Kitabı oku: «Schiava, Guerriera, Regina », sayfa 7

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CAPITOLO DIECI

Gridando, Tano tirava disperatamente la spada incastrata nel cranio del volverione, ma per quanto fieramente ci provasse, la lama non si spostava di un millimetro. Sentendo i passi del combattente che si avvicinava, Tano si guardò alle spalle e vide che il nemico era a meno di dieci metri di distanza da lui. La sua vita dipendeva dal riuscire ad estrarre la spada, dato che un guerriero disarmato era un guerriero morto, lo sapeva bene.

Inquieto guardò Ceres, ma sapeva che c’erano già tre armi sul campo e se lei gliene avesse lanciata un’altra sarebbe stata punita.

Lei alzò un palmo verso di lui e quando udì il sibilo della lama dell’avversario che calava verso di lui, la spada di Tano uscì come tirata da una forza misteriosa.

Scioccato dall’accaduto, ma senza il tempo per stare a pensarci, Tano si girò e rotolò a terra. La spada del combattente lo mancò per una frazione di centimetro e il boato della folla raggiunse l’apice prima di ritrasformarsi in un lieve mormorio.

Tano fu veloce a saltare in piedi e proprio allora sentì Lucio che chiamava aiuto. Vedendo l’avversario a diversi metri da sé, si girò rapidamente e vide Lucio privato della sua arma, il suo porta armi steso a faccia in giù nella sabbia rossa.

“Lanciami qualcosa! Qualsiasi cosa!” gridava Lucio a Ceres con voce piena di rabbia. “Subito, o ti farò scuoiare viva!”

Riportando l’attenzione sull’avversario, Tano vide vagamente che Ceres tirava a Lucio due pugnali. Ma la sua irritazione venne sostituita da un senso di allarme quando vide che il combattente tirava una lancia verso di lui.

Quando la lancia lo raggiunse, Tano vi strinse un pugno attorno impedendole di penetrargli nel cuore, quindi fece ruotare l’arma e la ritirò verso il combattente, trafiggendogli la coscia proprio come voleva.

“Tano! Tano! Tano!” gridavano gli spettatori agitando i pugni in aria.

Il combattente cadde in ginocchio, gemendo di dolore e tenendosi la gamba da dove sporgeva la lancia.

Vedendo la sua opportunità Tano corse dietro al combattente e lo colpì alla testa con l’elsa della spada, facendogli perdere conoscenza.

Tuttavia, anche prima di poter guardare il re per avere la sua approvazione sulla vittoria, Lucio gli girò attorno e il suo avversario improvvisamente attaccò Tano, costringendolo a continuare a combattere.

Questa canaglia mi ha tirato addosso il suo combattente, pensò Tano.

Proprio come aveva sempre sospettato: Lucio non aveva alcun senso dell’onore.

Mentre si batteva contro il nuovo avversario, Tano vide che Lucio andava rilassato verso il cancello di ferro.

“Lasciatemi entrare o vi ucciderò e le vostre famiglie verranno torturate a morte!” gridò Lucio.

Tano udì il cancello che veniva aperto e la folla che fischiava.

“Tano!” gridò Ceres tenendo in mano i due pugnali.

Ovvio. Si stava stancando e aveva bisogno di armi più leggere. Le fece un cenno con la testa e lei glieli lanciò.

Subito Tano diede un calcio nel petto al combattente e lo fece volare indietro. Ma con equilibrio impeccabile l’uomo atterrò in piedi e ritornò all’attacco con la spada alla mano. Il combattente si lanciò in avanti spingendo la spada contro Tano, ma lui saltò di lato e la schivò.

Mentre si muovevano avanti e indietro nell’arena, Tano notò che poco a poco il suo avversario si stava stancando, il petto si gonfiava pesantemente a ogni respiro, i movimenti rallentavano un pelo. Il suo piano stava funzionando. Non voleva uccidere l’uomo, solo renderlo esausto in modo da poterlo privare di conoscenza come aveva fatto con il primo.

Tano si avvicinò al suo scudo, lo raccolse da terra e lo lanciò in faccia al combattente. L’uomo cadde a terra come privo di vita e per la prima volta da quando era entrato nell’arena, gli spettatori fecero silenzio.

Tano ansimava e guardò verso le tribune, aspettando la decisione del re e sperando che non gli ordinasse di assassinare l’avversario privo di conoscenza.

