Kitabı oku: «Rito Di Spade », sayfa 2

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Dopo quasi un’ora di intenso combattimento, le perdite dell’Impero causarono una ritirata in grossa scala. Qualcuno dalla loro parte suonò un corno e uno alla volta iniziarono a voltarsi e galoppare via, cercando di farsi strada fuori dalla città.

Con un grido ancora più forte Kendrick e i suoi uomini si lanciarono dietro di loro, rincorrendoli attraverso Lucia, verso i cancelli dalla parte opposta della città.

Chiunque fosse rimasto del battaglione dell’Impero, ancora alcune centinaia di uomini, scappava per salvarsi la pelle in una sorta di caos organizzato, correndo verso l’orizzonte. Si levò un tonante grido all’interno di Lucia da parte dei prigionieri MacGil liberati. Gli uomini di Kendrick avevano sciolto le corde che li tenevano legati e li avevano liberati man mano che procedevano. I prigionieri non avevano perso tempo ed erano corsi verso i cavalli dei soldati dell’Impero morti, erano saliti in sella, avevano strappato le armi ai cadaveri e si erano uniti agli uomini di Kendrick.

L’esercito di Kendrick si era ingrossato di quasi il doppio e le migliaia di nuovi soldati rincorrevano ora le truppe dell’Impero, salendo e scendendo le colline avvicinandosi a loro sempre di più. O’Connor e gli altri arcieri riuscirono a colpirne alcuni e numerosi corpi cadevano qua e là.

La caccia continuò e, mentre Kendrick si chiedeva dove stessero andando, lui e i suoi uomini giunsero alla sommità di una collina particolarmente alta e guardando verso il basso videro una delle più grandi città a est di Silesia – Vinesia – chiusa tra due montagne e distesa in una valle. Era una città notevole, molto più grande di Lucia, con spesse mura di pietra e cancelli di ferro rinforzati. Era lì, si rese conto Kendrick, che i resti del battaglione dell’Impero stavano fuggendo, dato che la città era sorvegliata e protetta da decine di migliaia di uomini di Andronico.

Kendrick si fermò con i suoi uomini in cima alla collina e studiò la situazione. Vinesia era una città grande e loro erano sempre in grossa minoranza numerica. Sapeva che sarebbe stata una follia tentare e che la cosa più sicura da fare sarebbe stata tornare a Silesia e accontentarsi della vittoria di quel giorno.

Ma Kendrick non era dell’umore giusto per scelte sicure e non lo erano neanche i suoi uomini. Volevano il sangue. Volevano la vendetta. E in una giornata come quella le probabilità non contavano più nulla. Era tempo di far sapere all’Impero di che pasta erano fatti i MacGil.

“CARICA!” gridò Kendrick.

Si levò un urlo e migliaia di uomini si lanciarono in avanti, scendendo temerariamente la collina diretti verso la grande città e l’ancora più grande nemico, pronti a dare le loro vite, a rischiare tutto per l’onore e il valore.

CAPITOLO QUATTRO

Gareth tossiva e ansimava mentre si trascinava nel desolato paesaggio: le labbra screpolate per la mancanza d’acqua, gli occhi scavati e segnati da profondi cerchi neri. Erano state poche giornate tormentate e più di una volta aveva pensato di essere sull’orlo della morte.

Gareth era scappato per il rotto della cuffia dagli uomini di Andronico a Silesia, nascondendosi in un passaggio segreto all’interno di un muro e restando in attesa. Aveva aspettato, rannicchiato come un ratto nel buio, il momento opportuno. Gli sembrava di essere rimasto là dentro per giorni. Da lì aveva visto ogni cosa: aveva assistito con incredulità all’arrivo di Thor in groppa a un drago, che aveva ucciso tutti quegli uomini dell’Impero. Nella confusione e caos che si erano generati, Gareth aveva colto la sua possibilità.

Era sgattaiolato fuori attraverso il cancello posteriore di Silesia mentre nessuno guardava e aveva preso la strada che portava verso sud, procedendo lungo il crinale del Canyon e rimanendo per lo più nei boschi in modo da non essere visto. A ogni modo non aveva importanza: le strade erano vuote comunque. Tutti si stavano muovendo verso est per combattere la grande battaglia per l’Anello. Gareth notò i corpi carbonizzati degli uomini di Andronico buttati lungo la strada e capì che la battaglia lì, a sud, era già stata combattuta.

