Kitabı oku: «Un Gioiello per I Regnanti », sayfa 2

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CAPITOLO DUE

Kate aprì gli occhi mentre la luce accecante si attenuava, cercando di capire dove si trovava e cosa fosse accaduto. L’ultima cosa che ricordava era che stava combattendo per arrivare a un’immagine della fontana di Siobhan, piantando la lama nella sfera di energia che l’aveva legata alla strega come apprendista. Aveva tagliato il legame. Aveva vinto.

Ora sembrava che si trovasse all’aria aperta, senza alcun segno della casa di Haxa o delle caverne che scorrevano nel sottosuolo. Assomigliava solo parzialmente alle parti del paesaggio di Ishjemme che aveva visto, ma poteva darsi che i prati piatti e le esplosioni di terreno boschivo ne fossero pure parte. Kate lo sperava. L’alternativa era che la magia l’avesse trasportata in qualche angolo del mondo a lei ignoto.

Nonostante la stranezza del trovarsi in un luogo che non conosceva, Kate si sentiva libera per la prima volta da molto tempo. Ce l’aveva fatta. Aveva lottato attraverso tutto quello che Siobhan, e la sua stessa mente, le avevano messo davanti, e si era liberata dalla morsa della strega. Dopo una cosa del genere, trovare la strada per tornare al castello di Ishjemme sembrava un compito facile.

Kate scelse una direzione a caso e si mise in marcia, camminando a passo regolare.

Avanzava cercando di pensare a cosa fare della sua neo-trovata libertà. Avrebbe protetto Sofia, ovviamente. Quello non occorreva neanche dirlo. Avrebbe dato una mano a crescere il suo piccolo nipotino o nipotina quando fosse nato. Magari sarebbe riuscita a mandare a chiamare Will, anche se con la guerra sarebbe stato senz’altro difficile. E avrebbe trovato i loro genitori. Sì, quella sembrava un’ottima cosa da fare. Sofia non sarebbe stata in grado di andare in giro per il mondo a cercarli con l’avanzare della sua gravidanza, ma Kate poteva farlo.

“Prima però devo scoprire dove mi trovo,” disse. Si guardò attorno, ma ancora non c’erano segni riconoscibili. Però c’era una donna che stava lavorando in un campo poco più in là, piegata su un rastrello e intenta a strappare erbacce. Magari lei le avrebbe saputo dare una mano.

“Salve!” gridò Kate.

La donna sollevò lo sguardo. Era anziana, il volto segnato dalle molte stagioni trascorse fuori a lavorare. Magari ai suoi occhi Kate appariva come una sorta di bandito o ladro, armata com’era. Comunque le sorrise vedendola avvicinarsi. Le persone erano amichevoli a Ishjemme.

“Salve cara,” le disse. “Mi dici come ti chiami?”

“Sono Kate.” E dato che non le pareva sufficiente, e dato che ora poteva affermarlo, aggiunse: “Kate Danse, figlia di Alfred e Cristina Danse.”

“Un buon nome,” disse la donna. “E cosa ti porta qui?”

“Io… non lo so,” ammise Kate. “Mi sono un po’ persa. Speravo che voi poteste aiutarmi a trovare la strada.”

“Certo,” disse la donna. “È un onore che tu abbia messo il tuo cammino nelle mie mani. È questo che stai facendo, vero?”

Sembrava un modo strano di spiegarlo, ma Kate non sapeva dove si trovassero. Forse era solo il modo in cui parlava la gente di qui.

“Sì, immagino di sì,” disse. “Sto cercando di trovare la strada per tornare a Ishjemme.”

“Certo,” disse la donna. “Io conosco le strade ovunque. Eppure trovo che una svolta ne meriti un’altra.” Sollevò il rastrello. “Non mi resta molta forza di questi giorni. Mi daresti la tua forza, Kate?”

Se quello era ciò che serviva per tornare, Kate avrebbe anche lavorato una dozzina di campi. Non poteva certo essere più duro rispetto ai compiti che le avevano dato alla Casa degli Indesiderati, o al lavoro, sebbene più gradevole, alla forgia di Thomas.

“Sì,” disse Kate allungando una mano verso il rastrello.

La donna rise, fece un passo indietro e si tirò via il mantello che indossava. Quello si levò e nello stesso istante tutto di lei parve mutare. Ora c’era Siobhan davanti a lei, e il paesaggio mutò, diventando qualcosa di fin troppo familiare.

Si trovava ancora nello spazio onirico del rituale.

