significava che era vivo.
“Sono vivo!” gridò al mondo, forse in una mossa stupida, dato che aveva già stabilito con sua soddisfazione che gli dei si stavano divertendo un sacco a tormentarlo. Partì a nuoto verso il bordo della piscina.
Quando lo raggiunse, si trascinò fuori dall’acqua e su una sponda rocciosa, inzuppato fino alla pelle ed esausto. Rimase sdraiato lì per quella che parve un’eternità, mentre il sole batteva così forte da fargli sembrare che l’acqua evaporasse da lui.
Controllò i suoi averi, cercando di capire cosa fosse sopravvissuto al viaggio fino alla valle del fiume. Non aveva una spada, ma aveva ancora un lungo coltello legato all’anca. Il suo sacchetto di monete era sopravvissuto, il che significava che aveva ancora un bel po’ di soldi grazie all’amuleto che aveva venduto a Geertstown.
Renard sapeva senza guardare che l’amuleto era ancora lì. Poteva sentirlo tirare ai margini della sua esistenza e succhiargli la vita a poco a poco. In quel momento, si sentiva ammaccato e ferito, esausto e a malapena in grado di riprendere fiato. Tuttavia, riusciva a sentire qualcosa di molto più insidioso sotto a tutto ciò, mentre l’amuleto gli toglieva la vita.
Perché non era già morto? Renard non era qualcuno che in condizioni normali si sarebbe posto una domanda del genere, perché sembrava solo un invito per il peggio, ma in quel momento non poteva fare a meno di chiederselo. Non poteva fare altro che riflettere, dato che nonostante fosse consapevole che vi fosse un drago da qualche parte in lontananza, che forse lo perseguitava, era troppo esausto per muoversi in quel momento.
Il ricettatore a cui aveva venduto l’amuleto era morto nel giro di neanche un’ora, così prosciugato da sembrare a malapena umano. Sì, l’uomo era vecchio, ma Renard non riusciva a credere che questo potesse bastare a fare una simile differenza. C’era qualcos’altro che non capiva.
Alla fine, riuscì a spingersi in posizione seduta e poi in piedi. Sapeva senza che gli venisse detto cosa doveva fare, lo sapeva dal momento in cui aveva rubato l’amuleto a Geertstown: gli serviva l’aiuto di uno stregone.
Il problema era sempre lo stesso. Gli stregoni erano tutt’altro che comuni, e trovare qualcuno che sapesse abbastanza di magia da trattare con un amuleto di cui anche gli Invisibili, nonostante il loro terribile potere, avevano paura… Come poteva sperare di trovare un uomo che potesse farlo?
Renard cominciò a camminare, con i vestiti che gocciolavano a ogni passo. Aveva fatto una dozzina di passi prima di realizzare da che parte stava andando. La posizione del sole gli diede la risposta. Stava andando verso est, in direzione di Royalsport.
Sapeva che era una mossa stupida, perché tutte le voci a Geertstown sostenevano che la guerra stava dilaniando l’est. Una città piena di ladri e contrabbandieri appariva adesso un rifugio sicuro, rispetto a quello che stava avendo luogo nel resto del regno.
Certo, una discreta parte di Geertstown era adesso in fiamme, a causa del drago che era andato a cercare l’amuleto.
Renard lo estrasse, fissandolo. Un frammento di squama di drago giaceva al centro di una montatura ottagonale e ogni lato esibiva una gemma di colore diverso, che brillava alla luce del sole.
“Avrei dovuto lasciarti indietro,” disse Renard all’amuleto. “Ma quando ho mai fatto la cosa giusta?”
In questo caso l’aveva fatta, però. Se l’era ripreso a causa di tutti i danni che avrebbe altrimenti potuto provocare, e perché l’alternativa era che qualcosa di così potente finisse nelle mani degli Invisibili. Quella motivazione era stata già di per sé sufficiente a far fare a Renard il doppio gioco con le persone che potevano farlo a pezzi con la magia.
