Kitabı oku: «La Fabbrica della Magia », sayfa 5

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CAPITOLO CINQUE

Oliver sbatté le palpebre, stupefatto da ciò che vedeva. Diversamente dalla parte di fabbrica – polverosa e ricoperta di ragnatele – che esisteva dalla parte opposta della parete meccanica, qui l’ambiente era caldo e luminoso, luccicante per la pulizia, palpitante di vita.

“Hai freddo?” chiese Armando. “Pare che tu sia stato sotto alla pioggia.”

Lo sguardo di Oliver si spostò sull’inventore. Era scioccato di trovarsi effettivamente faccia a faccia con il suo eroe. Anche se il tempo passava, non riusciva a pronunciare una sola parola.

Oliver cercò di iniziare un discorso dicendo: “Sì,” ma l’unico suonò che gli uscì dalla gola fu una specie di confuso sbuffo.

“Vieni, vieni,” disse Armando. “Ti sistemo con qualcosa di caldo da mandare giù.”

Sebbene fosse senza ombra di dubbio l’Armando del suo libro sugli inventori, il suo volto era invecchiato dal tempo. Oliver fece dei rapidi calcoli nella propria testa: dal suo libro sapeva che la fabbrica di Armando era attiva e funzionante durante la Seconda Guerra Mondiale, e che Armando stesso era stato un giovane appena ventenne durante i suoi anni d’oro, il che significava che ora doveva avere almeno novant’anni! Notò per la prima volta che Armando usava un bastone per sostenere il proprio fragile corpo.

Oliver iniziò a seguirlo attraverso la fabbrica. L’illuminazione era ora troppo scarsa per permettergli di distinguere cosa fossero esattamente le grosse forme attorno a lui, anche se sospettava che si trattasse di altre formidabili invenzioni di Armando, invenzioni funzionanti, diverse da quelle che si trovavano dall’altra parte della parete mobile.

Percorsero un corridoio e Oliver ancora non poteva credere che tutto questo fosse reale. Si aspettava di svegliarsi da un momento all’altro e scoprire che era stato tutto un sogno, causato dalla botta contro la parete del bidone dell’immondizia.

A rendere le cose ancora più fantastiche e irreali agli occhi di Oliver era la fabbrica stessa. Era progettata come la tana di un coniglio, un labirinto pieno di porte e archi e corridoi e scale, tutti che portavano lontano dal piano del corpo principale dell’edificio. Anche quando aveva fatto il giro del perimetro esterno della fabbrica il giorno prima, non aveva notato niente di strano nell’architettura, nessun segno di scale esterne o cose simili. Ma la fabbrica stessa era così enorme, che da fuori sembrava solo un grande parallelepipedo. Nessuno poteva immaginare, guardandola da fuori, come fosse disposto l’interno. Né ci si poteva aspettare una cosa del genere. Sapeva che Armando doveva essere un tipo un po’ schizzato, ma il modo in cui era strutturata la fabbrica era assolutamente bizzarro!

Oliver guardava a destra e a sinistra mentre camminava, vedendo attraverso una porta una grande macchina che assomigliava al primo prototipo di computer di Charles Babbage. Oltre un’altra porta si trovava una stanza con il soffitto altissimo, come una chiesa, con un soppalco su quale si trovava, rivolta verso una parete di vetro, una fila di enormi telescopi in ottone.

Oliver continuò a seguire il barcollante inventore, il fiato continuamente sospeso in gola. Sbirciò dentro a un’altra stanza. Era piena di automi dall’inquietante aspetto umano. E in quella attigua si trovava un intero carro armato, dotato delle armi più strane che Oliver avesse mai visto.

“Non ti preoccupare, Horatio,” disse Armando improvvisamente. Oliver sussultò, risvegliandosi un’altra volta dal suo stato di trance.

Si guardò attorno cercando il cosiddetto Horatio, la sua mente che cercava di immaginare ogni genere di macchinario che si fosse potuto guadagnare quel nome, fino a che notò un segugio dall’aria triste che se ne stava accovacciato in una cesta ai suoi piedi.

