Kitabı oku: «Schiava, Guerriera, Regina », sayfa 3
Tutte le speranze che erano morte poco prima le vennero risvegliate nel petto.
“Non dirlo a tua madre,” la avvisò. “Nascondila dove lei non possa trovarla, altrimenti la venderà.”
Ceres annuì.
“Per quanto starai via?”
“Cercherò di venire a trovarvi prima che nevichi.”
“Ma sarà fra mesi!” disse lei facendo un passo indietro.
“È quello che devo fare…”
“No. Vendi la spada. Resta!”
Lui le mise una mano sulla guancia.
“Vendere questa spada potrebbe anche aiutarci per questa stagione. E forse per la prossima. E poi?” Scosse la testa. “No, abbiamo bisogno di una soluzione a lungo termine.”
Lungo termine? Improvvisamente Ceres capì che quel nuovo lavoro non sarebbe stato solo per pochi mesi. Poteva trattarsi di anni.
Si sentì ancora più abbattuta.
Lui fece un passo avanti e la abbracciò.
Ceres si mise a piangere tra le sue braccia.
“Mi mancherai, Ceres,” le disse tenendola appoggiata contro la sua spalla. “Tu sei diversa da tutti gli altri. Ogni giorno guarderò il cielo e saprò che tu sei sotto alle stesse stelle. Farai lo stesso anche tu?”
Inizialmente avrebbe volute gridargli contro, dirgli: come osi lasciarmi qui da sola.
Ma sentiva nel cuore che lui non poteva restare, e non voleva rendere le cose ancora più difficili di quanto già non fossero.
Una lacrima le scorse lungo il viso. Lei tirò su col naso e annuì con un cenno del capo.
“Mi metterò ogni notte sotto al nostro albero,” disse.
Lui la baciò sulla fronte e la strinse teneramente. Le ferite che aveva sulla schiena erano come coltelli, ma lei strinse i denti e rimase in silenzio.
“Ti voglio bene, Ceres.”
Ceres avrebbe voluto rispondere, ma non riuscì a dire nulla, aveva le parole incastrate in gola.
Lui prese il cavallo dalla posta e lei lo aiutò a caricare il cibo, gli attrezzi e le provviste. Suo padre la abbracciò un’ultima volta e lei pensò che il petto potesse esploderle per la tristezza. Lo stesso non riuscì a pronunciare una singola parola.
Lui montò a cavallo e fece un cenno della testa prima di far partire l’animale.
Ceres lo salutò con la mano mentre si allontanava e lo guardò con estrema attenzione fino a che svanì dietro alla collina lontana. L’unico vero amore che mai avesse conosciuto veniva da quell’uomo. E ora lui se n’era andato.
Iniziò a piovere, gocciolandole sulla faccia.
“Padre!” gridò più forte che poté. “Padre, ti voglio bene!”
Cadde in ginocchio e nascose il volto tra le mani, singhiozzando.
Sapeva che la vita non sarebbe più stata la stessa.
CAPITOLO TRE
Con i piedi doloranti e i polmoni che bruciavano, Ceres risaliva la ripida collina più velocemente che poteva senza versare una goccia d’acqua dai secchi che teneva ai fianchi. Normalmente si sarebbe fermata per una pausa, ma sua madre l’aveva minacciata di non darle la colazione se non fosse tornata prima dell’alba. E niente colazione significava che non avrebbe mangiato fino a cena. Ad ogni modo non si curava del dolore: quello almeno le permetteva di tenere fuori dalla testa il pensiero di suo padre e del nuovo miserabile stato delle cose da quando se n’era andato.
Il sole stava proprio facendo capolino da dietro il monte Alva in lontananza, dipingendo le nuvole sparpagliate di oro e rosa, mentre un vento debole soffiava appena attraverso l’erba alta e gialla che cresceva da entrambe le parti della strada. Ceres inspirò la fresca aria del mattino con il naso e si spinse ad andare più veloce. Sua madre non avrebbe accettato la scusa che il solito pozzo era prosciugato o che c’era una lunga fila all’altro che si trovava a quasi due chilometri da lì. Non si fermò fino a che non raggiunse la cima della collina, e arrivata lì si immobilizzò, stupita da ciò che si trovò davanti.