Kate si lanciò in avanti, sapendo che la sua unica possibilità risiedeva nell’uccidere Siobhan adesso, ma la donna della fontana fu più rapida. Fece roteare il mantello che in qualche modo divenne una bolla di crudo potere le cui pareti costringevano Kate come una qualsiasi cella di prigione.

“Non puoi farlo,” gridò Kate. “Non hai più alcun potere su di me!”

“Non avevo potere,” disse Siobhan. “Ma mi hai appena dato il tuo sentiero, il tuo nome e la tua forza. Qui in questo posto, cose del genere significano qualcosa.”

Kate sbatté il pugno contro la parete della bolla. Non cedette.

“Non credo che tu voglia indebolire quella bolla, cara Kate,” disse Siobhan. “Sei ben distante dal sentiero d’argento ora.”

“Non mi costringerai ancora ad essere la tua apprendista,” disse Kate. “Non mi costringerai a uccidere per te.”

“Oh, questa fase l’abbiamo superata,” disse Siobhan. “E so che causeresti non pochi problemi. Sarei stata la prima a non prenderti come apprendista, ma certe cose non le posso prevedere neppure io.”

“Se sono tanto un problema, perché non mi lasci andare?” tentò Kate. Anche mentre lo diceva appariva chiaro che non poteva funzionare a quel modo. L’orgoglio avrebbe spinto Siobhan a ben altro, anche se non ci fossero state altri motivi.

“Lasciarti andare?” chiese Siobhan. “Lo sai cosa hai fatto quando hai piantato una lama forgiata con le mie stesse rune dentro alla mia fontana? Quando hai mozzato il nostro legame, senza curarti delle conseguenze?”

“Non mi hai dato scelta,” disse Kate. “Tu…”

“Tu hai distrutto il cuore del mio potere,” disse Siobhan. “Così tanto, distrutto in un istante. Ho avuto a malapena la forza di tenermi a questo. Ma non mi manca la conoscenza, non mi mancano i modi per sopravvivere.”

Fece un gesto, e la scena dietro alla bolla brillò. Ora Kate poteva riconoscere l’interno della casa di Haxa, intagliata su ogni superficie con rune e immagini. La strega della runa sedeva su una sedia e guardava la forma immobile di Kate. L’aveva ovviamente trascinata fuori dal luogo del rituale nel profondo delle caverne.

“La mia fontana mi ha sostenuta,” disse Siobhan. “Ora ho bisogno di un vascello per fare lo stesso. E guarda caso ce n’è proprio uno vuoto.”

“No!” gridò Kate, sbattendo ancora la mano contro la bolla.

“Oh, non ti preoccupare,” disse Siobhan. “Non ci starò per molto. Quello che basta per uccidere tua sorella, credo.”

Kate si sentì ghiacciare al pensiero. “Perché? Perché vuoi Sofia morta? Solo per farmi del male? Uccidi me piuttosto, ti prego.”

Siobhan la scrutò valutandola. “Daresti davvero la vita per lei, vero? Uccideresti per lei. Moriresti per lei. Ma adesso niente di tutto questo è sufficiente.”

“Ti prego, Siobhan, ti sto implorando!” gridò Kate.

“Se non volevi questo, avresti dovuto fare come ti avevo chiesto,” disse Siobhan. “Con il tuo aiuto avrei potuto mettere le cose su un sentiero in cui la mia casa sarebbe stata al sicuro per sempre. Dove avrei avuto il potere. Ora quello me l’hai preso, e io ho bisogno di vivere.”

Kate ancora non capiva come questo potesse essere collegato alla morte di Sofia.

“Vivi nel mio corpo allora,” disse. “Ma non fare del male a Sofia. Non ne hai motivo.”

“Ho tutti i motivi per farlo,” disse Siobhan. “Pensi che mascherarsi da sorella più giovane di una regina sia sufficiente? Pensi che morire in una singola vita umana sia sufficiente? Tua sorella è incinta. Di un bambino che governerà. Lo modellerò come qualcosa di non nato. La ucciderò e porterò via il bambino. Lo prenderò e lo crescerò. Diventerò tutto quello che devo essere.”

“No,” disse Kate comprendendo il completo orrore di tutta la questione. “No.”

Siobhan rise, e c’era crudeltà nella sua risata. “Uccideranno il tuo corpo quando ucciderò Sofia,” disse. “E tu resterai qui, tra i mondi. Spero che tu ti goda la tua libertà da me, apprendista.”