Gareth si spinse ancora più a sud: il suo istinto lo guidava di nuovo verso la Corte del Re, o ciò che ne era rimasto. Sapeva che era stata devastata dagli uomini di Andronico, che probabilmente ne restavano solo le rovine, ma voleva lo stesso andarci. Voleva allontanarsi da Silesia e andare in un posto che sapeva poter essere per lui un porto sicuro. Il luogo che tutti gli altri avevano abbandonato. Il luogo dove lui, Gareth, aveva un tempo regnato da supremo sovrano.

Dopo giorni di cammino, debole e delirante per la fame, Gareth era finalmente emerso dai boschi e aveva scorto in lontananza la Corte del Re. Eccola lì, le mura ancora intatte – almeno parzialmente – ma annerite e pericolanti. Tutt’attorno c’erano cadaveri degli uomini di Andronico, prova che Thor era stato lì. Per il resto era vuota, non vi era rimasto nient’altro che l’ululare del vento.

Era perfetta per Gareth. Ad ogni modo non aveva programmato di entrare nella città. Era andato lì per recarsi presso una piccola struttura nascosta proprio fuori dalle mura. Era un posto che aveva frequentato da bambino, un edificio di marmo a pianta circolare, alto pochi metri e decorato da elaborate statue attorno al tetto. Aveva sempre avuto un aspetto antico, così basso, come se fosse qualcosa di nato dal terreno. E lo era. Era la cripta dei MacGil. Il luogo dove era stato sepolto suo padre dopo le onoranze funebri sulla Rupe Colviana e dopo il periodo di lutto. E prima di lui tutti gli altri re MacGil.

La cripta era il genere di edificio che Gareth sapeva sarebbe stato lasciato intatto. Dopotutto, a chi avrebbe interessato attaccare una tomba? Era il posto rimasto dove sapeva che nessuno si sarebbe neppure preoccupato di cercarlo e dove quindi avrebbe trovato rifugio. Era un posto dove poteva nascondersi e rimanere completamente solo. Un posto dove avrebbe potuto stare insieme ai suoi antenati. Per quanto Gareth odiasse suo padre, stranamente in quei giorni si trovava a desiderare di essergli vicino.

Attraversò di corsa il prato  e una fredda folata di vento lo fece rabbrividire. Si strinse quindi il logoro mantello attorno alle spalle. Sentì il verso acuto di un uccello invernale e sollevando lo sguardo notò un enorme e orribile creatura nera che ruotava in alto sopra la sua testa, sicuramente in attesa del suo crollo, che avrebbe così determinato la sua cena. Gareth non poteva biasimarla. Si sentiva allo stremo delle forze ed era consapevole di avere l’aspetto di un pasto succulento agli occhi di quell’uccellaccio.

Alla fine raggiunse l’edificio, afferrò la massiccia maniglia di ferro della porta con due mani e tirò con tutta la sua forza. Gli girava la testa ed era ormai delirante per la stanchezza. La porta cigolò e gli servirono tutte le sue forze per riuscire ad aprirla.

Gareth corse nel buio, sbattendo la porta di metallo, che riecheggiò alle sue spalle.

Afferrò una torcia spenta dal muro, dove sapeva che era appesa, strofinò la pietra focaia e la accese, permettendosi così di avere la luce sufficiente per vedere davanti a sé mentre scendeva i gradini, sempre più giù nel buio. Diventava a ogni passo più freddo e pieno di spifferi, il vento trovava fessure per soffiare all’interno, fischiando tra le piccole fenditure. Gareth non poteva fare a meno di sentirsi come se i suoi antenati gli stessero ululando contro, rimproverandolo.

“LASCIATEMI IN PACE!” urlò in risposta.

La sua voce riecheggiò ripetutamente rimbalzando contro le pareti della cripta.

“AVRETE PRESTO IL VOSTRO RISCATTO!”

Ma il vento continuava.

Gareth, furioso, scese più a fondo, fino a che raggiunse la grande sala di marmo, scavata nella terra e con un soffitto di tre metri, dove tutti i suoi avi erano sepolti in sarcofagi di marmo. Gareth marciò solennemente lungo il corridoio e i suoi passi risuonarono sul marmo. Raggiunse l’estremità della stanza, dove giaceva suo padre.

