Kitabı oku: «Un’Impresa da Eroi», sayfa 17
CAPITOLO VENTICINQUE
Gwendolyn attraversò da sola il castello, prendendo la scala a chiocciola che la condusse, nei suoi giri e rigiri, fino alla cima. La sua mente era affollata da pensieri di Thor. Della loro passeggiata. Del loro bacio. E poi di quel serpente.
Ardeva di sentimenti contrastanti. Da una parte era felicissima di essere stata con lui, dall’altra quel serpente la terrorizzava, e con esso il presagio di morte che portava. Ma non sapeva a chi fosse riferito e non riusciva a togliersi il pensiero dalla mente. Temeva che fosse per qualcuno della sua famiglia. Poteva essere uno dei suoi fratelli? Godfrey? Kendrick? Poteva essere sua madre? O, tremava al solo pensiero, suo padre?
La vista di quel serpente aveva gettato un’ombra cupa sulla loro gaia giornata, e una volta che il loro buon umore era andata in pezzi, non erano più stati in grado di risollevarlo. Erano tornati insieme verso la corte, dividendosi perché sua madre non li trovasse insieme. Ma Gwen non si sarebbe arresa così facilmente con Thor e voleva trovare un modo per battere sua madre. Aveva tempo per scoprire una strategia.
Era stata dura dividersi da Thor: ripensandoci si sentiva male. Aveva avuto intenzione di chiedergli se si sarebbero rivisti, avrebbe voluto organizzare un incontro per un altro giorno. Ma si era trovata in uno stato di confusione, così sconvolta dalla vista di quel serpente da dimenticarsene. Ora temeva che lui pensasse che a lei non importasse di lui.
Il momento in cui era arrivata alla Corte del Re suo padre l’aveva fatta convocare da un suo servitore. Per quello stava salendo i gradini, con il cuore che le batteva, chiedendosi perché lui volesse vederla. Era stata vista insieme a Thor? Non potevano esserci altri motivi per cui suo padre volesse vederla con tale urgenza. Le avrebbe vietato anche lui di vederlo? Non poteva crederlo. Lui era sempre stato dalla sua parte.
Gwen, quasi senza fiato, raggiunse finalmente la cima. Si affrettò lungo il corridoio, passò oltre i servitori che balzarono sull’attenti ed aprirono la porta della stanza di suo padre. Due altri servitori, all’interno, si inchinarono davanti a lei.
“Lasciateci soli,” disse loro suo padre.
Si inchinarono e uscirono svelti dalla stanza, chiudendo la porta dietro di loro con un rumore riecheggiante.
Suo padre si alzò dalla scrivania, accennando un sorriso, e si diresse verso di lei attraversando la grande stanza. Lei si sentiva a suo agio, come sempre davanti a lui, e si sentì sollevata dal non vedere rabbia nella suo volto.
“Gwendolyn mia,” disse.
Allungò le braccia e la strinse con forza. Lei ricambiò l’abbraccio e lui la diresse verso le due grandi sedie che si trovavano nell’angolo, accanto al fuoco scoppiettante. Diversi grossi cani, levrieri, molti dei quali lei conosceva fin dalla sua infanzia, si levarono dalla loro traiettoria mentre si avvicinavano al fuoco. Due la seguirono e le appoggiarono la testa in grembo. Era felice di stare accanto al fuoco: faceva stranamente freddo per essere un giorno d’estate.
Suo padre si chinò a fissare le fiamme mentre il fuoco crepitava davanti a loro.
“Sai perché ti ho fatta chiamare?” chiese.
Lei gli scrutò il volto, ma ancora non si sentiva sicura.
“No, padre.”
La guardò con sorpresa.
“La nostra conversazione dell’altro giorno. Con i tuoi fratelli. Riguardo alla sovranità. È di questo che volevo parlare con te.”
Il cuore di Gwen si librò in volo per il sollievo. Non si trattava di Thor. Era politica. Stupida politica della quale non poteva importarle di meno. Sospirò di sollievo.