Un viaggio a Royalsport per trovare uno stregone non era niente in confronto a questo. Sapeva di chi aveva bisogno, perché c’era solo un uomo che poteva aiutarlo in una cosa del genere: lo stregone del re, il Maestro Grey. Doveva andare da lui, anche se questo significava intrufolarsi in qualsiasi violenza vi fosse là fuori, a est, e chiedergli aiuto.
Questo, oppure mettergli in mano l’amuleto e scappare, sperando che bastasse a spezzare la connessione e che il mago sapesse cosa fare.
Ad ogni modo, Renard continuò a camminare, lungo quel terreno roccioso; proseguì nella speranza di trovare una strada. Quando individuò un sentiero, lo seguì fino al punto in cui sfociava in una strada più ampia e proseguì ancora.
Giunse al villaggio successivo prima di permettersi di guardare indietro; fu il pensiero di ciò che poteva essere in agguato lì a fargli tenere gli occhi incollati in avanti così a lungo. Alla fine, però, Renard non poté farne a meno. Si guardò alle spalle, guizzando con gli occhi dalla terra al cielo.
Non passò molto tempo prima che trovasse ciò che cercava. Non era più grande di un puntino adesso, ma c’era; e Renard comprese che non si sarebbe fermato in quel villaggio, né in qualsiasi altro, più a lungo di quanto ci avrebbe messo a rubare un cavallo.
Il drago era sospeso in lontananza, volava lento sulla sua scia, e Renard sapeva che se non avesse raggiunto lo stregone al più presto, lo avrebbe provato di nuovo a carbonizzare, guerra o non guerra.
CAPITOLO NONO
Nerra fissò l’immensa mole scura del drago che svettava sopra di lei, ed era certa che sarebbe morta. Il giallo intenso e profondo dei suoi occhi era tutto concentrato su di lei, fissandola come stesse cercando di capire con quanta facilità potesse divorarla.
I resti di quella colonia distrutta che la circondavano le dicevano che sarebbe bastato un solo sfarfallio del suo respiro per annientarla. Eppure, stranamente, la cosa che più le riempiva il cuore in quel momento non era terrore ma fascino.
Rispetto al drago di cui aveva trovato l’uovo, questo era enorme, lucido e scuro, ma guardando meglio, Nerra si accorse che il nero delle sue squame era in realtà composto da una dozzina di sfumature e tonalità diverse, dal grigio più chiaro al nero profondo del catrame e delle ombre del cielo notturno. Le sue squame erano così ampie da sembrare placche di un’armatura sul suo lato inferiore; gli unici spruzzi di colore sulla creatura erano il giallo dei suoi occhi e il rosso profondo dell’interno della bocca che il drago spalancò.
Sparò fiamme accanto a Nerra, e questo mise il terrore di nuovo in primo piano nella sua mente. Si voltò e corse via, inciampando tra i rottami della colonia in rovina, dirigendosi verso gli alberi piuttosto che verso le rocce scure del terreno aperto, pensando che niente di così grande potesse passare tra essi.
Nerra udì un ruggito alle sue spalle e continuò a correre.
Ora si trovava nella giungla sulla parte interna dell’isola e il sole si intravedeva tra le chiome, mentre lei continuava a procedere. Le piante che le passavano davanti agli occhi mentre correva non avevano niente in comune con quelle che aveva visto vicino a casa, rigogliose e verdi, dai colori vivaci e dai profumi che le inondavano le narici. Quella scarica travolgente era davvero dovuta al fatto che fossero molto più pungenti delle altre piante, o aveva più a che vedere con ciò che era diventata?
In alto, persino attraverso gli alberi, Nerra riusciva a scorgere l’ombra del drago che volava in cielo; grande e maestoso, teneva il passo senza difficoltà. Nerra non poteva fare a meno di fissarlo, scissa tra il terrore che provava al pensiero di un predatore così enorme sopra di lei e il suo apprezzamento per l’eleganza con cui tagliava l’aria. Sembrava librarsi in volo e fluttuare in cielo, sbattendo a malapena le sue gigantesche ali; la fiamma che emetteva nello spazio davanti a sé, produceva correnti d’aria termiche che facilitavano il suo volo.