Il Gareth di un tempo avrebbe picchiato contro il sarcofago di suo padre. Ma ora, per una qualche ragione, stava iniziando a provare una certa affinità con lui. Non capiva perché. Forse era l’oppio che si stava dileguando dentro di sé, o forse perché sapeva che presto anche lui sarebbe morto.

Gareth toccò il grande sarcofago e si chinò su di esso, abbassando la testa. Si sorprese quando iniziò a piangere.

“Mi manchi, padre,” disse singhiozzando, la voce riecheggiante nella stanza vuota.

Continuò a piangere, le lacrime gli scendevano lungo il volto, fino a che le ginocchia gli si fecero più deboli e crollò esausto a terra, sedendosi sul pavimento, appoggiato addosso alla tomba. Il vento ululò come in risposta e Gareth mise giù la torcia che ardeva sempre più debolmente: una fiammella che si spegneva nell’oscurità. Gareth sapeva che presto tutto sarebbe stato buio e che avrebbe raggiunto tutti quelli che amava di più.

CAPITOLO CINQUE

Steffen camminava triste lungo il solitario sentiero nella foresta, allontanandosi lentamente dalla Torre dell’Asilo. Gli spezzava il cuore lasciare Gwendolyn lì a quel modo, la donna che aveva giurato di proteggere. Senza di lei, lui non era niente. Da quando l’aveva incontrata aveva sentito di aver finalmente trovato uno scopo nella vita: sorvegliarla, consacrare la propria vita a ripagarla per avergli permesso – a lui, un mero servitore – di salire di rango. E soprattutto per essere stata la prima persona nella sua vita a non detestarlo e sottovalutarlo per il suo aspetto.

Steffen aveva provato un senso di orgoglio nell’aiutarla a raggiungere sana e salva la Torre. Ma lasciarla lì lo aveva svuotato. Dove sarebbe andato adesso? Cosa avrebbe fatto?

Senza lei da proteggere, la sua vita sembrava di nuovo priva di scopo. Non poteva tornare alla Corte del Re né a Silesia: Andronico aveva sconfitto entrambe le città e gli tornò in mente la distruzione che aveva visto quando era fuggito da Silesia. L’ultima cosa che ricordava era la sua gente catturata e fatta schiava. Non avrebbe avuto senso tornare. Inoltre Steffen non aveva intenzione di riattraversare l’Anello e stare così lontano da Gwendolyn.

Camminò senza meta per ore, serpeggiando lungo i sentieri della foresta, cercando di riflettere, fino a che gli venne in mente dove andare. Seguì la strada di campagna verso nord, salì una collina – il punto più alto – e da quella posizione privilegiata scorse un piccolo villaggio arroccato su un’altra collina in lontananza. Si diresse da quella parte, e quando la raggiunse vide che quella cittadina aveva ciò che gli serviva: una perfetta visuale della Torre dell’Asilo. Se Gwendolyn avesse mai cercato di andarsene da lì, voleva essere abbastanza vicino ed essere sicuro di poterla accompagnare e proteggere. Dopotutto la sua lealtà era verso di lei ora. Non verso un esercito o una città, ma verso lei. Lei era la sua nazione.

Quando Steffen arrivò nel piccolo e umile villaggio decise che sarebbe rimasto lì, in quel luogo, da dove avrebbe sempre potuto osservare la Torre e tenere sott’occhio Gwen. Attraversando i cancelli notò che si trattava di un villaggio povero e ordinario, un altro piccolo insediamento ai confini dell’Anello, così nascosto nella Foresta Meridionale che gli uomini di Andronico sicuramente non si erano presi la briga di andare da quella parte.

Steffen arrivò sotto gli sguardi stupiti di decine di paesani: volti dipinti di ignoranza e mancanza di compassione, tutti a guardarlo a bocca aperta e con quella familiare espressione di beffa e derisione che aveva incontrato da quando era nato. Mentre tutti osservavano il suo aspetto lui sentiva su di sé i loro occhi beffardi.

Avrebbe voluto girarsi e andarsene di corsa, ma si sforzò di non farlo. Aveva bisogno di stare vicino alla Torre, e per il bene di Gwendolyn avrebbe sopportato qualsiasi cosa.

Un abitante del villaggio, un uomo robusto sulla quarantina, vestito di stracci come gli altri, si voltò e si diresse severo verso di lui.