Tuttavia, da quanto conosceva il monarca assetato di sangue, Tano temeva che re Claudio lo avrebbe costretto a fare qualcosa che lui si era sforzato di evitare: uccidere.

Il re lanciò un’occhiataccia a Tano, come se non accettasse che la battaglia fosse terminata a suo favore. La tensione tra i due era palpabile e nell’arena non volava una mosca. Dopo essersi alzato dal suo posto, il re si portò verso il parapetto, tese le mani con i pollici aperti di lato.

Alla fine, con cipiglio, li sollevò verso l’alto e gli spettatori applaudirono.

Tano non poteva crederci. Lui e Ceres erano sopravvissuti. Erano sopravvissuti!

Guardò verso di lei, sentendo le gocce di sudore che gli cadevano dai capelli e gli scorrevano sul viso. Annuì e quando sorrise fu come se in quell’istante la loro vittoria fosse completa.

La guardò sorpreso. Gli aveva salvato la vita più di una volta e l’aveva fatto in un modo che lui non aveva capito.

E per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, stava iniziando a porsi delle domande.

Chi era quella ragazza?

CAPITOLO UNDICI

Una lacrima scivolò lungo la guancia di Ceres mentre le sue dita scorrevano con attenzione sulle armi disposte sulle tavole nell’arena. Nel crepuscolo udiva risa e musica uscire dalle finestre aperte del palazzo, dove i reali stavano festeggiando le vittorie del giorno. Questo la faceva sentire più sola che mai. Le mancavano i suoi fratelli, suo padre, la sua casa, Rexus. Soffriva per la madre che non aveva mai avuto.

Ceres si fermò un momento ad ascoltare il vento che sospirava tra gli alberi. Sollevò lo sguardo e vide le stelle che ammiccavano dal cielo. Inspirò l’aria fresca e il profumo di rose e gigli le riempì le narici. Il silenzio era un amico ben accetto dopo la ruggente folla dell’arena. Anche se fosse stata invitata alla festa, non avrebbe accettato, non si sarebbe voluta mescolare con quella corte pomposa che si stavano congratulando tra loro per la battaglia che lei e Tano avevano vinto.

Tano. Le si attorcigliò lo stomaco al pensiero di come non si fosse neanche curato di vederla dopo le Uccisioni. Neanche un ‘grazie’. Neanche un ‘ben fatto’. Ma lei non aveva bisogno della sua approvazione o delle sue lodi. Non aveva bisogno di nessuno.

Arrabbiata con se stessa per essersi concessa quella ridicola malinconia, si asciugò le lacrime dalle guance, prese una lancia e andò al centro dell’arena.

Sollevò la lancia sopra la testa e la fece ruotare fino a che poté sentirla fischiare. Poi la lanciò contro un manichino da allenamento colpendolo giusto al centro del cerchio più piccolo. Sorrise.

Sentendosi molto più leggera tornò verso il tavolo e prese una spada, una che le ricordava un poco la sua, la lama sottile e lunga, l’elsa di bronzo e oro.

Lanciandosi in avanti finse di attaccare Lucio – il codardo – muovendo la spada con destrezza, l’attenzione e la rabbia concentrate sul nemico immaginario.

Tieniti leggera. Fece un balzo. Attacca e difenditi. Si lanciò in avanti. Sii fluida come l’acqua, forte come una montagna. Era quello che gli allenatori al palazzo le avevano inculcato. Ed era ciò su cui si era esercitata per ore, mesi e anni.

“Dopo la giornata di oggi, pensavo che ti saresti infilata a letto e ti saresti messa subito a dormire.”

Si girò di scatto e vide Tano che si faceva avanti da dietro un salice, sorridendo.

Ceres abbassò la spada e si girò verso di lui, le guance bollenti per l’imbarazzo. Vide che aveva addosso una camicia di cotone morbida, il colletto aperto. I suoi riccioli neri gli incorniciavano il viso. Cercò di odiarlo in quel momento.

Ma in qualche modo il suo cuore si era scaldato alla sua presenza.

“Potrei dire lo stesso a te,” rispose lei, sollevando un sopracciglio e sperando che lui non notasse che il cuore le stava battendo fortissimo.

“Stavo per farlo, ma poi ho sentito qualcuno che si allenava nell’arena sotto alla mia camera.”