Aspetta, come faceva Nerra a saperlo? Aveva visto il suo drago, certo, e aveva avvertito un certo legame con lui, ma non sapeva niente di come funzionassero i loro corpi o di cosa significasse essere un drago. Adesso, quella conoscenza sembrava essere lì, dentro di lei, e cresceva, impossibile da ignorare.
Quando uscì in una radura, Nerra non poté fare a meno di fissare il drago; mentre lo osservava, comprese i modi in cui i suoi artigli erano abili quasi quanto mani, il modo in cui il suo corpo poteva prendere la magia dall’aria e trasformarla in fiamma, ombra o nebbia. Sapeva, senza che le venisse detto, che quel drago era una femmina e che era grande, anche per la sua specie.
Nerra passò lunghi secondi a fissarlo e, in quei secondi, un movimento tremolante la raggiunse alla sua sinistra. Vide qualcosa di squamoso e bestiale sbucare dagli alberi e balzare in avanti verso di lei scoprendo i denti, pronto a morderla. Nerra lo riconobbe come simile alle deformi figure trasformate dell’Isola della Speranza, ma questo sembrava in qualche modo più animale, come se già in partenza non fosse stato qualcosa di umano.
Non aveva tempo per capire cosa fosse, però, perché le si stava già scagliando contro. Di norma, Nerra sarebbe scappata, non avrebbe saputo cos’altro fare, ma ora l’istinto la indusse ad aggredire la creatura con le sue mani artigliate; quegli artigli incisero la carne del nemico, costringendolo a saltare indietro. La fissò, sibilando e digrignando i denti come se potesse saltare di nuovo verso di lei, e in quel momento altre due creature la raggiunsero.
Nerra sapeva, nello stesso modo istintivo in cui conosceva come il drago si levava in volo, che se sarebbe stato abbastanza facile gestire uno di quegli esseri simili a lucertole, tre insieme sarebbe stato più difficile. Si sparpagliarono intorno a lei, e sospettava che sarebbe morta.
Poi, però, vide il drago precipitare verso terra come un sasso, con le ali tirate indietro sui fianchi; scese in picchiata, raggiungendo quasi il livello del suolo, poi aprì le ali e le sbatté con forza, creando un tale flusso d’aria che Nerra si ritrovò i piedi spazzati via da terra. Anche quelle cose lucertola vennero scaraventate lontano.
Il drago aprì la bocca e, in qualche modo, questa volta non fu il fuoco a uscire, ma un suo facsimile tremolante e oscuro, che si accanì sulle creature senza danneggiare gli alberi alle loro spalle. Gridarono di dolore e caddero all’indietro, precipitandosi poi nella foresta.
Mia.
La parola sembrò echeggiare nella foresta, e passò un secondo prima che Nerra si rendesse conto che non aveva nulla a che fare con qualcosa di vocale. Al contrario, quella parola sembrava echeggiarle nella mente, come se fosse il suo cervello a tradurre in parole che potesse capire qualcosa di più primordiale.
Ora poteva solo fissare il drago.
“Tu… tu sei intelligente.”
Il drago sbuffò, come se la domanda stessa fosse un insulto. Delicata e con cautela, Nerra allungò una mano a toccargli il fianco. Era caldo e liscio, e la potenza dei muscoli lì sotto fu subito evidente quando cambiò leggermente posizione. Quei grandi occhi fissavano Nerra, e lei poteva sentire tutto ciò che il drago provava in quel momento: curiosità e possesso. La creatura alzò un artiglio, toccandola quasi con delicatezza ma, anche così, le fece fuoriuscire il sangue.
Nerra avvertiva il legame che si stava creando in quel momento; per un attimo, si rafforzò e si unì a lui, sentendosi come fosse il drago lei stessa. Si vide come la vedeva lui: qualcosa di piccolo e prezioso, trasformato in ciò che di più vicino alla perfezione potevano diventare le cose umane di questo mondo. Sentiva su di sé il profumo del suo stesso drago, e avvertì il momento in cui estinse quella pretesa con un pensiero.