Armando continuò a parlare. “La sua artrite è peggio della mia, poverino. Lo rende molto irritabile.”

Oliver lanciò al cane una rapida occhiata, Horatio annusò l’aria al suo passaggio e poi si rimise a dormire con uno stanco sospiro.

Armando arrancò rigidamente in una piccola cucina, facendo strada a Oliver. Era uno spazio modesto e molto disordinato, il genere di cucina che ci si poteva aspettare da un uomo che negli ultimi settant’anni aveva riposto la propria concentrazione sull’invenzione di strani macchinari che non funzionavano.

Oliver sbatté le palpebre sotto le luci fluorescenti e un poco intermittenti.

“Ti piace la zuppa di pomodoro?” chiese improvvisamente Armando.

“Oh…” disse Oliver, ancora incapace di parlare, di comprendere il fatto che il suo eroe gli stesse offrendo di fargli una zuppa.

“Lo prenderò come un sì,” disse Armando sorridendo gentilmente.

Oliver lo vide afferrare due lattine di zuppa da una credenza con le porticine praticamente penzolanti dai cardini. Poi prese da un cassetto un apparecchio che assomigliava esteticamente a un apriscatole, ma che era tanto grande da doverlo usare con due mani.

“Ecco perché dicono che non c’è bisogno di re-inventare la ruota,” disse Armando con una risatina quando notò l’espressione curiosa di Oliver.

Alla fine le lattine furono aperte e Armando si mise al lavoro versando la zuppa in una pentola sopra al piccolo fornelletto. Oliver si trovò completamente congelato, incapace di parlare e di muoversi. Tutto quello che riusciva a fare era fissare quell’uomo, la versione reale, viva e respirante del suo eroe. Si diede anche un paio di pizzicotti per esserne sicuro. Era proprio reale. Era proprio lì. Veramente con Armano Illstrom.

“Prego, siediti,” disse Armando avvicinandosi e mettendo due scodelle di zuppa sul tavolo traballante. “Mangia.”

Almeno Oliver ricordava come mettersi a sedere. Prese posto, sentendosi decisamente molto strano. Armando si accomodò lentamente nella sedia di fronte a lui. Oliver notò quanto fossero velati i suoi occhi, e le macchie della pelle che aveva sul volto. Erano tutti segni che indicavano la sua età avanzata. Quando Armando posò le mani sul tavolo, le nocche apparvero tutte rosse e gonfie per l’artrite.

La pancia di Oliver brontolò mentre il vapore della zuppa gli saliva al volto. Anche se era così scioccato e stupefatto da tutto, l’appetito ebbe il sopravvento, e prima di avere il tempo per pensare, Oliver afferrò il cucchiaio e prese un grosso boccone di zuppa calda a gustosa. Era veramente saporita e nutriente. Molto meglio di qualsiasi cosa avessero mai cucinato i suoi genitori. Ne prese un’altra cucchiaiata, senza neanche curarsi del calore che gli bruciava il palato.

“Buona?” chiese Armando con tono incoraggiante, mangiando la sua zuppa molto più lentamente di lui.

Oliver riuscì a darsi un certo contegno e si fermò fra un boccone e l’altro per annuire.

“Speriamo che ti scaldi presto,” aggiunse Armando con gentilezza.

Oliver non era certo che intendesse scaldarsi per la pioggia gelida o scaldarsi emotivamente. Non aveva davvero detto molto da quando era arrivato lì, ma era così disorientato per il temporale, e poi era rimasto tanto sorpreso dall’aver trovato Armando in carne e ossa, che la sua facoltà di parola lo aveva abbandonato!

Ora provò a parlare, a porre una delle sue domande brucianti. Ma quando aprì la bocca, invece delle parole, uscì un sonoro sbadiglio.

“Sei stanco,” disse Armando. “Ovvio. C’è una camera in più dove puoi fare un pisolino, e vado a prendere delle coperte in più, dato che il tempo si sta facendo davvero freddo al momento.”

Oliver sbatté le palpebre. “Un pisolino?”