“Sembri sollevata,” disse. “Di cosa pensavi avremmo discusso?”
Suo padre era troppo perspicace, lo era sempre stato. Era una delle poche persone in grado di leggerla come un libro. Doveva fare attenzione accanto a lui.
“Niente, padre,” disse rapidamente.
Lui sorrise di nuovo.
“Bene, allora dimmi. Cosa pensi della mia scelta?” chiese lui.
“Scelta?” chiese lei.
“Del mio erede! Al trono!”
“Intendi me?” chiese lei.
“E chi altri?” rise lui.
Lei arrossì.
“Padre, sono a dir poco rimasta sorpresa. Non sono la primogenita. E sono una donna. Non so nulla di politica. E non me ne importa nulla. E non so nulla neanche di come si governa un regno. Non ho ambizioni politiche. Non so perché tu abbia scelto me.”
“È proprio per questi motivi,” disse lui, con espressione cupa e seria. “È perché tu non aspiri al trono. Non vuoi la sovranità. E non sai nulla di politica.”
Fece un respiro profondo.
“Ma conosci la natura umana. Sei molto perspicace. L’hai preso da me. Hai l’intuito fine di tua madre, ma la mia abilità con le persone. Sai come giudicare la gente, sei capace di vedere dritto attraverso le persone. Ed è questo ciò di cui un re ha bisogno. Conoscere la natura degli altri. Non hai bisogno di nient’altro. Tutto il resto è finzione. Conoscere chi è la tua gente. Capirli. Fidarti del tuo istinto. Essere buono con loro. Questo è tutto.”
“Sicuramente deve esserci più di questo per governare un regno,” disse lei.
“Non proprio,” rispose. “Scaturisce tutto da lì. Le decisioni derivano dal questo.”
“Ma padre, ti dimentichi che, per prima cosa, io non ho il desiderio di governare, e secondo, tu non stai per morire. È solo una stupida tradizione, legata al matrimonio della tua prima figlia. Perché discuterne ora? Preferirei non parlarne neanche, neppure pensarci. Spero di non vedere mai il giorno che te ne andrai, quindi questa cosa non conta.”
Si schiarì la voce, con espressione grave.
“Ho parlato con Argon e lui vede un futuro nero per me. Lo percepisco io stesso. Devo prepararmi,” disse.
Gwen si sentì stringere lo stomaco.
“Argon è un folle. Uno stregone. Metà di quello che dice non si verifica. Ignoralo. Non sottometterti ai suoi stupidi presagi. Stai benissimo. Vivrai per sempre.”
Ma lui scosse lentamente la testa e lei poté scorgere la tristezza sul suo volto. Si sentì stringere lo stomaco ancor più.
“Gwendolyon, figlia mia, ti amo. Ho bisogno che tu ti prepari. Voglio che tu sia la prossima al governo dell’Anello. Sono serio quando parlo. Non è una richiesta. È un ordine.”
La guardò con una tale serietà, gli occhi si adombrarono, tanto da spaventarla. Non aveva mai visto quell’espressione negli occhi di suo padre prima.
Si sentì combattuta e si asciugò una lacrima dagli occhi.
“Mi spiace di averti turbata,” disse lui.
“Allora basta parlarne,” disse lei, piangendo. “Non voglio che tu muoia.”
“Mi spiace ma non possiamo lasciare l’argomento. Ho bisogno di una risposta da te.”
“Padre, non voglio offenderti.”
“Allora dimmi di sì.”
“Ma come potrei mai governare?” piagnucolò lei.
“Non è così difficile come pensi. Sarai circondata da consiglieri. La prima regola è di non fidarsi di nessuno di loro. Fidati di te stessa. Puoi farcela. La tua mancanza di conoscenza, la tua ingenuità, sono queste le doti che faranno di te una grande. Prenderai decisioni genuine. Promettimelo,” insistette lui.
Lei lo guardò negli occhi e capì quanto ciò significasse per lui. Voleva chiudere l’argomento, se non altro per placare la sua ossessione e risollevargli il morale.