“Cos’abbiamo qui, una specie di scherzo della natura?”

Gli altri risero, girandosi a loro volta e avvicinandosi.

Steffen rimase calmo, aspettandosi quel genere di accoglienza cui era abituato da una vita. Aveva imparato che più le persone erano provinciali, più si divertivano a ridicolizzarlo.

Si raddrizzò e si assicurò che l’arco fosse al posto giusto appeso alla sua spalla, in caso quei paesani fossero non solo crudeli, ma anche violenti. Sapeva che, se ce ne fosse stato bisogno, ne avrebbe messi al tappeto molti in un batter d’occhio. Ma lui non era lì per la violenza. Era lì per trovare riparo.

“Sembra essere ben più che un semplice personaggio strano, giusto?” chiese un altro mentre il gruppo di persone si ingrossava attorno a lui facendosi sempre più minaccioso.

“Da come è vestito direi di sì,” disse un altro. “Guardate l’armatura reale.”

“E quell’arco: è pelle pregiata.”

“Per non parlare delle frecce. Punte d’oro, vero?”

Si fermarono a pochi passi da lui, guardandolo con volti minacciosi. Gli fecero ricordare i bulli che lo tormentavano da bambino.

“Allora, chi sei, pagliaccio?” chiese uno di loro.

Steffen fece un respiro profondo, determinato a stare calmo.

“Non ho intenzione di farvi del male,” iniziò.

Tutti scoppiarono a ridere.

“Del male? Tu? Che male potresti mai farci?”

“Non potresti nuocere neanche ai nostri polli,” rise un altro.

Steffen avvampò mentre le risa si intensificavano, ma non voleva lasciarsi provocare.

“Ho bisogno di un posto dove stare e di cibo da mangiare. Ho mani callose e forti per lavorare. Assegnatemi un compito e mi darò da fare. Non mi serve molto. Lo stretto necessario.”

Steffen voleva perdersi nuovamente nel duro lavoro, come quello svolto in tutti gli anni passati nei sotterranei del castello a servire re MacGil. Gli avrebbe tenuto la mente lontana dai pensieri. Poteva lavorare sodo e vivere nell’anonimato come si era preparato a fare prima di incontrare Gwendolyn.

“E tu ti definisci un uomo?” gridò uno di loro, ridendo.

“Forse possiamo usarlo in qualche modo,” disse un altro.

Steffen lo guardò speranzoso.

“Magari nei combattimenti contro i cani o i polli!”

Tutti risero.

“Pagherei per vederlo!”

“Là fuori c’è una guerra, se non l’avete notato,” disse Steffen freddamente. “Sono sicuro che anche in una cittadina provinciale e semplice come questa, potete dare una mano a mantenere le provviste.”

Gli abitanti si guardarono confusi.

“Certo che sappiamo della guerra,” disse uno, “ma il nostro villaggio è troppo piccolo. Gli eserciti non si preoccupano minimamente di venire da questa parte.”

“Non mi piace il modo in cui parli,” disse un altro. “Tutto affettato. Sembra che ti sia stata impartita una qualche istruzione. Pensi di essere meglio di noi?”

“Non sono meglio di nessuno,” disse Steffen.

“Questo è ovvio,” rise un altro.

“Basta chiacchiere!” intervenne uno degli abitanti con tono serio.

Si fece avanti e spinse gli altri con forti manate. Era più anziano e sembrava una persona seria. La folla fece silenzio in suo presenza.

“Se dici sul serio,” disse l’uomo con voce profonda e brusca, “posso aver bisogno di due mani in più nel mio mulino. La paga è un sacco di grano al giorno e una caraffa d’acqua. Dormirai nel granaio insieme agli altri ragazzi. Se ti va bene, sei assoldato.”

Steffen annuì, soddisfatto di vedere finalmente una persona seria.

“Non chiedo niente di più,” disse.

“Da questa parte,” disse l’uomo, facendosi largo tra la folla.

Steffen lo seguì e si fece condurre a un grande mulino di legno attorno al quale si trovavano al lavoro ragazzi e uomini. Tutti sudati e sporchi, stavano in una corsia fangosa e spingevano un’enorme ruota di legno tenendo in mano ciascuno un’asta dietro alla quale camminavano. Steffen rimase lì, osservò il lavoro e capì che sarebbe stata un’altra attività di quelle da spezzargli la schiena. Ma l’avrebbe fatto.