Armando annuì, poi spiegò meglio la propria offerta. “Non hai intenzione di tornare in mezzo al temporale, vero? L’ultimo messaggio del sindaco diceva che dobbiamo stare in casa per ore.”

Per la prima volta i pensieri di Oliver andarono ai suoi genitori. Se avevano prestato ascolto alle istruzioni del sindaco ed erano tornati a casa, cosa sarebbe successo quando avessero scoperto che solo uno dei loro figli era riuscito a tornare da scuola? Non sapeva per quanto tempo era rimasto privo di conoscenza dentro al bidone dei rifiuti, né quante ore fossero passate da quando era stato sballottato al suo interno. Sarebbero stati in pena per lui?

Poi cacciò via la propria preoccupazione. I suoi genitori probabilmente non se ne erano neanche accorti. Perché rinunciare all’opportunità di riposare in un letto vero, soprattutto quando l’unica cosa che lo stava aspettando a casa era un’angusta nicchia?

Sollevò lo sguardo e fissò Armando.

“Mi sembra davvero gentile,” disse, riuscendo finalmente a pronunciare una frase intera. “Grazie.” Poi si fermò, pensando alle parole da usare. “Ho così tante domande da farle.”

“Sarò ancora qui quando ti svegli,” disse l’anziano inventore sorridendo con gentilezza. “Quando sarai caldo, sazio e riposato, allora potremo parlare di ogni cosa.”

C’era un’espressione d’intesa nei suoi occhi. Per qualche motivo, Oliver si chiese se Armando sapesse qualcosa di lui, dei suoi strani poteri, delle sue visioni e del loro significato. Ma spinse subito via quei pensieri. Certo che no. Non c’era niente di magico in Armando. Era solo un vecchio inventore in una strana fabbrica, non un prestigiatore o un mago, né nulla del genere.

Improvvisamente schiacciato dalla stanchezza, Oliver non aveva più alcuna forza per pensare. Il temporale, i giorni stressanti del trasloco e l’inizio della nuova scuola, la mancanza di cibo a sufficienza: di colpo era diventato tutto decisamente troppo da gestire.

“Va bene,” ammise. “Ma sarà un riposino velocissimo.”

“Certo,” disse Armando.

Oliver si alzò da tavola strofinandosi gli occhi stanchi. Armando usò il suo bastone come aiuto per sollevare il suo fragile corpo.

“Da questa parte,” disse indicando un corridoio stretto e scarsamente illuminato.

Oliver permise ad Armando di fare strada, trascinandosi stancamente dietro di lui. Il suo corpo era molto pesante adesso, come se avesse tenuto dentro troppo stress e infelicità, e solo ora se ne fosse accorto.

Alla fine del corridoio c’era una strana porta di legno che era più bassa di una porta normale, curva in alto come se appartenesse a una cappella. C’era sopra anche una finestrella con una cornice di ferro brunito.

Armando aprì la porta e invitò Oliver ad entrare. Oliver provò una sensazione di nervosa anticipazione mentre varcava la soglia.

La stanza era più grande di quanto si sarebbe aspettato, e molto più pulita, considerato lo stato della cucina. C’era un grande letto con una trapunta bianca e soffice, e cuscini abbinati, con una coperta di lana in più piegata ai piedi. C’era una scrivania di legno ricoperta di piccoli soldatini da guerra sotto a una finestra con lunghe tende blu. In un angolo della camera c’era una sedia imbottita vicino a una libreria piena di storie d’avventura dall’aspetto emozionante.

Era in tutto e per tutto la camera da letto di un ragazzo di undici anni come Oliver, non certo una nicchia nell’angolo buio e freddo di un salotto privo di arredamento. Oliver provò un’improvvisa ondata di dolore pensando alla propria vita. Ma più forte era la gratitudine per questa improvvisa possibilità di sfuggire a tutto, anche se solo per poche ore.

Oliver si girò a guardare Armando. “È una camera molto bella,” disse. “Sicuro che non le spiace se resto qui?”

