Kitabı oku: «La corona dei draghi», sayfa 4
CAPITOLO SETTIMO
“Come procede con l’acqua, Vars?”
Vars imprecò e gemette mentre lottava per sollevare il secchio che doveva trasportare dalla pompa dietro casa di Bethe.
Lei lo stava aspettando all’interno, lavorando in cucina per fare il pane. Vars si rese conto che era un compito al quale non aveva mai assistito. Era una cosa che la servitù faceva in cucina, ben lontano dalla vista degli altri.
La cucina stessa… beh, non era proprio una cucina, perché la sua abitazione si limitava a sole due stanze in realtà, quella e un’altra sul retro per dormire. Entrambe erano poco arredate, con mobili in legno ovviamente tutti realizzati dalla stessa mano. Nella camera c’erano un letto ampio, un cassettone per i vestiti e un armadio. Bethe aveva riso in faccia a Vars quando le aveva suggerito che lui avrebbe dovuto dormire nel letto, o al massimo condividerlo con lei.
“Vieni e aiutami a impastare questo lotto,” disse Bethe, e Vars si agitò un poco.
“Ero un re, sai,” disse infastidito.
“Lo so,” replicò Bethe, con un sorriso fiacco, “e se lo dici un po’ più forte, lo saprà tutto il vicinato. Ora vieni e renditi utile.”
Si era comportata allo stesso modo anche nei giorni precedenti. Vars aveva cercato di ricordarle che era una persona importante, da rispettare, ma ogni volta lei l’aveva trattato come se avesse detto qualcosa di divertente e tenero.
Vars non sapeva come reagire. Una parte di lui gli suggeriva di darle una specie di lezione, di colpirla per ricordarle che era ancora più di quanto una persona come lei potesse mai diventare.
Sapeva bene, però, che non doveva far arrabbiare l’unica persona che aveva in pugno la sua libertà.
Impastò il pane, dunque. Era un’esperienza strana, mescolare l’impasto, percuoterlo, lavorarlo così duramente per produrre qualcosa di semplice come il pane. Lo sforzo di tutto quel lavoro stava in realtà cominciando ad affannarlo, e Vars si sorprese a desiderare un letto morbido e del vino.
“Perché… non… compri… il pane… già fatto?” domandò. Che tipo di persona faceva tutto questo?
“Pensi che abbia soldi da buttare via?” rispose Bethe. “In ogni caso, in parte guadagno vendendo torte e pasticcini. Se la gente sentisse che non mi faccio nemmeno il pane da sola, pensi che comprerebbero qualcosa da me?”
A Vars sembrava strano che qualche pasticcino venduto qua e là potesse fare la differenza nella vita di qualcuno. Come poteva essere così povera? Eppure era innegabile che Bethe lo fosse, che tirasse a campare di giorno in giorno. Nonostante ciò, aveva accolto Vars, salvandolo da persone che l’avrebbero sicuramente uccisa se l’avessero scoperto. Vars non sapeva se stupirsi della sua generosità o se reputarla stupida oltre ogni immaginazione.
Con sua grande sorpresa, scoprì che gli piaceva molto quella contadina.
Sfoggiò il migliore dei suoi sorrisi. “Immagino che potresti farci un po’ più di soldi se la gente sapesse che ti ho aiutata. Potresti dire che il tuo pane ha un tocco reale.”
Bethe scoppiò a ridere, e Vars dovette ammettere che era adorabile quando rideva. Era adorabile in ogni modo, anche se, con suoi sorpresa e fastidio, non aveva mostrato alcun interesse per lui. Era abituato a essere guardato con rispetto dalle donne, dato chi era.
Certo, era quello il problema; non era più quella persona. Anche solo tentare di esserlo lo avrebbe messo in pericolo. Era parte del motivo per cui non poteva dare a quella donna la lezione che meritava.
Mise da parte il pane impastato. “Posso riposare adesso?” chiese, “O hai in mente qualche nuova tortura per me?”
“Pensi che per oggi abbiamo finito?” ribatté Bethe.
Vars sapeva per esperienza che non era così. Ogni giorno, sembravano esserci mille cose irritanti da fare, mansioni che gli spezzavano la schiena, e mai abbastanza tempo per farle tutte. Gli doleva ogni muscolo per il lavoro in cucina e di pulizia, per prendere e trasportare quanto occorreva. Sospirò nell’attesa di sentire quale compito gli avrebbe assegnato.