Si voltò verso l’uomo per dirgli che accettava, ma l’uomo se n’era già andato, dando per scontato che avrebbe preso quel lavoro. I paesani con pochi altri risolini si voltarono e tornarono alle loro occupazioni, mentre Steffen guardava la ruota, la nuova vita che gli si proiettava davanti.

Per un piccolo sprazzo di tempo era stato debole e si era permesso di sognare. Si era immaginato una vita di castelli e regalità. Si era visto diventare una persona importante, il braccio destro della regina. Avrebbe dovuto sapere che non era il caso di alimentare pensieri così elevati. Era chiaro che non era destinato a una vita del genere. Non lo era mai stato. Ciò che gli era successo, l’incontro con Gwendolyn, era stata una combinazione. Ora la sua vita sarebbe stata relegata a questo. Ma questa almeno era una vita che conosceva. Una vita che capiva. Una vita dura. E senza Gwendolyn era la vita giusta per lui.

CAPITOLO SEI

Thor spingeva Micople sempre più veloce mentre sfrecciavano fra le nuvole, avvicinandosi sempre di più alla Torre dell’Asilo. Sentiva con tutto se stesso che Gwen era in pericolo. Sentiva la vibrazione scorrergli fino alle punte delle dita, in tutto il corpo, dicendogli qualcosa, dandogli un avvertimento. Gli diceva di andare più veloce.

Più veloce.

“Più veloce!” gridò a Micople.

Micople ruggì sommessamente in risposta e sbatté con maggior forza le ali. Thor non avrebbe neanche avuto bisogno di pronunciare le parole: Micople capiva tutto anche prima che lui lo dicesse. Ma pronunciare le parole lo faceva sentire meglio. Si sentiva inutile. Aveva la sensazione che qualcosa di molto grave riguardasse Gwen e che ogni secondo fosse preziosissimo.

Finalmente uscirono da un cumulo di nubi e Thor si sentì immensamente sollevato vedendo ciò che appariva all’orizzonte: la Torre dell’Asilo. Era un edificio antico e misterioso, una torre stretta e a base perfettamente circolare che si innalzava verso il cielo, toccando quasi le nuvole. Era costruita con un’antica pietra nera e luccicante e Thor ne percepiva il potere anche da lì.

Mentre si avvicinavano in volo, improvvisamente scorse qualcosa in alto, in cima alla torre. Era una persona. Era in piedi sul bordo, le mani in fuori, di lato. Aveva gli occhi chiusi e stava ondeggiando in balia del vento.

Thor capì subito di chi si trattava.

Gwendolyn.

Il cuore iniziò a martellargli in petto quando la vide stare lì. Capì cosa stava pensando. E sapeva perché. Gwen pensava di aver fallito e lui non poteva fare a meno di pensare che era tutta colpa sua.

“PIÙ VELOCE!” gridò.

Micople sbatté le ali ancora di più: volavano così veloci che Thor faceva fatica a respirare.

Avvicinandosi Thor vide Gwen fare un passo indietro, sul pianerottolo, di nuovo verso la salvezza del tetto, e il cuore gli si colmò di sollievo. Senza neanche vederlo, aveva cambiato idea da sola e aveva deciso di non saltare.

Micople ruggì e Gwen sollevò lo sguardo vedendo Thor per la prima volta. I loro occhi si incontrarono, anche a quella distanza, e lui vide lo sbalordimento sul suo volto.

Micople atterrò sul tetto e subito Thor balzò a terra, prima ancora che fosse scesa completamente, e corse verso Gwendolyn.

Lei si voltò e lo fissò, gli occhi sgranati in assoluta sorpresa. Sembrava che stesse guardando un fantasma.

Thor correva verso di lei, il cuore che gli batteva forte in petto, pervaso dalla trepidazione, e allungò le braccia. Si abbracciarono e Thor la sollevò tenendola stretta a sé, facendola girare.

La sentì piangere e le sue lacrime gli scendevano sul collo. Non poteva credere di essere veramente lì, con Gwen tra le braccia, in carne e ossa. Era vero. Era il sogno che aveva visto con l’occhio della sua mente, giorno dopo giorno, notte dopo notte, anche quando era nel mezzo dell’Impero, quando era stato certo di non fare mai ritorno e di non rivederla mai più. E ora eccolo lì, a stringerla a sé.