Si rese conto in quel momento dei vestiti inzuppati e del puzzo che doveva essersi portato dietro nella fabbrica di Armando. Ma invece di sgridarlo o castigarlo come avevano fatto ieri i suoi genitori con i suoi vestiti bagnati, Armando si limitò a sorridere.

“Spero che dormirai bene e che ti sentirai riposato quando ti svegli,” gli disse. Poi si girò e uscì dalla stanza.

Oliver rimase un altro secondo ancora a bocca aperta prima di rendersi conto di essere troppo stanco anche solo per stare in piedi. Avrebbe voluto ripensare agli strani eventi della giornata, tentare di trovarvi un senso, ripeterli con il pensiero per metterli in ordine e catalogarli nella propria mente. Ma c’era solo una cosa che il suo corpo chiedeva in quel momento, ed era di dormire.

Quindi si sfilò i vestiti, si mise addosso un pigiama un po’ troppo grande che trovò appeso nell’armadio e si infilò a letto. Il materasso era comodo. La trapunta era calda e sapeva di lavanda fresca.

Quando Oliver si fu rannicchiato nel grande e soffice letto, si sentì più al sicuro di quanto si fosse mai sentito in vita sua. Finalmente gli pareva di essere in un posto al quale apparteneva.

CAPITOLO SEI

Il mondo era molto silenzioso. La luce chiara del sole scaldava le palpebre di Oliver, e lui aprì gli occhi. C’era un fascio di luce che filtrava attraverso un’apertura tra le tende.

Oliver ricordò improvvisamente dove si trovava. Si mise a sedere, sbattendo le palpebre e osservando la camera nella fabbrica di Armando. Era tutto reale. Si trovava veramente lì.

Improvvisamente si rese conto che era mattina. Il suo pisolino si era trasformato in un sonno profondo che era durato tutta la notte e si era protratto fino al giorno dopo. Non avrebbe dovuto esserne così sorpreso: il letto era il più caldo e comodo in cui avesse mai dormito. La fabbrica di Armando gli dava più la sensazione di casa di tutte le precedenti dimore che aveva avuto. Si stiracchiò sotto la trapunta, crogiolandosi nella felicità e nella completa serenità che quel luogo gli donava. Non avrebbe voluto andarsene mai.

Ma cosa avrebbe fatto la sua famiglia, si chiese Oliver con crescente senso di angoscia. Ormai dovevano essersi accorti della sua scomparsa. Non era tornato a casa per una notte intera. Magari pensavano che fosse stato spazzato via dal temporale. Dovevano essere preoccupati.

Sebbene il pensiero lo allarmasse, c’era un altro lato della medaglia. Se davvero pensavano che fosse stato spazzato via dal temporale, questo significava che poteva anche permettersi di non tornare a casa mai più…

Oliver si aggrappò ai suoi pensieri, in qualche modo intrappolato tra l’angoscia di causare loro una sorta di dolore e l’eccitazione di fronte all’opportunità che il fato gli aveva apparentemente presentato. Alla fine decise di proporre la questione ad Armando.

Sentendosi rinvigorito dalla bella dormita, Oliver saltò giù dal letto e corse fuori dalla stanza per trovare Armando. Corse tra i cunicoli da tana di coniglio, cercando di tornare al piano principale della fabbrica, dove sospettava che avrebbe trovato il vecchio inventore. Ma quel posto era un labirinto. Porte che era convinto fossero state lì il giorno prima, ora sembravano non esserci più. Fu solo quando trovò la cucina e Horatio, il segugio che pisolava nel suo cesto, che riuscì a capire dove si trovava e quale fosse la direzione giusta da prendere.

Finalmente arrivò al corpo centrale della fabbrica. Alla chiara luce del giorno era ancora più maestoso di quanto fosse apparso nella luce velata del temporale. Ora riusciva a vedere tutto bene fino al soffitto – che era alto quanto quello di una cattedrale – notando che al di sopra dei travi di legno erano appollaiati diversi uccelli meccanici. Altri svolazzavano qua e là tra i travetti, muovendosi in tutto e per tutto come uccelli veri, eccetto per il fatto che le loro ali erano di ottone e gli occhi di piccole lucine rosse che brillavano. Scorse anche dei pipistrelli che dormivano appesi a testa in giù, con le loro grandi ali di metallo avvolte attorno al petto.