“Oh, non fare così,” affermò Bethe. “Sto scherzando. Prenditi un minuto, bevi un po’ d’acqua. Poi andrò a fare un giro al mercato per vedere se i soldati hanno lasciato del cibo per tutti noi. Peccato che non puoi venire con me, sarebbe utile avere un paio di mani in più per portare le cose.”
Sapevano entrambi le ragioni per cui non poteva accompagnarla. Anche allora, giorni dopo la sua fuga dal castello, la gente poteva dargli la caccia. Se lo avessero trovato, lo avrebbero ucciso, e la paura di ciò era sufficiente a tenerlo in casa e nei pressi, anche se una parte di lui cominciava a sentirsi tanto in prigione quanto in un rifugio sicuro.
Voleva uscire. Il buon senso gli diceva che la cosa migliore da fare era scappare, abbandonare la città, dirigersi verso i luoghi più lontani del regno, o addirittura prendere una barca e avventurarsi verso una delle isole minori. Anche nel Regno del Sud, sarebbe stato più sicuro che lì. La gente poteva capire che era del nord, ma non l’avrebbe riconosciuto per chi era veramente.
Naturalmente, per farlo, doveva uscire dalla città. Ogni volta che Vars metteva piede fuori, però, si sentiva come se vi fossero occhi a guardarlo a ogni finestra, anche se questo poteva avere qualcosa a che fare con l’uniforme che gli era rimasta come unico vestito.
In quel momento, non era sicuro se la divisa fosse un aiuto o un ostacolo. Sarebbe forse passata inosservata a chi non era sulle sue tracce, ma solo finché fosse rimasta abbastanza pulita da farlo sembrare un soldato in servizio. Tuttavia, stava diventando ogni giorno più sporca, facendolo assomigliare sempre più a un disertore, o a un qualche ladro che aveva derubato gli uomini di Re Ravin. Anche se nessuno lo avesse riconosciuto, questo avrebbe potuto rivelarsi mortale.
“Mi servono dei vestiti,” disse.
“E dove li trovo?” domandò Bethe. “Se hai qualche moneta nascosta, potrei acquistarne qualcuno al mercato.”
Vars scosse la testa. Non aveva soldi. Se ne avesse avuti, avrebbe potuto comprare del vino, tanto per cominciare.
“Allora…” riprese Bethe ma qualcuno bussò alla porta, e Vars la vide cambiare drasticamente espressione. “Veloce, sul retro!”
Vars stava già correndo verso la porta che conduceva alla stanza sul retro. L’aveva fatto svariate volte negli ultimi giorni, sfrecciando lì dentro ogni volta che qualcuno si era avvicinato alla porta.
Nella stanza sul retro c’erano un letto, un armadio di quercia poco lavorata e un altro cassettone di legno più leggero, cerchiato con del ferro e chiuso a chiave. C’era anche una piccola sedia, ma Vars resistette all’impulso di sedersi lì sopra, per restare a origliare alla porta. In uno spazio così piccolo, riusciva a cogliere facilmente le parole.
“Va bene, Moira. Domani te lo faccio trovare pronto.”
“Ho sentito dire in giro che hai trovato un uomo, Bethe. Parlano di un soldato.”
Vars si sentì svenire a quelle parole, certo che tutta la città sapesse di lui a quel punto. Desiderava correre, scivolare fuori dal retro dell’abitazione e fuggire in città.
“I pettegoli riportano sempre una cosa per un’altra,” rispose Bethe. “Si tratta di mio cugino, che è venuto da un villaggio per aiutarmi a sbrigare alcune cose. Non so da dove abbiano preso questa storia del ‘soldato’. Voglio dire, ha una camicia rossa…”
Vars restò sorpreso dalla naturalezza con cui Bethe stava mentendo e dal fatto che fosse disposta a farlo per lui.
“Oh, posso conoscerlo?” domandò Moira, e Vars avvertì un nuovo brivido di paura. Perché quella donna non se ne andava e basta?
“Beh, non è qui in questo momento, è andato al mercato.”
“Deve stare attento, vestito di rosso là fuori,” disse Moira. “La gente potrebbe pensare che sia uno di loro. Uhm… è bello?”
“Moira!” Vars avvertì lo shock nella sua voce. “Sei una donna sposata. E quando dico cugino, intendo… non proprio cugino.”
“Beh, se è già impegnato.”
Vars fece una smorfia di disapprovazione. Bethe era stata molto gentile con lui, ma non sembrava interessata a qualcosa di più.
Per fortuna, l’intrusa se ne andò presto, e Vars poté tirare un sospiro di sollievo. Arretrò dalla porta, raggiunse la sedia e, quando Bethe entrò, alzò lo sguardo in attesa.