Ceres sollevò lo sguardo verso la torre e il balcone, la porta aperta, le tende che danzavano al vento.

“Mi spiace di averla tenuta sveglia, mio signore,” gli disse guardandolo.

“Tano, per favore,” le disse inchinandosi verso di lei e mantenendo il contatto con i suoi occhi.

Le sorrise e fece un passo avanti.

“Non mi hai tenuto sveglio a dire il vero. Ho lasciato la festa prima che ho potuto in modo da venirti a cercare ed è stato a quel punto che ti ho visto dal balcone,” le disse.

“Perché mi stavi cercando?” gli chiese cercando di ignorare l’energia nervosa che le pulsava dentro.

“Volevo ringraziarti per oggi,” le disse.

Lei lo guardò con sguardo vuoto per un momento, cercando di mantenere quell’odio per lui che pian piano stava scomparendo.

“Hai un’abilità brillante,” le disse. “Ti hanno insegnato bene.”

Non poteva rivelargli di essersi travestita da maschio e di essersi allenata insieme ai combattenti a palazzo. Avrebbe potuto denunciarla. E l’avrebbe fatto o no? Sarebbero potuti anche essere alleati nell’arena, ma nel mondo reale erano nemici.

“Mio padre era un forgiatore di spade,” gli disse, sperando che non avrebbe indagato oltre sul suo allenamento.

Tano annuì.

“E dove si trova adesso?” le chiese.

Ceres abbassò lo sguardo con la testa vorticante nel pensiero di suo padre, che ora si trovava a chilometri di distanza.

“Ha dovuto trovare lavoro altrove,” sussurrò.

“Mi spiace, Ceres,” disse Tano avvicinandosi ancora di più.

Avrebbe voluto che le stesse più distante, perché quando era così vicino era difficile considerarlo un nemico e disprezzarlo.

“E tua madre?” le chiese guardandola attentamente.

“Ha cercato di vendermi come schiava,” ammise Ceres pensando che non ci fosse niente di male a dirgli la verità su sua madre.

Lui annuì e serrò le labbra.

“Mi spiace,” commentò.

Era irritata che lui si scusasse per questo. Un principe. Era in parte colpa sua se suo padre non era stato pagato abbastanza a palazzo e aveva dovuto cercare lavoro altrove.

“Come vanno le tue ferite?” gli chiese avvicinandosi al tavolo e mettendovi sopra la spada, sperando di portare la conversazione su sentieri più sicuri.

“Guariranno,” disse seguendola.

Si portò vicino a lei e incrociò le braccia studiando il suo volto.

“Come l’hai fatto?” le chiese.

“Cosa?” disse Ceres.

“Là fuori nell’arena oggi. Prima mi hai tirato uno scudo. Non ho mai sentito che un volverione, né alcun altro animale, sputasse fiamme.”

Lei scrollò le spalle.

“Avevo sentito parlare dei volverioni da mio padre,” mentì.

“Poi la mia spada… era incastrata nel cranio del volverione,” disse socchiudendo gli occhi. “Tu hai alzato la mano e la lama con una forza misteriosa si è staccata e mi è rimasta in mano…”

“Non ho fatto niente del genere!” lo interruppe Ceres arretrando, temendo che l’avesse scoperta.

Lui la guardò con occhi gentili e piegò la testa di lato.

“Stai dicendo che me lo sono immaginato?” le chiese.

Ceres si tirò indietro. Stava cercando di prenderla in trappola? Doveva scegliere le parole con attenzione o sarebbe finita in prigione per aver sostenuto che lui era un bugiardo.

“Sono certa di non sapere di cosa stai parlando,” gli disse.

Lui corrugò la fronte e aprì la bocca come a voler parlare, ma fece invece un passo verso di lei, le mise una mano sulla spalla e la lasciò scivolare lungo il suo braccio.

Un brivido di piacere la attraversò e lei cercò di non dare a vedere come il suo corpo la tradisse.

“Non importa,” disse Tano. “Grazie comunque. La tua scelta delle armi ha fatto la differenza.”

“Sì, magari i tuoi bellissimi capelli si sarebbero bruciacchiati se non ti avessi passato lo scudo,” gli disse con un sorrisino, cercando di alleggerire la situazione.

“Pensi che abbia dei bei capelli?” le chiese.