“Ma come diamine…?” mormorò Oliver a voce alta, ammirando la miriade di macchine volanti sopra la sua testa.

“Ah, Oliver, buongiorno,” disse la voce di Armando.

Lo sguardo di Oliver si abbassò di scatto portandosi verso il pavimento della fabbrica. Lì c’era Armando, intento ad alzarsi da un macchinario sul quale stava chino e occupato ad armeggiare. Immediatamente Oliver perse tutto il coraggio di chiedergli se fosse possibile restare nella fabbrica.

“Hai dormito bene?” chiese il vecchio inventore.

“Sì,” disse Oliver. “A dire il vero, meglio che mai. Ma doveva essere solo un pisolino. Perché non mi ha svegliato quando il temporale è finito?”

Armando ridacchiò. “Ci ho provato, ragazzo caro, ma eri addormentato così profondamente. Ho immaginato che avessi veramente bisogno di una bella dormita.” Sorrise. “Ora, ho promesso di raccontarti tutto della mia fabbrica e della mia vita come inventore, giusto? Vuoi fare un po’ di colazione prima? Una doccia? Degli abiti puliti?”

Fu solo a quel punto che Oliver si rese conto di avere ancora addosso il pigiama. Esitò, rimuginando sull’offerta di Armando. Colazione, doccia calda e abiti puliti non sarebbero state cose che i suoi genitori gli avrebbero offerto una volta tornato a casa. Si convinse che non avrebbe fatto alcun male fermandosi ancora un po’. Se non altro per ascoltare i racconti di Armando.

“Se è della tua famiglia che ti preoccupi, magari li dovresti chiamare?” aggiunse l’anziano inventore, cogliendo la sua esitazione.

Quella era l’ultima cosa che Oliver avrebbe voluto fare. Scosse la testa. “Va bene così. Prima possiamo fare un giro.”

Il vecchio inventore allungò un braccio e mise una mano ferma ma rassicurante sulla spalla di Oliver. Lo fissò con i suoi occhi velati. Oliver poté vedere la profonda gentilezza e il calore che emanavano. Erano degni di fiducia e lo imploravano di rilassarsi. Non per la prima volta da quando era arrivato alla fabbrica, Oliver ebbe la sensazione che Armando sapesse più di quanto lui lasciava trapelare.

L’uomo indicò con la mano l’area della fabbrica.

“Prego, da questa parte,” disse.

I pensieri della sua famiglia si allontanarono dalla mente di Oliver, mentre la curiosità prendeva il sopravvento. Camminava lentamente accanto ad Armando, seguendo il suo passo.

“Avevo più o meno la tua età, Oliver,” iniziò Armando, “quando ho iniziato a creare le mie personali invenzioni. Niente che funzionasse, bada bene.” Ridacchiò. “Penso di essere riuscito a produrre una fionda meccanica, ma tutto qui.”

Oliver ripensò alla trappola esplosiva che aveva creato e usato contro Chris. La coincidenza lo colpì, e la sensazione rimase lì sospesa, mescolandosi con tutte le altre emozioni che gli scorrevano dentro.

“Ero bravissimo a scuola,” continuò Armando, “anche se non andavo tanto d’accordo con nessuno degli altri ragazzi.”

“Io lo stesso,” aggiunse Oliver.

Raggiunsero una stanza e Armando vi entrò. Era una biblioteca con il soffitto alto e il pavimento in legno. Una scala a chiocciola conduceva a un secondo piano dove c’era una poltrona a motivo floreale che dava l’idea di essere particolarmente comoda, affiancata da una grande lampada da lettura.

Armando prese un libro dallo scaffale a cui era vicino. Era un tomo rilegato in pelle con il titolo d’oro stampato in rilievo: Odontodactylus scyllarus.