Lì in lontananza c’era la sua casa e davanti ad essa si era fermato un carro color bronzo. Sua madre si trovava davanti allo stesso e parlava con un uomo che era così sovrappeso che Ceres pensò di non aver mai visto nessuno che arrivasse neppure alla metà della sua stazza. Indossava una tunica di lino bordeaux e un cappello di seta rossa. La barba era lunga, arruffata e grigia. Strizzò gli occhi cercando di capire. Era un mercante?
Sua madre aveva indosso il suo abito migliore, una veste di lino verde che arrivava fino a terra e che aveva comprato anni prima con i soldi che si sarebbero dovuti usare per le scarpe nuove di Ceres. Non aveva senso.
Con esitazione Ceres iniziò a scendere la collina. Teneva gli occhi fissi sull’uomo e quando vide che quello porgeva a sua madre un pesante borsello di pelle e notò il volto emaciato della donna illuminarsi, si fece ancora più curiosa. La loro sfortuna era mutata? Suo padre sarebbe potuto tornare a casa? Quel pensiero le alleggerì di un poco il petto, ma non si concesse di provare alcuna eccitazione fino a che non avesse appreso i dettagli della faccenda.
Quando Ceres fu più vicina alla casa, sua madre si voltò verso di lei e le sorrise calorosamente. Immediatamente Ceres sentì un nodo di preoccupazione allo stomaco. L’ultima volta che sua madre le aveva sorriso in quel modo – i denti brillanti e gli occhi luminosi – le era arrivata una frustata.
“Cara figliola,” le disse con tono eccessivamente dolce, aprendo le braccia verso di lei con un sorriso che le fece gelare il sangue.
“Questa è la ragazza?” chiese l’uomo con sorriso bramoso, gli occhi luccicanti e neri che si spalancavano guardando Ceres.
Ora che era vicina, Ceres poteva vedere ogni singola ruga sulla pelle di quell’obeso. Il suo naso largo e piatto sembrava occupargli tutta la faccia e quando si tolse il cappello la sua testa calva e sudata brillò alla luce del sole.
La madre quasi danzò raggiungendo Ceres, le prese i secchi di mano e li appoggiò sull’erba riarsa. Solo quel gesto confermò a Ceres che c’era qualcosa che veramente non andava. Iniziò a sentire una sensazione di panico crescerle dentro.
“Ecco il mio orgoglio e la mia gioia, la mia unica figlia Ceres,” disse sua madre fingendo di asciugarsi una lacrima da un occhio anche se non ce n’era nessuna. “Ceres, questo è Lord Blaku. Ti prego di portare rispetto per il tuo nuovo padrone.”
Uno scatto di paura pugnalò Ceres al petto. Fece un improvviso respiro. Guardò sua madre e dando le spalle a Lord Blaku la donna le sorrise in modo estremamente malvagio.
“Padrone?” chiese Ceres.
“Per salvare la nostra famiglia dalla rovina finanziaria e dall’imbarazzo pubblico, il benevolo Lord Blaku ha offerto a tuo padre e a me un generoso accordo: un sacco d’oro in cambio di te.”
“Cosa?” sussultò Ceres, sentendosi sprofondare in terra.
“Ora fai la brava ragazza che tutti conosciamo e mostra rispetto,” le disse lanciandole un’occhiata di avvertimento.
“No,” disse Ceres facendo un passo indietro e spingendo il petto in fuori, sentendosi stupida per non aver immediatamente capito che quell’uomo era un mercante di schiavi e che la transazione riguardava la sua vita.
“Mio padre non mi venderebbe mai,” aggiunse a denti stretti, con crescente orrore e indignazione.
Sua madre si accigliò e le afferrò un braccio affondandole le unghie nella pelle.
“Se ti comporti bene quest’uomo potrebbe prenderti come moglie, il che è una cosa molto fortunata,” mormorò.