Mormorò della parole e parve dissolversi. Ma l’immagine della casa di Haxa non svanì, e Kate si trovò a gridare mentre vedeva il proprio corpo fare un respiro.

“Haxa, no, non sono io!” gridò, e poi tentò di inviare lo stesso messaggio con il suo potere. Non accadde nulla.

Dall’altra parte di quell’agile separazione, però, accaddero un sacco di cose. Siobhan annaspò con i suoi polmoni, aprì i suoi occhi e si mise a sedere con il corpo di Kate.

“Piano, Kate,” disse Haxa, senza alzarsi. “Hai avuto un bel travaglio.”

Kate guardò il proprio corpo che si percepiva in modo instabile, come se stesse tentando di capire dove si trovava. Ad Haxa poteva sembrare che Kate fosse ancora disorientata dall’esperienza, ma Kate poteva ben vedere che Siobhan stava provando i suoi arti, testando ciò che potevano e non potevano fare.

Alla fine si alzò in piedi, barcollante. Il primo passo fu piuttosto instabile, ma il secondo era già più sicuro. Sguainò la spada di Kate, facendola roteare in aria come a provarne l’equilibrio. Haxa parve un po’ preoccupata da quel gesto, ma non si ritrasse. Magari pensava che fosse il genere di cose che Kate avrebbe potuto fare per mettere alla prova il proprio equilibrio e la propria coordinazione.

“Sai dove ti trovi?” chiese Haxa.

Siobhan la fissò usando gli occhi di Kate. “Sì, lo so.”

“E sai chi sono io?”

“Sei quella che si fa chiamare Haxa per tentare di nascondere il suo nome. Sei la guardiana delle rune, e non sei stata per niente mia nemica fino a che non hai tentato di aiutare la mia apprendista.”

Da dove si trovava intrappolata, Kate vide l’espressione di Haxa mutare e assumere un’espressione di orrore.

“Non sei Kate.”

“No,” disse Siobhan. “Non sono io.”

A quel punto si mosse con tutta la velocità e il potere del corpo di Kate, tuffandosi con la spade leggera in modo da farla apparire come poco più che una scintilla quando si piantò nel petto di Haxa. Uscì dalla parte opposta, trafiggendola.

“Il problema con i nomi,” disse Siobhan, “è che funzionano solo quando hai il fiato per usarli. Non avresti dovuto metterti contro di me, strega della runa.”

Lasciò che Haxa cadesse a terra e poi sollevò lo sguardo, come se sapesse dove si trovava il punto da cui Kate stava guardando.

“È morta a causa tua. Sofia morirà a causa tua. Il suo bambino e questo regno saranno miei a causa tua. Voglio che ci pensi, Kate. Pensaci quando la tua bolla svanirà e le tue paure verranno a cercarti.”

Fece un gesto di saluto con la mano e l’immagine si dissolse. Kate si gettò contro la bolla cercando di prendere Siobhan, cercando di uscire da lì e trovare un modo per fermarla.

Si fermò quando le cose attorno a lei mutarono, diventando un genere di paesaggio grigio e nebbioso, ora che Siobhan non era lì a dargli forma per ingannarla. Ci fu un debole baluginio d’argento in lontananza, che poteva apparire come il sentiero sicuro, ma era tanto lontano che poteva anche non essere lì.

Delle figure iniziarono a venire dalla nebbia. Kate riconobbe i volti delle persone che aveva ucciso: suore e soldati, il maestro d’armi di Lord Cranston e gli uomini del Maestro dei Corvi. Sapeva che erano solo delle immagini e non dei fantasmi, ma questo non fece nulla per ridurre la paura che le scorreva dentro, facendole tremare le mani e rendendo inutile la spada che portava con sé.

C’era ancora Gertrude Illiard, con un cuscino in mano.

“Sarò la prima,” promise. “Ti soffocherò come tu hai soffocato me, ma non morirai. Non qui. Non importa ciò che ti faremo: non morirai, anche se implorerai che accada.”

Kate di guardò in giro osservandoli, e tutti avevano un qualche strumento, che fosse un coltello o una frusta, una spada o una fune per strangolare. Tutti sembravano avere fame di farle del male, e Kate sapeva che le sarebbero piombati addosso senza pietà non appena avessero potuto.

Ora poteva vedere lo scudo che svaniva, diventando trasparente. Kate strinse la spada con maggiore forza e si preparò a quello che stava per capitare.