Lei rimase senza fiato e non capì come avesse potuto lasciarsi sfuggire dalle labbra un commento così frivolo.

“No,” disse con tono piuttosto secco, incrociando le braccia davanti al petto.

Le labbra di Tano si contrassero.

“Bene, allora neppure io penso che tu abbia degli occhi bellissimi,” le rispose.

“Allora siamo a posto.”

Tano annuì e Ceres si incamminò verso il salice.

“Si sta facendo tardi,” gli disse.

“Magari potrei accompagnarti a casa?” le chiese seguendola di nuovo.

Ceres abbassò lo sguardo e scosse la testa.

“O forse hai bisogno di un posto dove stare?” le chiese con voce che era poco più di un sussurro.

Doveva dirgli la verità? Se non gliel’avesse detto, avrebbe dovuto dormire all’addiaccio ogni notte.

“Sì,” gli disse.

“Non c’è posto per te tra le mura del castello, ma in fondo a quel sentiero vicino al pozzo c’è una residenza estiva vuota, e puoi stare lì.”

Le indicò un casetta nascosta tra gli alberi e ricoperta di piante rampicanti.

“Te ne sarei molto grata,” gli disse.

Tano la prese sottobraccio e stava per portarla lì, ma poi una ragazza emerse dai cespugli. Era bellissima, pensò Ceres, con i capelli biondi e gli occhi castani, la pelle liscia come la seta, le labbra sanguigne. Indossava un abito di seta bianco e quando il vento soffiò in faccia a Ceres, le portò il suo profumo di rose.

Sentendosi un po’ a disagio Ceres strappò il proprio braccio dalla stretta di Tano.

“Ciao Stefania,” disse lui e Ceres poté scorgere un pizzico di irritazione nella sua voce.

Stefania sorrise a Tano, ma quando i suoi occhi si posarono su Ceres, si accigliò.

“E qui chi abbiamo?” chiese Stefania.

“Questa è Ceres, la mia porta armi,” disse Tano.

“E dove stai andando con la tua porta armi?” chiese Stefania.

“Questi non sono affari che ti riguardano,” rispose Tano.

“Sono certa che re Claudio sarebbe emozionato di sapere che ti vedi con la tua porta armi donna, a tarda notte, accompagnandola verso destinazioni sconosciute,” disse Stefania.

“Sono certo che il re sarebbe parimenti emozionato nel sapere che te ne vai per i giardini e cortili di palazzo a notte fonda, con la veste da notte, senza la scorta delle tue damigelle,” rispose seccamente Tano.

Stefania sollevò il naso, girò sui tacchi e sparì lungo il viale lastricato tornando al palazzo.

“Non farle caso,” disse Tano a Ceres. “È solo arrabbiata perché ho rifiutato di sposarla.”

“Era lei?” chiese Ceres.

Lui non rispose alla sua domanda, ma sporse il gomito di fianco offrendoglielo di nuovo.

“Forse aveva ragione. Forse non è una cosa opportuna,” disse Ceres.

“Cavolate,” disse, poi fece una pausa prima di sorriderle e aggiungere: “A meno che tu non stessi considerando l’idea che fosse proprio come intendeva lei.”

“Certo che no,” disse Ceres con le guance in fiamme.

Quando lo prese sottobraccio per fargli capire che non era così, si trovò irritata dal fatto di provarvi piacere e immediatamente si fece più determinata a non permettere a quel principe affascinante di accedere al suo cuore.

CAPITOLO DODICI

In piedi in cima a una collina, rivolto verso Cumorla, la capitale di Haylon, remota isola nel mare Mazeroniano, il comandante Akila aveva il cuore gonfio di gioia mentre guardava la statua del re Claudio che veniva abbattuta. Inspirò e la dolce sensazione di giustizia lo riempì mentre il fumo saliva dal castello del re nel cielo azzurro al di sopra della città.

Giustizia, pensò Akila. La giustizia veniva finalmente servita quel giorno. Tutti i parenti prossimi del re erano stati rinchiusi nell’abominevole struttura a sette guglie che ora era stata bruciata e rasa al suolo.

Il vento spingeva contro la sua armatura mentre lui osservava le migliaia di uomini sul versante della collina, le loro bandiere rosse che sventolavano per la causa della rivoluzione. Prima del tramonto li avrebbe guidati in una battaglia che li avrebbe liberati, finalmente, da secoli di oppressione. Aveva il petto gonfio di orgoglio.