Dopo esserle stato lontano così a lungo ogni cosa di lei gli sembrava nuova. Sembrava tutto perfetto. E Thor giurò che non avrebbe mai più dato per scontato un solo altro momento della sua vita con lei.

“Gwendolyn,” le sussurrò nell’orecchio.

“Thorgrin,” rispose lei con un filo di voce.

Si tennero stretti a lungo, poi lentamente si scostarono e si baciarono. Fu un bacio appassionato e nessuno dei due avrebbe voluto interromperlo.

“Sei vivo,” disse Gwen. “Sei qui. Non posso crederci.”

Micople sbuffò e Gwendolyn guardò oltre le spalle di Thor mentre il drago dava un colpo d’ali. Il volto le si pietrificò per il terrore.

“Non avere paura,” le disse Thor. “Si chiama Micople. È mia amica. E sarà anche amica tua. Lascia che te la presenti.”

Thor prese Gwen per mano e la accompagnò lentamente dall’altra parte del parapetto. Sentiva la sua paura mentre si avvicinavano. Capiva. Dopotutto quello era un vero drago in carne e ossa, e Gwen non ci era sicuramente mai stata così vicina in vita sua.

Micople guardò Gwen con i suoi grandi e brillanti occhi rossi, sbuffò gentilmente e sbatté le ali arcuando il collo all’indietro. Thor percepì una sorta di gelosia, mista forse a curiosità.

“Micople, ti presento Gwendolyn.”

Micople girò la testa dall’altra parte, altezzosa.

Poi improvvisamente si rigirò e guardò Gwen fisso negli occhi, come se la stesse analizzando. Si chinò in avanti, così vicina che il suo muso quasi le toccava il volto.

Gwen sussultò per la sorpresa e il rispetto, forse per la paura. Allungò una mano tremante e la posò delicatamente sul naso di Micople, toccando le sue scaglie viola.

Dopo diversi secondi Micople sbatté le palpebre e abbassò il naso, strofinandolo contro la pancia di Gwen in segno di affetto. Continuò a strusciarsi a quel modo, come se fosse incollata a Gwen e Thor non riusciva a capire perché.

Poi, sempre velocissima, Micople girò la testa e guardò all’orizzonte.

“È bellissima,” sussurrò Gwen.

Si voltò a guardare Thor.

“Avevo abbandonato ogni speranza che tornassi,” gli disse. “Non pensavo che ce l’avresti fatta.”

“Neanche io,” rispose Thor. “Il pensiero di te è quello mi ha sostenuto. Mi ha dato un motivo per vivere. Per tornare.”

Si abbracciarono di nuovo, tenendosi stretti mentre la brezza li accarezzava, poi si scostarono.

Gwendolyn abbassò lo sguardo e notò la Spada della Dinastia appesa alla cintura di Thor e sgranò gli occhi sussultando.

“Hai riportato la Spada,” disse. Lo guardò incredula. “Sei tu il prescelto che può maneggiarla.”

Thor annuì.

“Ma come…” iniziò, ma poi si interruppe. Era chiaramente sopraffatta dalle emozioni.

“Non lo so,” disse Thor. “Ci sono riuscito e basta.”

Gli occhi di Gwen si fecero pieni di speranza mentre pensava alle conseguenze.

“Allora lo Scudo è attivo di nuovo,” disse speranzosa.

Thor annuì con solennità.

“Andronico è in trappola,” disse. “Abbiamo già liberato la Corte del Re e Silesia.”

Il volto di Gwendolyn si tinse di gioia e sollievo.

“Sei stato tu,” disse, capendo. “Hai liberato le nostre città.”

Thor scrollò le spalle con modestia.

“È stata per lo più Micople. E la Spada. Io ho solo partecipato passivamente.”

Gwen era raggiante.

“E il nostro popolo? Sono salvi? È sopravvissuto qualcuno?

Thor annuì.

“Per la maggior parte sono salvi e stanno bene.”

Gwen quasi brillava di contentezza, sembrava essere nuovamente ringiovanita.

“Kendrick ti aspetta a Silesia,” disse Thor. “E ti aspettano anche Godfrey, Reece, Srog e molti, molti altri. Sono tutti sani e salvi e la città è libera.”