“Non so perché lo fai,” disse lei. “Sono sicura che ascolti.”
“Io… forse,” replicò Vars. Non voleva essere troppo veloce ad ammetterlo, perché non voleva rischiare che Bethe si arrabbiasse con lui e lo cacciasse.
“Beh, lo farei anch’io, se stessi scappando da qualcuno. Ma questa storia della camicia… Ci penso da un giorno o due ormai.”
“Pensi a cosa?” chiese Vars. Stava per dirgli di andarsene? Dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto?
Bethe si avvicinò al cassettone ed estrasse una grossa chiave di ferro che inserì nella serratura. Vars la sentì scattare mentre la girava. Aprì il cassettone e allungò un braccio per tirare fuori una tunica da contadino di colore chiaro, dei calzoncini scuri e una spessa cintura di cuoio. Vars li fissò sorpreso mentre li tirava fuori.
“Erano di mio marito,” spiegò Bethe. “Era un uomo gentile, lavorava il legno. Era fuori in strada quando i soldati sono arrivati in città e lo hanno…”
“Mi dispiace tantissimo,” la interruppe Vars, ritrovandosi a provare empatia per Bethe. Di norma, il destino di un contadino non avrebbe significato molto per lui, ma ora poteva vedere il dolore che provava la donna che aveva davanti, la sofferenza che le segnava i tratti.
“Edric ti avrebbe dato i suoi vestiti,” continuò Bethe. “Sarebbe stato felice che contribuissero a tenere qualcuno al sicuro. È sempre stato un uomo così generoso.”
Sembrava l’esatto opposto di tutto ciò che era lui, e per un momento si sentì in colpa per essere stato in parte causa dell’orrore che si era abbattuto sulla città. Ma durò poco perché, in verità, cosa avrebbe potuto fare qualcun altro, se non morire?
“Vi sono davvero grato,” disse Vars, prendendo i vestiti con delicatezza. Si tolse di dosso la divisa che aveva rubato, senza curarsi che la tunica fosse un po’ troppo grande per lui, né che la contadina fosse ancora lì mentre si cambiava.
“Ti donano,” affermò Bethe una volta vestito. “Adesso, forse dovremmo bruciare quell’uniforme.”
Vars annuì. Per un momento, con quegli indumenti indosso, si sentì al sicuro, ma le parole di Bethe erano un promemoria del pericolo che stavano ancora correndo. Poteva essere trovato e ucciso da un momento all’altro in quel tugurio, lontano anni luce da qualsiasi cosa appartenesse alla sua vita precedente.
Ma allora perché, si domandò, era felice?
CAPITOLO OTTAVO
Erin sedeva all’esterno e osservava le pale del mulino a vento con la lancia sulle ginocchia. Un casolare giaceva accanto a esso, ai margini di una piccola fattoria anch’essa di proprietà di Harris e sua moglie. Questo significava che c’era abbastanza spazio perché potesse stare da sola, almeno per il momento.
Era un bene, perché meno tempo passava con Odd e meglio era. Era andata da lui per essere allenata, ma poi lui aveva osato trattenerla nella piazza dove Ravin aveva ucciso sua madre.
Se Odd non l’avesse fermata, sarebbe corsa al centro della piazza e magari sarebbe arrivata in tempo per salvare sua madre. Avrebbe potuto almeno abbattere Ravin per quello che aveva fatto. Non essere intervenuta… essere rimasta da una parte a guardare… le faceva ribollire il sangue.
Non era finita lì, però. Tutta la rabbia del mondo non sarebbe bastata a soffocare il dolore che provava. Le lacrime minacciavano di traboccare, ma persino lì, così lontana da chiunque altro, Erin si rifiutava di lasciarle cadere. Accartocciò il suo dolore invece, seppellendolo sotto alla sua ira, usandolo per alimentarla.
Sfilò la custodia dalla punta della sua lancia e si alzò in piedi, iniziando a muoversi con essa, esercitandosi con i colpi e le parate che prevedeva una lotta contro un vero avversario. Mentre si dava a quella danza da battaglia, Erin immaginava il nemico, vedendo il modo in cui si muoveva e ricreando mentalmente ogni suo movimento.
All’inizio, quell’avversario era una cosa amorfa e informe, solo una sagoma anonima che impugnava una spada. Ma non era sufficiente, però, non bastava a farla muovere rapida, né a farle elaborare la rabbia che le si era accumulata nel cervello, mentre si abbassava e saltava, tagliava e affondava.