“Ero un lettore vorace,” proseguì Armando. “Volevo imparare tutte le leggi della fisica, volevo sapere tutto della storia dell’aviazione. Ogni cosa. Ero quello che oggi chiameresti un nerd.”

Oliver annuì. La storia di Armando era così simile alla sua, e la cosa gli dava conforto. Lo guardò riporre con attenzione il libro al suo posto. Poi uscì lentamente dalla stanza. Oliver lo seguì, trascinato dalla curiosità.

“Terminai la scuola con ottimi voti e andai all’università,” continuò Armando mentre camminava. “È stato a quel punto che le cose hanno iniziato davvero ad andare alla grande per me. Per la prima volta avevo accesso a materiali e strumenti, a laboratori, e ovviamente ad alcuni brillanti mentori. Alcune delle menti migliori della storia.”

All’improvviso un fagiano meccanico volò sopra le loro teste e Oliver sussultò abbassandosi per schivarlo: l’uccello lo sfiorò. Armando dal canto suo non parve tanto sorpreso dall’intrusione e continuò a parlare. Oliver si raddrizzò e si sistemò i capelli.

“Lì c’era entusiasmo per l’innovazione,” stava dicendo il vecchio inventore. “E la guerra mi concesse una vera opportunità. Erano propensi a correre dei rischi per delle menti brillanti come la mia. Iniziai a inventare cose che fossero utili per la guerra, capisci.”

Indicò la stanza nella quale si trovavano. Oliver vide che era quella con all’interno il carro armato. C’erano una miriade di strane armi che sporgevano dalla sua struttura. Alla luce Oliver poté anche vedere che c’erano ogni genere di diversi cingoli e copertoni disposti attorno alla stanza, alcuni fatti di gomma, altri di metallo, altri ricoperti da punte affilate.

“Mi hanno dato questa fabbrica,” disse Armando proseguendo. “E delle persone che lavorassero con me.”

“Davvero?” chiese Oliver un po’ sorpreso. Il suo libro non aveva veramente parlato di Armando come responsabile della fabbrica. Lo avevano ritratto come un tipo strano, qualcuno che si perdeva in voli pindarici e fantasiosi piuttosto che una persona a cui affidare la conduzione di una fabbrica, e non di certo uno che l’avesse fatto con successo.

Armando annuì. “Lo so. Sembra strano a pensarlo adesso. Adesso che tutto qui è diventato così… tranquillo.”

Parve per un momento perso nei suoi pensieri. Ma poi si ridestò e tornò alla realtà, portando Oliver lentamente avanti.

Entrarono in una stanza piena di fialette di vetro e liquidi ribollenti, con piccoli becchi Bunsen disposti in fila e grossi macchinari scoppiettanti. La stanza era calda e puzzava di strani prodotti chimici. Oliver arricciò il naso.

“Forse hai sentito i pettegolezzi,” disse Armando, “riguardo al fatto che ogni cosa io inventassi non funzionasse.”

Oliver si sentì in imbarazzo per l’anziano inventore e arrossì. “Sì, li ho sentiti.”

Armando annuì silenziosamente. “Mi portarono via i miei collaboratori. Li mandarono altrove, in posti dove sarebbero stati più utili. Chiusero la fabbrica. Ufficialmente almeno. Io continuai a lavorare qui in gran segreto.”

Il muro segreto! Certo. Non c’era da stupirsi che quell’ala della fabbrica fosse così strana e relegata dietro alla parete mobile. Armando aveva dovuto nascondersi per fare in modo che nessuno scoprisse il suo lavoro e per poterlo portare avanti.

“Quindi siete qui da solo da allora?” chiese Oliver.

“Non-trovato sarebbe la parola giusta,” disse Armando. Sospirò, come se ci fosse un qualche peso a schiacciarlo e si picchiettò la testa con un dito ossuto. “Ho così tanta conoscenza qua dentro, e nessuno a cui tramandarla. Nessun figlio e nessuna figlia. Nessun apprendista.”