“Va bene, te lo prometto,” disse rapidamente. “Ti fa sentire meglio?”
Lui si appoggiò indietro e apparve decisamente sollevato.
“Sì,” disse. “Grazie.”
“Bene, ora possiamo parlare di altro? Di cose che potrebbero veramente accadere?” chiese lei.
Suo padre rise fragorosamente, sembrava più leggero di una tonnellata.
“Ecco perché ti amo,” disse. “Sempre così felice. Sempre capace di farmi ridere.”
Lui la scrutò e Gwen capì che stava cercando qualcosa in lei.
“Sembri insolitamente felice,” disse. “C’è un ragazzo in vista?”
Gwen arrossì. Si alzò e andò alla finestra, voltandogli le spalle.
“Mi spiace padre, ma è una questione privata.”
“Non è una questione privata, se governerai il mio regno,” disse lui. “Ma non voglio impicciarmi. Ad ogni modo, tua madre a richiesto udienza con te, e non credo sarà altrettanto tollerante. Io lascio perdere. Ma tu preparati.”
Lo stomaco le si strinse e si rigirò a guardare fuori dalla finestra. Odiava quel posto. Avrebbe voluto essere da qualsiasi altra parte. In un semplice villaggio, in una semplice fattoria, a vivere una vita semplice con Thor. Via da tutto quello, da tutte quelle forze che cercavano di controllarla.
Sentì una mano leggera sulla spalla e si voltò per vedere suo padre in piedi accanto a lei, sorridente.
“Tua madre può essere tremenda. Ma qualsiasi cosa decida, sappi che starò dalla tua parte. In questioni d’amore una persona deve avere la possibilità di scegliere liberamente.”
Gwen abbracciò suo padre. In quel momento lo amava più di qualsiasi cosa. Cercò di cacciare il presagio del serpente dalla sua mente e pregò con tutte le sue forze che non fosse riferito a lui.
*
Gwen svoltò e girò corridoio dopo corridoio, passando accanto a serie di vetrate colorate, diretta alla stanza di sua madre. Odiava essere convocata da sua madre, odiava i suoi metodi autoritari. Sotto molti aspetti era sua madre quella che realmente governava il regno. Sotto diversi aspetti era più forte di suo padre, era più brava a tenere testa agli altri e si arrendeva meno facilmente. Ovviamente il regno non ne aveva idea: lui faceva la faccia dura e sembrava lui quello saggio.
Ma quando tornava al castello, a porte chiuse, era a lei che si rivolgeva per un consiglio. Era lei la più saggia. La più fredda. La più calcolatrice. La più tenace. La più impavida. Lei era la roccia. E governava la loro grande famiglia con un pugno di ferro. Quando voleva qualcosa, soprattutto se si era ficcata in testa che fosse per il bene della famiglia, lo faceva succedere per forza.
Ed ora la volontà di ferro di sua madre stava per voltarsi verso di lei: si stava già preparando allo scontro. Aveva la sensazione che avesse in qualche modo a che fare con la sua vita amorosa e temeva di essere stata vista insieme a Thor. Ma era risoluta a non arrendersi. Non importava cosa avrebbe comportato. Se avesse dovuto lasciare quel posto, l’avrebbe fatto. Sua madre poteva anche metterla in prigione per quello che le importava.
Mentre Gwen si avvicinava alla camera di sua madre, la grande porta di quercia venne aperta dal suo servitore, che uscì quando lei fece il suo ingresso, per poi richiuderla dietro di lei.
La camera di sua madre era molto più piccola di quella di suo padre, più intima, con grandi tappeti, un piccolo tavolino per il tè e una scacchiera disposti accanto al fuoco scoppiettante, con diverse graziose sedie di velluto giallo attorno. Sua madre era seduta su una delle sedie, la schiena rivolta a Gwen sebbene la stesse aspettando. Era rivolta verso il fuoco e sorseggiando il suo tè mosse uno dei pezzi sulla scacchiera. Dietro a lei c’erano due damigelle di compagnia, una che le acconciava i capelli, l’altra che le stringeva i nastri del vestito dietro la schiena.