CAPITOLO TRE

Emeline seguiva Asha, Vincente e gli altri attraverso le brughiere che si estendevano al di là di Strand, tenendo stretto il braccio di Cora in modo da non perdersi nelle nebbie che salivano dal terreno.

“Ce l’abbiamo fatta,” disse Emeline. “Abbiamo trovato Casapietra.”

“Penso che Casapietra abbia trovato noi,” sottolineò Cora.

Era piuttosto corretto, dato che gli abitanti del posto le avevano salvate dall’esecuzione. Emeline poteva ancora ricordare il calore bruciante delle pire quando chiudeva gli occhi, e la puzza acre del fumo. Non avrebbe voluto.

“E poi,” aggiunse Cora, “penso che per trovare un posto, si debba essere capaci di vederlo.”

Mi piace il tuo animaletto umano, le disse Asha con il pensiero, camminando davanti a loro. Parla sempre così tanto?

La donna che pareva essere uno dei capi di Casapietra camminava a grandi passi, il lungo cappotto che le ondeggiava dietro come uno strascico, il cappello a larghe falde che le teneva la testa all’asciutto dall’umidità del posto.

Non è il mio animaletto, le rispose Emeline silenziosamente. Pensò per un momento di dirlo a voce alta per il bene di Cora, ma fu proprio per il suo bene che non lo fece.

Perché mai uno dovrebbe portarsi dietro uno dei Normali? chiese Asha.

“Ignora Asha,” disse Vincente a voce alta. Era tanto alto da incombere su di loro, ma nonostante quella stazza e la lama a forma di mannaia che portava al fianco, sembrava il più amichevole tra i due. “Fa fatica a credere che quelli senza il nostro dono possano fare parte della nostra comunità. Per fortuna non tutti quelli come noi la pensano a questo modo. E per quanto riguarda la nebbia, è una delle nostre protezioni. Quelli che cercano Casapietra per fare del male, vagano a vuoto senza trovarla. Si perdono.”

“E così noi possiamo dare la caccia a coloro che ci fanno del male,” disse Asha con un sorriso che non era del tutto rassicurante. “Comunque, ci siamo quasi. Presto si solleverà.”

Lo fece, e fu come mettere piede su un’ampia isola punteggiata dalla bruma, con il terreno che si sollevava formando una vasta area che era ben più grande di Ashton. Non che fosse gremita di case come la città. La maggior parte sembrava invece terra per il pascolo, o un insieme di zone dove la gente lavorava per coltivare verdure. All’interno del perimetro di quella terra coltivabile si trovava un muro di pietra asciutta alto quanto le spalle di un uomo adulto, che si estendeva davanti a un fossato in modo tale da costituire una struttura di difesa piuttosto che un semplice indicatore. Emeline percepì un debole baluginio di potere e si chiese se ci fosse dell’altro.

All’interno si trovavano una serie di case di pietra e torba: casette con i tetti di torba ed erba, case rotonde che parevano essere lì da sempre. Al centro di tutto si trovava una struttura circolare simile alle altre nella pianura, eccetto per il fatto che era più grande e piena di gente.

Finalmente avevano trovato Casapietra.

“Venite,” disse Asha camminando in modo spiccio verso la struttura. “Vi facciamo sistemare. Mi accerto io che nessuno vi scambi per invasori e vi uccida.”

Emeline la guardò e poi si voltò verso Vincente.

“È sempre così?” chiese.

“Di solito ben peggio,” rispose Vincente. “Ma ci dà una mano a proteggerci. Venite, dovete vedere entrambe la vostra nuova casa.”

Scesero verso il villaggio fatto di pietra, e gli altri le seguirono oppure si distaccarono dal gruppo per andare a parlare con degli amici.

“Sembra un posto così bello,” disse Cora. Emeline era felice che le piacesse. Non era certa di quello che avrebbe fatto se l’amica avesse deciso che Casapietra non era il santuario che aveva sperato.

“Lo è,” confermò Vincente. “Non sono certo di chi l’abbia trovato, ma è presto diventato un posto per quelli come noi.”

“Quelli che hanno i poteri,” disse Emeline.

Vincente scrollò le spalle. “Questo è quello che dice Asha. Personalmente preferisco pensare che sia un posto per tutti gli espropriati. Siete entrambe le benvenute qui.”

“Semplicemente così?” chiese Cora.

Emeline immaginò che il suo sospetto avesse molto a che fare con le cose che avevano incontrato lungo la strada. Sembrava che quasi tutti quelli che avevano incontrato fossero stati determinati a derubarle, farle schiave o peggio. Doveva ammettere che avrebbe potuto condividere un sacco di quei pensieri, eccetto per il fatto che queste persone erano per molti aspetti come lei. Voleva essere capace di fidarsi di loro.