Lentamente, il suo avversario immaginario assunse le sembianze di Re Ravin, ed Erin accelerò, pensando a tutti i modi in cui avrebbe potuto colpirlo. Nella sua mente, lo uccise un centinaio di volte, trafiggendolo al cuore o alla gola, tagliandogli le arterie del braccio o della gamba con la lama della sua arma. La sua lancia sfrecciò nell’aria davanti al mulino a vento, girando come imitasse le sue pale. Erin immaginò tutte le strade che la lotta avrebbe potuto percorrere, tutte le strade che avrebbero potuto abbattere l’uomo che aveva causato tanta miseria alla sua famiglia.
Lentamente, il volto del suo avversario mutò di nuovo, ed Erin si ritrovò di fronte all’immagine di Odd, lì in piedi con quella sua calma imperturbata, con quel suo sguardo che sembrava associare i suoi sforzi a quelli di una bambina. Erin accelerò di nuovo, colpendo e parando con una velocità violenta adesso, mentre balzava, volteggiava e allungava la sua lancia verso il volto di colui che si stava avvicinando.
Erin trattenne l’arma e riuscì per un soffio a risparmiare Tess, la moglie del mugnaio. Abbassò la lancia e fissò la donna, che teneva in mano un tagliere con una ciotola di stufato e del pane.
“Ho pensato… ho pensato che poteste essere affamata,” disse, suonando un poco spaventata, come se temesse che la furia dentro Erin si riversasse su di lei per consumarla.
“Grazie,” replicò Erin e ricoprì la lunga lama della sua mezza lancia.
“È un’arma insolita,” affermò l’altra donna.
“Un maestro di spada l’ha scelta per me,” rispose Erin. “Ha detto che mi si adattava meglio che una spada lunga. Un giorno la infilerò nel cuore di Ravin.”
Non menzionò l’altra figura contro cui aveva immaginato di combattere. Mangiò, invece, e Tess rimase con lei a tenerle compagnia.
“Vostra sorella è fortunata ad avervi a proteggerla,” disse Tess.
Erin alzò le spalle. “Ciò di cui ha davvero bisogno è un esercito.”
“Beh, potrebbe esserci un inizio almeno su quel fronte,” replicò Tess. “Gli altri volevano che vi riportassi a casa, ma ho pensato fosse meglio farvi mangiare in pace.”
“Cosa intendi con ‘un inizio’?” chiese Erin.
“Venite a vedere,” rispose Tess.
Le fece strada fino al casolare, ed Erin trovò Lenore e Odd di fronte a esso. Lenore era lì in piedi come un generale al comando di un esercito, mentre Odd era appoggiato alla sua spada ricoperta dalla custodia e indossava le sue vesti di monaco al posto di quelle nobili.
Insieme a loro, c’era una mezza dozzina di uomini. Una coppia aveva spade ereditate ovviamente dal servizio militare loro o dei rispettivi padri, mentre gli altri avevano in mano attrezzi agricoli, asce, martelli e persino una falce.
“Erin!” gridò Lenore mentre si avvicinava. Sembrava così felice in quel momento che qualcuno fosse tornato e avesse risposto bene al suo discorso. Erin era felice per lei, ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto fosse piccolo quell’inizio. Gli eserciti avevano bisogno di migliaia di uomini, non di sei.
“Sono venuti perché mi hanno sentita parlare alla locanda,” spiegò Lenore. “Thom e Kurt hanno già servito come soldati in passato, mentre gli altri sono disposti a imparare.”
“Avranno molto da imparare,” intervenne Odd, ed Erin gli lanciò un’occhiataccia, anche se era più o meno quello che aveva pensato lei stessa.
“È un inizio,” riconobbe.
“E si uniranno altri,” aggiunse Lenore. “Harris e Tess ci lasceranno usare la loro fattoria per tutti coloro che verranno. Ci addestreremo qui e produrremo una forza di combattimento che potrà davvero colpire Ravin.”
Erin cercò di immaginare quegli uomini contro i soldati del Regno del Sud. Occorreva addestrarli per bene.
Lenore chiamò Erin e Odd da parte, entrando nel casolare, lontano dagli uomini che avevano appena iniziato a esercitarsi con le loro armi. Harris e Tess andarono con loro.
“C’è un’altra parte in tutto questo,” affermò Lenore, una volta al sicuro all’interno, sistemati davanti a un fuoco che riscaldava la grande cucina dalle pareti di pietra. “Quegli uomini sono un inizio, e ce ne saranno altri, ma se vogliamo vincere, abbiamo bisogno di veri combattenti dalla nostra parte. Ci servono i nobili.”