“Vieni avanti, piccola,” disse con voce austera.
Gwen odiava quando sua madre faceva così: tenere udienza di fronte alle sue servitrici. Avrebbe voluto che le congedasse, come aveva fatto suo padre quando avevano parlato. Era il minimo che potesse fare per riservatezza e senso morale. Ma sua madre non lo faceva mai. Gwen concluse che si trattava di un gioco di potere, tenere le sue servitrici affacendate attorno, ad ascoltare, per tenere Gwen in tensione.
Gwen non aveva altra scelta che attraversare la stanza ed andare a sedersi in una delle sedie di velluto di fronte a sua madre, troppo vicina al fuoco. Un altro dei giochi di sua madre: teneva i suoi ospiti troppo al caldo, impossibilitati a concentrarsi a causa delle fiamme.
La Regina non sollevò lo sguardo, continuò piuttosto a fissare la sua scacchiera, spostando uno dei pezzi d’avorio in quel complicato labirinto.
“Tocca a te,” disse sua madre.
Gwen guardò la scacchiera: si sorprese che sua madre stesse continuando quella partita. Ricordava di avere i pezzi marroni, ma erano settimane che non giocava al quel gioco con lei.
Diversamente da sua madre Gwen non aveva bisogno di studiare la scacchiera. Le diede un’occhiata distratta e nella sua mente vide subito la mossa perfetta. Mosse uno dei pezzi marroni di lato, da una parte all’altra della scacchiera. Pose così sua madre ad una mossa dalla sconfitta.
Sua madre guardò il piano, priva di espressione se non per un tremolio del sopracciglio, che Gwen sapeva indicare sconcerto. Gwen era più sveglia e sua madre non l’avrebbe mai accettato.
Sua madre si schiarì la voce, studiando la scacchiera, sempre senza sollevare lo sguardo verso di lei.
“So tutto delle tue scappatelle con quel plebeo,” disse con tono derisorio. “Mi sfidi.” La guardò. “Perché?”
Gwen fece un respiro profondo, sentendo che le si stringeva lo stomaco, cercando di formulare la risposta migliore. Non si sarebbe arresa. Non questa volta.
“Le mie questioni private non sono affari tuoi,” rispose Gwen.
“No? Sono decisamente affari miei. Le tue questioni private vanno a toccare la famiglia. Il destino di questa famiglia. Dell’Anello. Le tue questioni private sono politiche, per quanto tu cerchi di dimenticartene. Non sei una persona comune. Niente è privato nel nostro mondo. E niente mi deve essere tenuto segreto.”
La voce di sua madre era dura e fredda e Gwen fu infastidita da ogni singola parola. Non c’era nulla che Gwen potesse fare, se non rimanere seduta lì ed aspettare che sua madre terminasse. Si sentiva in trappola.
Finalmente sua madre si schiarì la voce.
“Dato che rifiuti di ascoltarmi dovrò prendere io delle decisioni per te. Non rivedrai quel ragazzo mai più. Se lo farai, lo farò trasferire fuori dalla Legione, fuori dalla Corte del Re, di nuovo nel suo villaggio. Poi lo farò imprigionare insieme alla sua famiglia. Verrà esiliato, nel disonore. E non lo rivedrai mai più.”
Sua madre la guardò, con il labbro inferiore che tremava dalla rabbia.
“Mi hai capito?”
Gwen inspirò con forza, comprendendo per la prima volta la cattiveria di cui era capace sua madre. La odiava più di quanto potesse dire a parole. Gwen scorse anche le occhiate nervose delle damigelle. Era umiliante.
Prima che potesse rispondere, sua madre continuò.
“Inoltre, per prevenire ulteriori slanci del tuo comportamento sconsiderato, ho fatto dei passi avanti per organizzare un’unione ragionevole per te. Andrai in sposa ad Alton, il primo giorno del prossimo mese. Puoi iniziare i preparativi per il tuo matrimonio fin d’ora. Preparati per una vita da donna sposata. Questo è tutto,” disse sua madre sprezzante, riportando l’attenzione alla scacchiera come se avesse appena citato il più comune dei problemi.