“I poteri della tua amica mettono in chiaro che sia una di noi, mentre tu… tu eri una delle vincolate?”

Cora annuì.

“So cosa vuol dire,” disse Vincente. “Sono cresciuto in un posto dove mi dicevano che dovevo pagare per la mia libertà. Lo stesso è successo ad Asha. Lei ha pagato con il sangue. Ecco perché è così attenta nel fidarsi degli altri.”

Emeline si trovò a pensare a Kate. Si chiese cosa ne fosse stato della sorella di Sofia. Era riuscita a trovare Sofia? Era anche lei diretta a Casapietra, o stava tentando di trovare la strada di Ishjemme per stare con lei? Non c’era modo di saperlo, ma Emeline poteva sperare.

Entrarono nel villaggio seguendo Vincente. A una prima occhiata poteva sembrare un normale villaggio, ma guardando meglio Emeline poté scorgere le differenze. Vide le rune e i segni d’incantesimo intagliati sulla pietra e sul legno degli edifici, poté percepire nello stesso spazio la pressione di dozzine di persone che possedevano il talento della magia.

“È così tranquillo qui,” disse Cora.

Poteva anche sembrare tranquillo e silenzioso per lei, ma per Emeline l’aria era pregna di chiacchiericcio mentre la gente comunicava da mente a mente. Sembrava essere normale come parlare a voce alta qui, forse ancora di più.

C’erano anche altre cose. Aveva già visto quello che poteva fare Tabor, il guaritore, ma c’erano persone che usavano altri talenti. Un ragazzo sembrava giocare un gioco delle tazze con la pallina senza neanche toccarle. Un uomo stava creando scintille di luce in dei vasetti di vetro, ma pareva che non usare alcun innesco o brace. C’era anche un fabbro che lavorava senza il fuoco, con il ferro che sembrava rispondere al suo tocco come una cosa viva.

“Abbiamo tutti i nostri doni,” disse Vincente. “Abbiamo raccolto conoscenza, in modo da poter aiutare quelli con i poteri ad esprimerli il più possibile.”

“La nostra amica Sofia ti sarebbe piaciuta,” disse Cora. “Sembrava avere un bel po’ di poteri.”

“Gli individui realmente potenti sono rari,” disse Vincente. “Quelli che sembrano più forti sono spesso i più limitati.”

“Eppure siete capaci di far levare la nebbia che si diffonde per miglia qua attorno,” sottolineò Emeline. Sapeva che questo richiedeva ben più di un potere limitato. Molti di più.

“Questo lo facciamo insieme,” disse Vincente. “Se resterai probabilmente contribuirai anche tu, Emeline.”

Indicò il cerchio nel cuore del villaggio, dove delle figure sedevano su delle poltrone di pietra. Emeline poteva sentire il crepitio del potere lì, anche se pareva che non stessero facendo altro che stare intenti a guardare. Mentre li guardava, uno di loro si alzò con l’aspetto esausto, e un altro paesano si portò a prendere il suo posto.

Emeline non ci aveva pensato. Il più potente di loro prendeva il loro potere incanalando energia da altri posti. Aveva sentito parlare di streghe che portavano via la vita alle persone, mentre Sofia sembrava guadagnare potere dalla terra stessa. Questo aveva anche senso, data la sua identità. Questo però… questo era un intero villaggio di persone che incanalavano il loro potere insieme per diventare più della somma delle parti. Quanto potere potevano generare in quel modo?

“Guarda, Cora,” disse indicando. “Stanno proteggendo l’intero villaggio.”

Cora lo fissò. “È… c’è qualcuno che può fare una cosa del genere?”

“Chiunque abbia una scintilla di potere,” disse Vincente. “Se qualcuno di normale si mettesse a farlo, non capiterebbe nulla, oppure…”

“Oppure?” chiese Emeline.

“La sua vita verrebbe risucchiata. Non è una cosa sicura provare.”

Emeline poté scorgere il disagio di Cora davanti a quell’affermazione, ma non parve durare. Era troppo impegnata a guardarsi attorno nel villaggio, come se stesse tentando di capire come tutto funzionasse.

“Venite,” disse Vincente. “C’è una casa vuota da questa parte.”