Lord Blaku si leccò le labbra sottili e screpolate mentre i suoi occhi gonfi scorrevano avidamente lungo il corpo di Ceres. Come poteva sua madre farle una cosa del genere? Sapeva che non le voleva tanto bene quanto ai fratelli, ma proprio questo?
“Marita,” disse l’uomo con voce nasale, “mi hai detto che tua figlia era bella, ma non mi aveva detto che era una creatura così meravigliosa. Oserei dire di non aver mai visto una donna con labbra succulente come le sue, con occhi così pieni di passione e con un corpo così perfetto e delizioso.”
La madre di Ceres si mise una mano sul cuore facendo un sospiro e Ceres ebbe l’impressione di poter vomitare in quel preciso istante. Strinse i pugni e strappò il braccio dalla presa di sua madre.
“Forse avrei dovuto chiedere di più, se le piace così tanto,” disse la madre di Ceres abbassando gli occhi avvilita. “Dopotutto è la nostra unica e adorata figlia.”
“Sono intenzionato a pagare bene per questa bellezza. Sono sufficienti altri cinque pezzi d’oro?” chiese l’uomo.
“Molto generoso da parte vostra,” rispose la donna.
Lord Blaku si diresse verso il carro per prendere altro oro.
“Mio padre non sarebbe mai d’accordo con questo,” sibilò Ceres.
Sua madre fece un passo minaccioso verso di lei.
“Oh, ma è stata un’idea di tuo padre,” disse lei di scatto, con le sopracciglia sollevate a metà della fronte. Ceres sapeva che adesso stava mentendo. Ogni volta che faceva quell’espressione stava mentendo.
“Pensi davvero che tuo padre ami te più di quanto ami me?” le chiese.
Ceres sbatté le palpebre, chiedendosi cosa questo avesse a che fare con quel discorso.
“Non potrei mai amare una che pensa di essere meglio di me,” aggiunse.
“Non mi hai mai voluto bene?” chiese Ceres con la rabbia che mutava in scoraggiamento.
Con l’oro in mano Lord Blaku si portò davanti alla madre di Ceres e glielo porse.
“Tua figlia vale ogni singolo pezzo,” disse. “Sarà una brava moglie e mi darà molti figli.”
Ceres si morse l’interno del labbro e scosse più volte la testa.
“Lord Blaku verrà a prenderti in mattinata, quindi va’ dentro e prepara le tue cose,” disse la madre di Ceres.
“No!” gridò Ceres.
“È sempre stato questo il tuo problema, ragazza mia. Pensi sempre e solo a te stessa. Quest’oro,” disse sua madre facendole tintinnare il borsello davanti al viso, “terrà in vita i tuoi fratelli. Terrà integra la nostra famiglia, permettendoci di restare nella nostra casa e rimetterla in sesto. Non ci hai pensato?”
Per una frazione di secondo Ceres pensò che forse si stava comportando da egoista, ma poi si rese conto che sua madre stava giocando con la sua mente, usando il suo affetto per il suoi fratelli contro di lei.
“Non si preoccupi,” disse la donna girandosi verso Lord Blaku. “Ceres acconsentirà. Dovete solo essere fermo e deciso con lei, e diventerà docile come un agnellino.”
Mai. Mai sarebbe stata la moglie né tantomeno la proprietà di quell’uomo. E mai avrebbe permesso a sua madre di scambiare la sua vita per cinquantacinque pezzi d’oro.
“Non andrò mai con questo schiavista,” disse seccamente Ceres, lanciandogli un’occhiata di disgusto.
“Figlia ingrata!” gridò sua madre. “Se non farai come ti dico, ti picchierò così forte che non potrai più camminare. E adesso entra!”
Il pensiero di essere picchiata da sua madre le riportò ricordi orribili e cruenti: venne riportata dalla memoria al terribile momento di quando aveva cinque anni e sua madre l’aveva picchiata fino a farle perdere i sensi. Le ferite per quelle botte e per molte altre in seguito erano guarite, ma le ferite nel cuore di Ceres non avevano mai smesso di sanguinare. E ora che sapeva per certo che sua madre non le voleva bene, e che mai gliene aveva voluto, il suo cuore si era frantumato una volta per tutte.