Gwen corse ad abbracciare Thor, tenendolo stretto a sé. Lui poté sentire il sollievo scorrerle nelle vene.

“Pensavo fosse tutto perduto,” disse, piangendo sommessamente. “Tutto perduto per sempre.”

Thor scosse la testa.

“L’Anello è sopravvissuto,” le disse. “Andronico è in fuga. Torneremo e lo spazzeremo via una volta per tutte. E poi ci metteremo a ricostruire.”

Gwendolyn si voltò improvvisamente e distolse lo sguardo, osservando il cielo e asciugandosi le lacrime. Si strinse addosso il mantello e voltò le spalle a Thor, il volto colmo di apprensione.

“Non so se posso tornare,” disse esitante. “Mi è successa una cosa. Mentre eri via.”

Thor la fece girare e la guardò, tenendole le mani sulle spalle.

“So quello che ti è successo,” disse. “Tua madre me l’ha detto. Non c’è niente di cui vergognarsi,” le disse.

Gwendolyn lo guardò, gli occhi pieni di sorpresa e meraviglia.

“Tu sai?” gli chiese, scioccata.

Thor annuì.

“Non significa niente,” la rassicurò. “Ti amo come non mai. Ancora di più. È il nostro amore che conta. È indistruttibile. Ti vendicherò. Ucciderò Andronico con le mie stesse mani. E il nostro amore non morirà mai.”

Gwen lo abbracciò con forza e le lacrime scorsero sul collo di Thor. Lui sentiva quanto fosse sollevata.

“Ti amo,” gli disse Gwen in un orecchio.

“Anche io ti amo,” rispose lui.

Mentre Thor stava lì, tenendola stretta, il cuore gli batteva per la trepidazione. Voleva ora, in quel momento più che mai, porle la fatidica domanda. Chiederle di sposarlo. Ma sentiva anche di non poterlo fare fino a che non le avesse raccontato il suo segreto, fino a che non le avesse detto chi era suo padre.

Il pensiero  lo colmò di vergogna e umiliazione. Eccolo lì, appena compiuto il giuramento di uccidere l’uomo che entrambi odiavano più di ogni altro al mondo. E come poteva dire subito dopo che Andronico era suo padre?

Thor si sentiva certo che se l’avesse fatto, Gwendolyn l’avrebbe odiato per sempre. E non poteva rischiare di perderla. Non dopo tutto quello che era successo. La amava troppo.

Quindi, con mani tremanti, prese la collana dalla tasca interna della camicia, quella che aveva trovato tra i tesori dei draghi, con il laccio d’oro e il cuore dorato tempestato di diamanti e rubini. La tenne alta contro luce e Gwen sussultò vedendola.

Thor si portò dietro di lei e gliela agganciò attorno al collo.

“Un piccolo segno del mio amore e del mio affetto,” le disse.

Le stava divinamente addosso, l’oro brillava alla luce, riflettendo ogni cosa.

L’anello gli bruciava nella tasca e Thor giurò di darglielo al momento giusto. Quando avrebbe trovato il coraggio di dirle la verità. Ma non era il momento, per quanto sperasse che lo fosse.

“Quindi, come vedi puoi tornare,” disse Thor accarezzandole la guancia con il dorso della mano. “Devi tornare. La tua gente ha bisogno di te. Hanno bisogno di una guida. L’Anello senza una guida non è niente. Guardano a te per essere condotti. Andronico occupa ancora metà dell’Anello. Le nostre città hanno ancora bisogno di essere ricostruite.”

La guardò negli occhi e vide che stava pensando.

“Di’ di sì,” le fece pressione. “Ritorna con me. Questa torre non è il posto giusto dove una giovane donna possa trascorrere il resto dei suoi giorni. L’Anello ha bisogno di te. Io ho bisogno di te.”

Thor tese una mano in fuori e rimase in attesa.

Gwendolyn abbassò lo sguardo soppesando la situazione.

Poi alla fine allungò una mano e la pose in quella di Thor. Gli occhi le si fecero più brillanti, scintillanti di amore e calore. Thor capì che la Gwendolyn di un tempo stava lentamente tornando, piena di vita, amore e gioia come una volta. Era come un fiore che si stava rischiudendo davanti ai suoi occhi.

“Sì,” disse con delicatezza, sorridendo.

Si abbracciarono e lui la tenne stretta, giurando di non lasciarla mai più.

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