Si portarono lentamente vicino a una macchina. Era l’invenzione a forma di grossa pentola che Oliver aveva visto il primo giorno nella parte vecchia. Ma mentre quella era ricoperta di polvere ed era caduta in disuso, questa sembrava nuova di zecca.

Oliver ne toccò il meccanismo di ottone con un dito.

“La chiamo Veduta Volante,” disse Armando.

“Cosa fa?” chiese Oliver.

“Ti permette di guardare giù dall’alto in certi punti. Avrebbe dovuto essere di aiuto con le ricognizioni durante la guerra.”

Oliver si accigliò. “Ma come funziona? Servirebbero delle videocamere in cielo. E a cosa serve questo contenitore? E questo pezzo che ruota? Non capisco.”

Ci rimuginò sopra. Forse era qualcosa che aveva a che fare con le correnti elettromagnetiche che passavano attraverso le gocce di pioggia nelle nuvole, producendo una specie di immagine nello stesso modo in cui si forma un ultrasuono, o come i pipistrelli usano un radar per vedere. Ma anche questo era troppo folle da comprendere per Oliver. Sul serio, l’unico modo in cui una cosa del genere avrebbe potuto funzionare era per mezzo di una qualche forza fisica non ancora scoperta. Una sorta di magia.

Armando fece un sorriso malinconico. “Non ha mai funzionato. C’era sempre un ingrediente mancante. Con ciascuna delle mie grandi invenzioni, ce n’era sempre e solo uno che mancava.”

Oliver si chiese cosa intendesse dire Armando con questo. Cosa poteva essere l’ingrediente mancante a cui alludeva?

Si rese conto che Armando si era portato più avanti e corse a raggiungerlo.

“Quindi sta creando invenzioni da settant’anni?” chiese.

“E continuo,” rispose Armando.

“Non l’hanno mandata a combattere dopo aver chiuso la fabbrica?”

Armando fece un’espressione di disgusto. “Avrei dovuto essere chiamato come tutti gli altri. Ma il governo voleva che tentassi di finire la mia invenzione più grande. Quella che sarebbe stata incredibilmente utile ai fini bellici. Mi concessero un’ultima possibilità di farla funzionare.”

“Cos’era?” chiese Oliver. Ricordava le pagine del suo libro sugli inventori. Dicevano che Armando stava lavorando a una macchina del tempo prima che la guerra mettesse in stallo i suoi sforzi. Cosa intendeva?

Armando scosse la testa. “Non ha mai funzionato, quindi non importa.”

Parve ancora più triste. Oliver si sentiva male per aver riportato alla memoria un fallimento passato che chiaramente lo scuoteva ancora.

“Mai dire mai,” disse in un tentativo di riportare l’inventore alla sua normale allegria. “Magari domani sarà il giorno in cui troverà il pezzo mancante.”

Ma invece di tirargli su il morale, le parole di Oliver parvero rendere Armando ancora più malinconico. Si mise lentamente a sedere, le giunture che scricchiolavano.

“Il mio tempo sta scadendo, Oliver,” disse. “Ho i giorni contati.”

Oliver ebbe la netta sensazione che non si stesse solo riferendo alla sua età avanzata, ma a qualcosa di più specifico, qualcosa che incombeva all’orizzonte, forse qualcosa di cui aveva sentore.

Armando sospirò stancamente. Pareva che il suo entusiasmo fosse esaurito del tutto. Con voce triste disse: “Immagino che questo concluda la visita.”

Oliver scattò sull’attenti. Si sentiva svuotato. Non poteva essere finita. Non voleva che questo momento con il suo eroe giungesse a una conclusione. Avrebbe voluto restare lì per sempre, non andarsene mai. Ma già mentre Armando si alzava e andava verso la porta facendogli segno di seguirlo, Oliver non riuscì a tirare fuori il coraggio per chiederglielo. Era di nuovo incapace di parlare.

Silenziosamente, la gola gonfia di codardia, Oliver seguì Armando fino al lungo corridoio. Da una parte c’era la porta della camera dove aveva dormito la scorsa notte. Gli era sembrata la sua camera, come se avesse dovuto stare lì da sempre. Ma girarono dalla parte opposta, allontanandosi dalla bella e comoda cameretta, diretti verso la parte vecchia della fabbrica.