Prima di poter rispondere, la madre di Ceres fece un passo avanti e le diede uno schiaffo in viso così forte da farlo risuonare nelle orecchie.
All’inizio Ceres fu sbalordita dall’assalto di sua madre e quasi arretrò. Ma poi qualcosa scattò dentro di lei. Non si sarebbe permessa di tirarsi indietro come aveva sempre fatto.
Ceres colpì sua madre sulla guancia, così forte da farla andare in terra sussultando per l’orrore.
Rossa in viso la donna si rimise in piedi, afferrò Ceres per le spalle e per i capelli e le diede una ginocchiata nello stomaco. Quando Ceres si piegò in avanti per il dolore, sua madre le piantò un ginocchio in faccia, facendola cadere a terra.
Il mercante di schiavi stava in piedi a guardare con gli occhi sgranati, chiaramente deliziato dalla lotta.
Ancora tossendo e ansimando per il primo assalto, Ceres si tirò in piedi. Gridando si gettò verso sua madre spingendola al suolo.
Tutto questo finirà oggi, fu tutto ciò che poté pensare. Tutti gli anni che non era stata amata e che era stata trattata con sdegno alimentavano la sua rabbia. Ceres prese sua madre a pugni più e più volte mentre lacrime di furia le scendevano dagli occhi e singhiozzi incontrollati le uscivano dalle labbra.
Alla fine la donna si accasciò.
Le spalle di Ceres si scuotevano a ogni gemito e aveva lo stomaco aggrovigliato. Con la vista annebbiata dalle lacrime, sollevò lo sguardo verso lo schiavista con odio ancora più intenso.
“Sarai veramente perfetta,” disse Lord Blaku con un sorriso mentre sollevava la borsa d’oro da terra e se la legava alla cintura di pelle.
Prima che Ceres potesse reagire, le sue mani le erano già addosso. La afferrò e la mise sul carro, spingendola dentro con una mossa rapida, come se fosse un sacco di patate. La sua stazza massiccia e la sua forza erano troppo per permetterle di opporre resistenza. Tenendole i polsi con una mano e l’estremità di una catena con l’altra, disse: “Non sono tanto stupido da pensare che domani mattina sarai ancora qui.”
Lei guardò la casa che era stata sua per diciotto anni e i suoi occhi si riempirono di lacrime al pensiero dei suoi fratelli e di suo padre. Ma doveva prendere una decisione se voleva salvarsi, prima che la catena le finisse attorno alla caviglia.
Quindi con una rapida mossa raccolse tutta la sua forza e strappò il braccio dalla presa dell’uomo, sollevò una gamba e gli diede un calcio in faccia più forte che poté. Lui cadde indietro giù dal carro ed atterrò al suolo.
Ceres saltò dal carro e corse più veloce che poté lungo la strada terrosa, lontano dalla donna che aveva giurato di non chiamare mai più madre, lontano da tutto ciò che aveva sempre conosciuto e amato.
CAPITOLO QUATTRO
Circondato dalla famiglia reale, Tano si sforzava di mantenere un’espressione positiva in volto mentre stringeva in mano il calice dorato pieno di vino, ma gli era difficile. Odiava stare lì. Odiava quella gente, la sua famiglia. E odiava partecipare agli incontri di corte, soprattutto quelli che facevano seguito alle Uccisioni. Sapeva come viveva la gente, quanto erano poveri, e trovava insensato e ingiusto tutto quel fasto e quella superbia. Avrebbe dato qualsiasi cosa per stare lontano da lì.
Tano stava lì insieme ai suoi cugini Lucio, Aria e Vario, ma non faceva il minimo sforzo per prendere parte alle loro futili conversazioni. Guardava invece gli ospiti di corte che si aggiravano nei giardini del palazzo con addosso le loro toghe e le stole, mostrando sorrisi finti e comportandosi con falso garbo. Alcuni dei suoi cugini si stavano gettando addosso pezzetti di cibo mentre correvano sui prati ben rasati e in mezzo alle tavole piene di cibo e vino. Altri stavano ricostruendo le loro scene preferite delle Uccisioni, ridendo e deridendo coloro che avevano perso la loro vita quel giorno.