La gente di Haylon aveva sofferto a sufficienza sotto il governo di re tiranni. Avevano pagato tasse irragionevoli, avevano mandato i loro migliori guerrieri a Delo e avevano piegato la testa di fronte ai diecimila soldati dell’Impero che infestavano le strade giorno e notte. Per tutta la sua vita Akila aveva guardato donne stuprate insieme alle loro figlie, bambini fustigati e arrestati. I giovani erano costretti a lavorare lunghe giornate nei campi del re, tornando a casa con occhi lividi e abbattuti. Sapeva che ormai era tempo di riprendersi indietro la propria libertà, di riprendersi le proprie vite.

Un messaggero si avvicinò.

“Cumorla occidentale è stata liberata, signore,” disse.

“I soldati dell’Impero?” chiese Akila.

“Fuggiti verso est.”

“Quante vite di civili perdute?”

“Trecento fino ad ora.”

Akila strinse i pugni. Era meno di quanto si aspettasse, ma ogni vita perduta era un peso sulla sua coscienza, un altro figlio o un’altra figlia morti, una madre, un fratello, una sorella o un padre massacrati per difendere la libertà di quella terra.

Congedò il messaggero e fece cenno al suo colonnello di allertare l’ondata finale dei miliziani. Avrebbero messo in trappola gli invasori all’ingresso occidentale e li avrebbero trattati con la medesima cortesia che loro avevano riservato alla sua gente. Di loro non sarebbe rimasto molto alla fine, e questo dava molta gioia al cuore di Akila.

Akila spronò il suo cavallo, guidando il colonnello e i suoi uomini in battaglia. Scese la collina e passò il cancello settentrionale della città, oltre passaggi terrazzati, locande chiuse e capanni da lavoro serrati. Vide famiglie rannicchiate negli angoli, bambini stesi a faccia in giù sulle strade di pietra e cavalli dei fuggitivi senza cavalieri. Le milizie seguirono Akila fuori dalle mura cittadine, nascondendosi dietro alle trincee per aspettare le migliaia di soldati dell’Impero che sarebbero presto fuggiti attraverso i cancelli per cercare di raggiungere il porto.

Non un singolo uomo deve farla franca, aveva detto Akila ai suoi uomini quella mattina quando aveva ordinato a centinaia di seguaci di stare di guardia sulle coste. Perché anche un solo fuggitivo avrebbe significato che la voce di questa sommossa sarebbe arrivata fino a Delo, e poi il re avrebbe mandato decine di migliaia di soldati dell’Impero a Haylon.

I minuti passarono, e quando scese il crepuscolo erano ormai stesi in attesa da quasi un’ora.

Poi, improvvisamente, il primo soldato dell’Impero uscì a cavallo, portando l’insegna dell’Impero.

“Lunga vita a re Claudio!” gridò il soldato.

Tre frecce infuocate lo colpirono al petto.

Cadde da cavallo finendo nel canale sotto al ponte.

Altri tre soldati sopraggiunsero, e pure loro caddero non appena varcati i cancelli.

Un soldato dopo l’altro vennero poi fuori dai cancelli e si scatenò una battaglia brutale.

Akila si lanciò al comando con un feroce grido di battaglia mentre calava la notte. Tutt’attorno a lui gli uomini stavano perdendo le loro vite per la propria libertà, una libertà che non avrebbero mai visto, ma che avrebbero magari assicurato ai loro figli.

Akila raccolse i suoi guerrieri più spietati ed entrò con loro nella città, guardando da un lato e dall’altro e vedendoli ora, gli zoccoli dei cavalli che gli rimbombavano nelle orecchie. Condusse il gruppo di trecento unità attraverso l’ingresso meridionale e mentre avanzavano li divise in quattro gruppi, tutti lanciati alla ricerca di soldati dell’Impero in diverse direzioni.

Con torce e spade, Akila conduceva i suoi uomini lungo vicoli contorti, fermandosi a ogni casa, cercando, andando a caccia in lungo e in largo senza trovare un solo nemico. Quasi alla fine della loro ricerca, capitarono vicino a una stalla dietro alla magione del sacerdote, e Akila pensò che potesse essere un ottimo nascondiglio per i soldati dell’Impero.