Tu non sei del drago Alith. Tu appartieni a Shadr, il raffreddamento della carne nell’oscurità, primo tra i draghi.
“Tu sei…” Nerra lottava per capire. “Sei la loro regina?”
Il drago sembrò riflettere. Sì, sono… una regina. E tu sei… la figlia di una regina. Tu sei per i Perfezionati ciò che io sono per la mia specie. Io ti rivendico, Nerra figlia della Regina.
“Rivendicare?” domandò Nerra.
I Perfezionati sono legati a noi, connessi come lo sarai tu. Li abbiamo creati per servire e muoversi tra gli esseri umani. Uno ha cercato di rivendicarti in passato, ma era troppo giovane.
Nerra si trovò a pensare al blu del suo drago, ma sopra di lei il grande drago nero emise uno sbuffo di fiamme.
Tu sei mia, non sua. Presto saremo legate per la verità.
Nerra non sapeva come reagire a questo. Una parte di lei le diceva che avrebbe dovuto essere terrorizzata al pensiero di qualsiasi cosa che la rivendicava, figuriamoci di un drago, ma un’altra parte di lei, quella che gorgogliava sotto la superficie, diceva che questo era ciò che aspettava da tutta la vita. Questa era la ragione per cui si era trasformata in ciò che era, il motivo per cui aveva sofferto così tanto in passato. Quel momento stava dando un senso a tutto il resto.
Vieni.
Il drago, Shadr, abbassò il collo; voleva che Nerra salisse a bordo della sua schiena, era ovvio. Nerra esitò, mentre una nota di paura la tratteneva.
Non devi avere paura di me. Non devi più temere nulla.
Nerra avvertì la verità in quelle parole. Percepiva il potere della creatura che aveva davanti, il legame con la magia che le circondava. Mentre era con Shadr, niente poteva farle del male. Niente poteva trattarla in modo diverso a causa della cosiddetta malattia che la affliggeva. Non era stata una malattia, però; l’aveva resa ciò che aveva sempre dovuto essere. Non comprendeva ancora il senso di tutto, ma non ne aveva bisogno. Cominciò a salire sulla schiena del drago.
Le squame sopra il collo di Shadr spuntavano sopra al resto della sua pelle, fornendo una presa che permetteva a Nerra di tenersi forte mentre il drago spiegava le ali e balzava in cielo; la furia dei suoi battiti d’ali le portava sempre più in alto. Nerra vedeva la terra sottostante estendersi come una mappa; il continente di Sarras diventava pietra nera e giungla verde lì sotto, i vulcani erano sparsi in lontananza, e uno dei più grandi si avvicinò con una tale rapidità che Nerra riusciva a malapena a credere che il drago potesse muoversi così veloce.
Man mano che si avvicinavano, Nerra poté scorgere qualcosa sulle pendenze che sembrava impossibile: strutture che stavano in piedi laggiù e sembravano essere state inserite sul fianco del vulcano stesso; alte e lisce, con molti spazi aperti delimitati da pilastri che le ricordavano il tempio dove aveva trovato la fontana. Tra essi, si muovevano delle figure, le cui squame brillavano alla luce. Realizzò, in uno stato di shock totale, che erano come lei.
Non era tutto, perché attorno al bordo del vulcano i draghi si posavano, volavano ed espiravano in alto nell’aria. La maggior parte di essi sparava fiamme, ma altri emettevano fulmini, ghiaccio o nuvole di quello che sembrava acido. Le creature laggiù sembravano essere di tutti i colori dell’arcobaleno, alcune opache, altre brillanti abbastanza da accecarla. Erano tutte enormi, ma nessuna di esse sembrava grande, temibile o potente come Shadr.
“Ce ne sono… così tanti,” disse Nerra con un sussurro che, nonostante fosse stato strappato via dal vento, sapeva che il drago sotto di lei udiva.
Ci aspettano.
“Aspettarci?” ripeté Nerra. “Perché?”
Andiamo… in guerra.
Ücretsiz ön izlemeyi tamamladınız.