“Non sono sicuro se vorreste Lord Carrick,” disse Harris. “È… un uomo duro. Parte del motivo per cui la gente non ha reagito al vostro discorso sul nuovo imperatore che ha peggiorato le cose è proprio che Lord Carrick richiede già tasse piuttosto salate.”
“Lascia alla gente a malapena abbastanza per vivere,” aggiunse Tess.
“È lui il signore da queste parti?” chiese Lenore. “Credo di averti sentito pronunciare il suo nome nel giardino del villaggio.”
“Esatto,” rispose Harris. “Vive in un grande castello a sud-est del territorio. Manda i suoi uomini a impiccare i ladri e si assicura che tutti sappiano chi comanda da queste parti.”
A Erin non sembrava diverso dalla metà dei signori del regno. Suo padre aveva cercato di circondarsi di uomini per bene, ma nessuno riusciva a tenersi le terre a meno che non riservasse un pugno duro a banditi e rivolte. Tuttavia, poteva vedere Lenore rimuginarci, e lei stessa stava riflettendo allo stesso tempo.
“Credo di aver sentito parlare di questo Carrick,” affermò Odd. “È, come si dice, un uomo duro, forse anche crudele. Ma una volta era fedele alla corona, quando io ero… beh, prima di diventare questo.”
Si vergognava così tanto di chi era stato? Era così spaventato dalla rabbia che aveva provato? Per Erin, l’ira era l’unica cosa che la faceva muovere in quel momento.
Lenore prese una decisione. “Dobbiamo andare a trovarlo,” disse. “Parlerò con lui e farò tutto il possibile per ottenere il suo sostegno. Se riuscirò a ricordargli la sua lealtà, allora forse avremo i suoi uomini a nostra disposizione.”
“Sarebbe comunque un solo signore,” sottolineò Erin.
Sua sorella annuì. “Lo so, ma dovremo pur cominciare da qualche parte con i lord, proprio come stiamo facendo per radunare un esercito. Una volta che avremo un lord, gli altri seguiranno.”
“Nessuno vuole essere il primo a fare qualcosa,” intervenne Odd. “L’abate diceva che una diga può rimanere intatta per anni, ma una volta che compare la prima goccia, è solo questione di tempo prima che si scateni un’alluvione.”
Erin non sapeva se si trattasse di saggezza, ma per lei era semplicemente irritante. Odd poteva anche indossare le vesti di monaco, ma non c’era nulla di sacro in lui, qualunque cosa fingesse di essere.
“Mentre saremo via, le persone potranno continuare ad aggregarsi,” affermò Lenore. “Questo sarà un luogo di ritrovo e un posto dove potranno iniziare ad allenarsi.” Guardò Harris e Tess. “Se a voi due sta bene. Non voglio mettervi in pericolo.”
“Non ci saremmo offerti se non fossimo stati disposti a correre il rischio,” replicò Tess. “Lasceremo che la gente si riunisca qui, e potranno usare i campi per fare pratica, ma non sono sicura che sapranno come esercitarsi dato che vi sono solo pochi soldati veri.”
Erin colse la sua occasione. “Io resterò.”
Lenore la guardò. “Non vuoi venire?”
“Ci sarà Odd a proteggerti,” replicò Erin, sperando che almeno per quello potesse fidarsi di lui. Era un buon combattente, a prescindere da tutto. “E non c’è bisogno che venga anche io a supplicare qualche nobile per ottenere il suo favore.”
Vide Lenore rifletterci su, ed Erin sapeva il perché. Probabilmente stava pensando a quanto sarebbe stato più cordiale un discorso dove Erin non attaccasse nessuno.
“Potrei iniziare ad addestrare le persone che arrivano,” aggiunse Erin. “I Cavalieri dello Sperone mi hanno cacciata, ma mi sono comunque allenata con loro.”
Lenore non sembrava ancora convinta.
“Almeno una di noi due dovrebbe restare qui,” proseguì Erin. “Solo perché la gente sappia che è tutto reale. Inoltre, questo è il posto dove posso dare il meglio di me. Tu… tu sei abituata a parlare con la gente, sei stata educata a trattare con nobili e cortigiani. Beh, questo è quello in cui sono brava io.”
Alla fine, Lenore annuì. “Se ne sei sicura.”
“Sono sicura,” rispose Erin. Non era mai stata così sicura di qualcosa in vita sua, ma non aveva nulla a che fare con l’eventuale arrivo di altri agricoltori. Aveva un suo piano e se lo avesse applicato bene, avrebbe messo fine a tutto questo, una volta per tutte.
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