Stava per ordinare ai suoi uomini di perquisire la stalla, quando il sacerdote uscì dalla sua casa.

“Ha visto qualche soldato dell’Impero da questa parte?” chiese Akila smontando da cavallo.

“No,” disse il sacerdote stringendosi le mani come in atteggiamento di riverenza di fronte a lui.

Ma negli occhi dell’uomo c’era qualcosa di inquietante che fece pensare ad Akila che stesse mentendo.

“Cercate nella stalla,” disse ai suoi soldati, e loro subito si diressero verso l’edificio e vi entrarono.

Ci fu un improvviso frastuono e quando Akila si girò verso quella confusione, il sacerdote scattò di corsa lungo la strada. Akila lo rincorse, ma quando arrivò alla strada vide che il sacerdote montava a cavallo e galoppava verso l’ingresso meridionale.

Akila fischiò e non appena il suo cavallo fu al suo fianco, balzò in sella e seguì il fuggitivo. Il sacerdote attraversò i cancelli della città con Akila alle calcagna, però non riusciva a raggiungerlo.

Andando verso est, Akila frustò il cavallo spingendolo avanti senza sosta, gli occhi fissi sul fuggiasco. Passò oltre delle palme e saltò staccionate, attraversò campi erbosi e dune di sabbia. Seguendo il sacerdote lungo la discesa di una collina, vide allora una banchina di fortuna nascosta sotto a una cupola di alberi. A nessuno dei suoi uomini era stato ordinato di sorvegliare quel punto perché nessuno sapeva della sua esistenza.

Con suo orrore, Akila vide il sacerdote salire su una piccola barca a vela e allontanarsi, la vela rossa subito gonfiata dal vento.

Quasi arrivato, Akila si chiese se il suo cavallo avrebbe saltato dal molo fino alla barca: la distanza aumentava ogni secondo di più. I muscoli del cavallo si tesero sotto di lui, ma Akila lo spinse avanti.

Il cavallo saltò dalla banchina e atterrò sull’imbarcazione, scivolando sul ponte di tavole bagnate e viscide e facendo cadere Akila.

Un po’ frastornato dall’atterraggio violento, Akila si alzò in piedi e sguainò la spada.

Il sacerdote attaccò immediatamente, la spada alta, lanciandosi e tirando colpi con la ferocia di un uomo che sapeva quanto la sua vita fosse in pericolo.

Akila si tuffò in avanti e spinse la lama contro il traditore, ferendolo al volto. L’uomo grugnì, lasciò cadere la sua spada e tirò fuori un pugnale, cercando di colpire Akila. Ma Akila lo vide venire verso di sé e lo bloccò con la sua spada.

Il sacerdote si girò e gli tirò addosso un secchio, poi una cassa di legno. Akila deviò i colpi. Poi il sacerdote afferrò una rete e la gettò su Akila così che la spada ne rimase intrappolata. Poi tirò la rete e lo fece inciampare in avanti.

Quando furono vicini il sacerdote raccolse la sua spada e la puntò al petto di Akila, che però indossava una pesante armatura, quindi la lama scivolò sul metallo come fosse burro, facendo inciampare in avanti il sacerdote.

Akila ne approfittò e scosse la rete liberando il braccio e colpendo il sacerdote, che cadde sul ponte, morto.

Akila estrasse la lama dal corpo afflosciato del sacerdote e la pulì sulla rete prima di rimetterla nel fodero.

Senza sprecare un solo secondo, guardò verso la città e vide che il cielo nero stava diventando blu. Si rese conto che doveva tornare dai suoi uomini, e velocemente. Riportò la barca al ponte, le diede fuoco e tornò a tutta velocità verso l’ingresso orientale.

Quando arrivò il cielo era già striato di rosa. Era stata dichiarata vittoria e una nuova bandiera era stata posizionata in cima alle mura esterne di Cumorla.

Mentre le campane che segnalavano libertà rintoccavano attraverso la capitale, Akila passò tra le vie della città con la sua milizia, incitati e acclamati da uomini, donne e bambini.

Guardò verso nord e pensò ai suoi compagni di Delo, ancora imprigionati, sapendo nel suo cuore che la libertà stava arrivando anche per loro.

Perché lì, per la prima volta nella storia, lui si trovava in una terra libera dall’Impero.

La rivoluzione era iniziata.