Quando raggiunsero l’area centrale dell’edificio, Oliver si guardò attorno con un senso di desiderio. La vista di tutti i macchinari e le travi piene di pipistrelli e uccelli meccanici lo sorprendeva ancora. Pensare a tutte quelle macchine meravigliose create da Armando lo lasciava a bocca aperta. Oliver si rese conto amaramente di non aver mai avuto la possibilità d lavorare ad esse insieme al suo eroe.

“È stato piuttosto piacevole conoscerti, Oliver,” disse allora Armando, porgendogli la mano.

Era gentile come sempre, ma Oliver percepì la malinconia nella sua voce. Strinse la mano dell’anziano inventore, cercando di pensare a come affrontare l’argomento di una sua possibile permanenza lì, ma non riusciva davvero a trovare le parole.

“Sì,” fu tutto quello che riuscì a dire. “È stato davvero magnifico”

Poi si allontanò da Armando e si diresse verso il muro mobile. Trascinava i piedi mentre camminava, e pensava tristemente alla vita alla quale stava tornando, con l’orribile nicchia e quel bullo di fratello che si ritrovava.

Raggiunse la parete e iniziò a cercare la leva. Fu lì che vide un tavolino con della posta e il giornale del giorno posati sopra. Oliver vide i volti tristi di sua madre, suo padre e Chris. Sussultò. Cosa ci facevano sul giornale? Diede un’occhiata al titolo: Ragazzo sparito nel temporale. Appello dei genitori.

Si sentì stringere il cuore. Quindi erano davvero preoccupati per lui? I suoi sensi di colpa lo assalirono ancora più pesantemente.

Afferrò il giornale e lo aprì. A quel punto si accorse che nel titolo c’era dell’altro. Ora che lo poteva leggere tutto, il titolo nella sua interezza diceva: Ragazzo sparito nel temporale. Appello dei genitori per supporto economico per aiuti nella ricerca.

Il cuore gli sprofondò nel petto. Ovvio, pensò amaramente. I suoi genitori non erano realmente preoccupati per lui. Nel breve tempo della sua scomparsa, avevano già trovato un modo per spremere la situazione al fine di ricavarne appoggio e denaro. Quando fosse tornato a casa sarebbero stati probabilmente seccati, perché avrebbe rovinato il loro momento di protagonismo e avrebbe inoltre messo fine al denaro che il generoso pubblico stava elargendo loro con l’inganno.

Esitò accanto al muro, la mano sulla leva. Dall’altra parte c’era il mondo che conosceva, un mondo fatto di bulli e tormento, di disperazione e potenzialità limitate. Ma da questa parte, dalla parte di Armando, c’era molto di più. Qui poteva realizzare i suoi sogni. E la fabbrica di Armando lo faceva sentire più a casa di quanto fosse stata capace qualsiasi delle altre dimore avute in passato e nel presente. Qui aveva una camera, aveva la saggezza e una possibilità per imparare. Allontanarsene sarebbe stata una follia. Non poteva fare a meno di pensare che quello fosse il suo posto. Che non ci fosse niente per lui dall’altra parte, niente di niente. Questa era casa sua.

Una sferzata di coraggio lo colpì allora come un fulmine. Lentamente Oliver ritirò la mano dalla leva. Si girò e fece un passo in avanti, guardando con sicurezza la figura di Armando dalla parte opposta del corridoio. Aveva ancora la gola gonfia e bloccata, come se non volesse permettergli di pronunciare le parole che intendeva dire, ma in qualche modo trovò la forza di proiettare la propria voce dall’altra parte della fabbrica, e pronunciare a voce alta le parole che voleva così disperatamente dire.

“Mi lasci restare a darle una mano. Se mi lasciate restare, potrei portarle una prospettiva nuova e fresca.”

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Yaş sınırı:
16+
Litres'teki yayın tarihi:
10 ekim 2019
Hacim:
341 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781640297067
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