Fece strada fino a una casa dalle pareti di pietra che non era molto grande, ma sembrava comunque perfetta per loro due. La porta cigolò quando Vincente la aprì, ma Emeline immaginò che si potesse riparare. Se era stata capace di guidare una barca o un carro, poteva anche imparare ad aggiustare una porta.

“Cosa faremo qui?” chiese Cora.

Vincente sorrise. “Vivrete. Le nostre fattorie producono cibo a sufficienza, e lo condividiamo con tutti coloro che danno una mano nel lavoro nel villaggio. La gente contribuisce con qualsiasi abilità possa offrire come appoggio. Quelli che sanno lavorare il legno o il metallo lo fanno per costruire o vendere. Quelli che sanno combattere proteggono il villaggio o vanno a caccia. Troviamo un utilizzo per ogni talento.”

“Io ho passato la vita truccando le nobildonne per prepararle per le feste,” disse Cora.

Vincente scrollò le spalle. “Beh, sono certo che troverai qualcosa. E ci sono festeggiamenti anche qui. Troverai un modo per inserirti.”

“E se volessimo andarcene?” chiese Cora.

Emeline si guardò attorno. “Perché qualcuno dovrebbe avere l’intenzione di andarsene? Io non voglio, e tu?”

Allora fece una cosa impensabile e spiò nella mente dell’amica senza chiedere. Vi poté trovare dubbi, ma anche la speranza che quello fosse il posto giusto. Cora voleva essere in grado di restare. Solo non voleva sentirsi come un animale in gabbia. Non voleva trovarsi ancora in trappola. Emeline poteva capirla, ma lo stesso si rilassò. Cora sarebbe rimasta.

“No, non voglio andarmene,” disse Cora, “ma… ho bisogno di sapere che questo non è tutto uno scherzo, né una sorta di prigione. Ho bisogno di sapere che non mi trovo di nuovo vincolata in tutto e per tutto.”

“Non lo sei,” disse Vincente. “Speriamo che resterai, ma se decidi di andartene, ti chiediamo solo di mantenere il nostro segreto. Questi segreti proteggono Casapietra più della nebbia, più dei nostri guerrieri. Ora vi lascio a sistemarvi. Quando siete pronte venite alla casa rotonda nel cuore del villaggio. Flora conduce la sala delle vivande lì, e ci sarà del cibo per tutte e due.”

Se ne andò, quindi Emeline e Cora furono in grado di guardarsi in giro per esplorare la loro nuova casa.

“È piccola,” disse Emeline. “So che eri abituata a vivere in un palazzo.”

“Veramente vivevo in qualsiasi angolo del palazzo dove mi fosse possibile dormire,” sottolineò Cora. “Confronto a uno sgabuzzino o a una nicchia vuota questo è enorme. Ma ci vorrà del lavoro.”

“Ci possiamo lavorare,” disse Emeline, già intenta a guardarsi in giro per scorgere le possibilità. “Abbiamo attraversato metà del regno. Possiamo risistemare una casa per viverci dentro.”

“Pensi che Kate o Sofia verranno mai qui?” chiese Cora.

Emeline si stava chiedendo più o meno la stessa cosa. “Penso che Sofia sarà piuttosto impegnata a Ishjemme,” disse. “Con un po’ di fortuna, avrà veramente trovato la sua famiglia.”

“E tu hai trovato la tua, più o meno,” disse Cora.

Era vero. La gente lì poteva anche non essere veramente del suo sangue, ma sembrava esserlo. Avevano vissuto lo stesso odio nel mondo, lo stesso bisogno di nascondersi. E ora erano lì l’uno per l’altro. Era la cosa più vicina alla definizione di famiglia che Emeline avesse mai trovato.

Questo rendeva anche Cora parte della famiglia. Emeline non voleva che se ne dimenticasse.

Emeline la abbracciò. “Questa può essere una famiglia per entrambe, penso. È un posto dove tutte e due possiamo essere libere. È un posto dove tutte e due possiamo essere al sicuro.”

“Mi piace l’idea di essere al sicuro,” disse Cora.

“A me piace l’idea di non dover più camminare per tutto il regno alla ricerca di questo posto,” rispose Emeline. Ne aveva abbastanza di stare in mezzo alla strada per il momento. Sollevò lo sguardo. “Abbiamo un tetto.”

Dopo tutto quel tempo in strada, anche quello pareva un lusso.

“Abbiamo un tetto,” confermò Cora. “E una famiglia.”

Sembrava strano poterlo dire dopo così tanto tempo. Ma era sufficiente. Più che sufficiente.