Tano pensava che tra quelle centinaia di persone non ci fosse nessuno di onorabile.
“Il prossimo mese comprerò questi tre combattenti,” disse Lucio, il più grande, con tono da sbruffone asciugandosi gocce di sudore dalla fronte con un fazzolettino di seta. “Stefano non valeva la metà di quello che l’ho pagato, e se non fosse già morto, lo avrei trafitto io stesso con una spada per aver combattuto come una ragazzina nel primo round.”
Aria e Vario risero, ma Tano non trovava divertente il suo commento. Che considerassero le Uccisioni un gioco o meno, avrebbero dovuto rispettare il coraggioso e il morto.
“Beh, avete visto Brennius?” chiese Aria sgranando i grossi occhi blu. “A dire il vero avevo considerato di comprarlo, ma mi ha lanciato quello sguardo presuntuoso quando l’ho guardato allenarsi. Ci credereste?” aggiunse facendo ruotare gli occhi e sbuffando.
“E puzza come una moffetta,” aggiunse Lucio.
Tutti risero di nuovo, eccetto Tano.
“Nessuno di noi l’avrebbe scelto,” disse Vario. “Anche se è durato più a lungo di quanto mi sarei aspettato, aveva una forma orribile.”
Tano non poteva stare in silenzio un secondo di più.
“Brennius era il combattente con la forma migliore in tutta l’arena,” disse. “Non parlate dell’arte di combattere se non ne sapete niente.”
I cugini fecero silenzio e gli occhi di aria si allargarono come dischi mentre abbassava lo sguardo a terra. Vario spinse il petto in fuori e incrociò le braccia, accigliandosi. Si fece più vicino a Tano, come a volerlo sfidare, e nell’aria si sentì una palpabile tensione.
“Bene, lasciamo perdere quegli insignificanti combattenti,” disse Aria mettendosi tra loro due nel tentativo di sdrammatizzare. Fece segno ai ragazzi di farsi più vicini e poi sussurrò: “Ho sentito un pettegolezzo bizzarro. Un uccellino mi ha detto che il re vuole avere qualcuno di sangue reale a competere nelle Uccisioni.”
Tutti si scambiarono uno sguardo inquieto e fecero silenzio.
“Può anche essere,” disse Lucio. “Ma non sarò io. Non ho intenzione di mettere a rischio la mia vita per uno stupido gioco.”
Tano sapeva di poter sconfiggere la maggior parte di combattenti, ma uccidere un essere umano non era qualcosa che desiderasse.
“Hai solo paura di morire,” disse Aria.
“Non è vero,” ribatté Lucio. “Ritira quello che hai detto!”
Tano aveva finito la pazienza. Se ne andò.
Vide un’altra cugina, Stefania, che se ne andava in giro come se stesse cercando qualcuno, forse proprio lui. Qualche settimana prima la regina aveva detto che lui era predestinato a sposare Stefania, ma Tano aveva sentimenti diversi. Stefania era viziata come il resto dei suoi cugini e avrebbe preferito rinunciare al proprio nome e alla propria eredità, anche alla spada, piuttosto che sposarla. Era decisamente bella, vero – capelli dorati, pelle bianca come il latte, labbra rosso sangue – ma se doveva ascoltarla continuamente parlare di quanto la vita fosse ingiusta, si sarebbe piuttosto tagliato via le orecchie.
Si portò di soppiatto verso i margini del giardino, in direzione dei cespugli di rose, evitando di incrociare lo sguardo di qualsiasi invitato. Ma appena svoltato l’angolo, Stefania gli si parò davanti, gli occhi castani illuminati.
“Buonasera, Tano,” disse con un sorriso abbagliante che avrebbe fatto cadere in brodo di giuggiole la maggior parte dei ragazzi lì presenti. Tutti eccetto Tano.
“Buonasera anche a te,” disse Tano scansandola e continuando a camminare.
Lei sollevò la stola e lo seguì come una fastidiosa zanzara.
“Non trovi come sia ingiusto che…” iniziò.
“Ho da fare,” la interruppe Tano con tono più rude di quanto volesse, facendola sussultare. Poi si girò verso di lei. “Scusa… sono solo stanco dopo tutte queste feste.”
“Magari ti andrebbe di fare una passeggiata con me?” chiese Stefania inarcando le sopracciglia mentre si faceva più vicina.
Quella era proprio l’ultima cosa che lui desiderasse.
“Senti,” disse, “so che la regina e tua madre si sono messe in testa che noi in qualche modo potremmo stare insieme, ma…”
“Tano!” udì chiamare dietro di sé.
Tano si girò e vide un messaggero del re.
“Il re vorrebbe che lo raggiungessi al gazebo lì davanti,” disse. “E anche voi, mia signora.”
“Posso chiedere perché?” chiese Tano.
“C’è molto di cui parlare,” disse il messaggero.
Non avendo avuto delle conversazioni regolari con il re in passato, Tano si chiese cosa potesse significare.
“Certamente,” disse Tano.
Con suo grande disappunto una raggiante Stefania lo prese sottobraccio e insieme seguirono il messaggero fino al gazebo.
Quando Tano notò diversi consiglieri del re e anche un principe già seduti sulle panche e sulle sedie, trovò strano che avesse invitato anche lui. Avrebbe avuto a fatica qualcosa di valido da offrire alla loro conversazione, dato che la sua opinione su come veniva governato l’Impero era fortemente diversa da quella dei presenti. La miglior cosa da fare, pensò tra sé e sé, sarebbe stata di tenere la bocca chiusa.
“Che coppia amorevole siete,” disse la regina con un caldo sorriso quando arrivarono.
Tano strinse le labbra e offrì a Stefania un posto per sedersi accanto a lui.
Quando tutti si furono sistemati, il re si alzò in piedi e il gruppo fece silenzio. Suo zio indossava una toga lunga fino al ginocchio, ma se le altre erano bianche, rosse e blu, la sua era viola, un colore riservato solo ai re. Attorno alle tempie, dove i capelli si stavano facendo sempre più radi, si trovava una ghirlanda dorata. Le sue guance e gli occhi non presentavano un’espressione felice, seppur stesse sorridendo.
“Il popolo si sta facendo irrequieto,” disse con voce greve e lenta. Lentamente osservò i volti con l’autorità di un re. “È giunto il momento di ricordare loro chi è il re e di impostare regole più severe. Da questo giorno in poi raddoppierò le tasse su tutte le proprietà e sul cibo.”
Si levò un sorpreso mormorio, seguito da cenni di assenso e approvazione.
“Scelta eccellente, vostra grazia,” disse uno dei consiglieri.
Tano non poteva credere alle sue orecchie. Raddoppiare le tasse per il popolo? Essendosi mescolato con la gente comune, sapeva bene che le tasse richieste erano già ben più ingenti di quanto la gente potesse permettersi. Aveva visto madri piangere per la perdita dei figli, morti di fame. Proprio il giorno prima aveva offerto del cibo a una bambina senzatetto di quattro anni di cui si poteva vedere sottopelle ogni singolo osso.
Tano dovette distogliere lo sguardo altrimenti avrebbe detto a voce alta che quella era una follia.
“E infine,” disse il re,” da ora in poi, per bilanciare la rivoluzione sotterranea che minaccia di insorgere, il figlio primogenito di ogni famiglia diventerà un servo nell’esercito del re.”
Uno dopo l’altro tutti gli astanti commentarono la decisione del re come giusta e saggia.
Alla fine però Tano sentì che il re si voltava verso di lui.
“Tano,” disse il re, “Sei rimasto in silenzio. Parla!”
Sotto al gazebo calò il silenzio e tutti gli occhi rimasero puntati su di lui. Tano si alzò in piedi. Sapeva di dover parlare, per la bimba emaciata, per le madri addolorate, per tutti coloro che non avevano voce e le cui vite sembravano non contare. Doveva rappresentarli, perché se non l’avesse fatto lui, non l’avrebbe fatto nessuno.
“Regole più dure non sederanno la ribellione,” disse con il cuore che gli martellava in petto. “La renderà solo più vigorosa. Instillare paura nei cittadini e negare loro la liberà non farò altro che costringerli a insorgere contro di noi e ad aggregarsi alla rivoluzione.”
Alcune persone risero, mentre altre parlarono sommessamente tra loro. Stefania gli prese la mano e cercò di farlo tacere, ma lui si divincolò.
“Un grande re usa l’amore, come anche la paura, per governare i suoi sudditi,” disse Tano.
Il re lanciò alla regina uno sguardo inquieto. Si alzò e si avvicinò a Tano.
“Tano, sei un ragazzo coraggioso per esporre così le tue opinioni,” disse mettendogli una mano sulla spalla. “Comunque, il tuo fratello più giovane non è stato assassinato a sangue freddo da quella stessa gente, da quelli che si autogovernano, come dici tu?”
Tano ci vide rosso. Come osava suo zio portare alla ribalta la morte di suo fratello in modo così poco serio? Per anni Tano era stato morso dal dolore e aveva pianto la perdita del fratello.
“Quelli che hanno ammazzato mio fratello non avevano abbastanza cibo per sé,” disse Tano. “Un uomo disperato cerca soluzioni disperate.”
“Metti in discussione la saggezza del re?” chiese la regina.
Tano non poteva credere che nessuno si opponesse a questo. Non vedevano com’era ingiusto? Non si rendevano conto che quelle nuove leggi avrebbero innescato il fuoco di una ribellione?
“Non per un solo secondo potrai far credere a questa gente che tu non vuoi altro che la loro sofferenza e desideri approfittarti di loro,” disse Tano.
Si levò un sussulto di disapprovazione nel mezzo del gruppo.
“Dici parole dure, nipote,” disse il re guardandolo negli occhi. “Mi verrebbe quasi da credere che tu voglia unirti alla ribellione.”
“O magari ne è già parte?” disse la regina inarcando le sopracciglia.
“No,” abbaiò Tano.
L’aria nel gazebo si fece più calda e Tano si rese conto che se non fosse stato attento, sarebbe potuto essere accusato di tradimento, un crimine punibile con la morte senza processo.
Stefania si alzò in piedi e gli prese la mano tra le proprie, ma agitato dal suo comportamento lui la strappò via di nuovo.
Stefania rimase avvilita e abbassò lo sguardo.
“Forse nel tempo vedrai la debolezza delle tue convinzioni,” gli disse il re. “Per ora, il nostro modo di governo proseguirà e verrà immediatamente implementato.”
“Bene,” disse la regina con un improvviso sorriso. “Ora spostiamoci alla seconda questione del nostro programma. Tano, in quanto giovane uomo di diciannove anni, i tuoi sovrani hanno scelto una moglie per te. Abbiamo deciso che tu e Stefania vi sposerete.”
Tano si girò a guardare Stefania, i cui occhi erano luccicanti di lacrime e il cui viso era segnato dalla preoccupazione. Si sentì inorridito. Come potevano chiedergli questo?
“Non posso sposarla,” sussurrò mentre un nodo gli si formava nella pancia.
Tra la folla si levarono i mormorii e la regina saltò in piedi così velocemente che la sedia cadde indietro con un tonfo.
“Tano!” gridò con le mani sui fianchi. “Come osi disobbedire al re! Sposerai Stefania che tu lo voglia o no.”
Tano guardò Stefania con occhi tristi vedendo le lacrime che le rigavano il volto.
“Pensi di essere troppo per me?” gli chiese con il labbro inferiore che tremava.
Lui fece un passo verso di lei per confortarla il poco che poteva, ma prima di averla raggiunta, lei corse fuori dal gazebo coprendosi il volto con le mani e piangendo.
Il re si alzò in piedi, chiaramente arrabbiato.
“Ripudiala, figliolo,” disse con voce improvvisamente fredda e dura che risuonò sotto al gazebo, “e per te ci sarà la prigione.”