Gwen fremeva di rabbia e si sentiva bruciare dentro, avrebbe voluto gridare.
“Come osi,” ribatté Gwen, con la rabbia che le montava dentro. “Pensi che sia una specie di mrionetta appesa ad un filo con la quale puoi giocare? Pensi veramente che sposerò chiunque tu voglia?”
“Non lo penso,” rispose sua madre. “Lo so. Sei mia figlia, e rispondi a me. E sposerai esattamente chi ti dico io.”
“Non penso proprio!” gridò Gwen. “Non puoi decidere per me! Mio padre ha detto che non puoi decidere per me!”
“Le unioni combinate sono ancora il diritto di ogni genitore del regno, e sono di certo il diritto del Re e della Regina. Tuo padre si atteggia e tu sai bene quanto lo so io che alla fine converrà sempre con la mia volontà. Ho i miei mezzi.”
Sua madre la gelò con lo sguardo.
“Quindi, vedi, farai esattamente come dico. Il tuo matrimonio si celebrerà. Niente può impedirlo. Preparati.”
“Non lo farò,” rispose Gwen. “Mai. E se insisti ancora a parlarmene, non ti rivolgerò più la parola.”
Sua madre sollevò lo sguardo e le sorrise, un sorriso freddo e bieco.
“Non mi importa se non mi parlerai più. Sono tua madre, non una tua amica. E sono la tua Regina. Questo può anche essere il nostro ultimo incontro. Non ha importanza. Alla fine del giorno farai come dico io. E ti sorveglierò da lontano mentre vivi la vita che ho progettato per te.”
Sua madre tornò alla sua partita.
“Puoi andare,” disse con un cenno della mano, come se Gwen fosse una serva fra tante.
Gwen bolliva al tal punto dalla rabbia da non poterne più. Afferrò la scacchiera di sua madre con entrambe le mani e la buttò per aria, mandando i pezzi d’avorio e il grande ripiano d’avorio a terra, a frantumarsi in mille pezzi.
Sua madre balzò in piedi scioccata.
“Ti odio,” sibilò Gwen.
Detto questo, Gwen si voltò, rossa in volto, e corse fuori dalla stanza, liberandosi della mani delle damigelle, determinata ad uscire di sua spontanea volontà, e a non rivedere mai più il volto di sua madre.
CAPITOLO VENTISEI
Thor camminò per ore lungo i contorti sentieri della foresta, pensando al suo incontro con Gwen. Non riusciva a levarsela dalla testa. Il tempo passato insieme era stato magico, ben oltre le sue aspettative, e non aveva più alcuna preoccupazione riguardo la profondità dei sentimenti che lei provava per lui. Era stato un giorno perfetto, a parte ovviamente per ciò che era accaduto alla fine del loro incontro. Quel serpente bianco, così raro, e un presagio talmente brutto. Erano stati fortunati che non li avesse morsi: Thor guardò Krohn, che camminava fedele accanto a lui, felice come sempre, e si chiese cosa sarebbe successo se non fosse stato lì, non avesse ucciso il serpente e non avesse salvato le loro vite. Sarebbero entrambi morti in quel momento? Era immensamente grato a Krohn e sapeva di avere con sé un compagno affidabile che l’avrebbe accompagnato tutta la vita.
Eppure il presagio ancora lo tormentava: quel serpente era estremamente raro e non era neanche solito vivere in quella parte del regno. Viveva molto più a sud, nelle paludi e negli stagni. Come aveva potuto giungere così lontano? Perché doveva arrivare su di loro proprio in quel momento? Era troppo mistico: era assolutamente certo che si trattasse di un segno. Come Gwen, sentiva anche lui che quello era un brutto presagio, un messaggio che la morte stava per arrivare. Ma per chi?
Thor voleva cacciare quell’immagine dalla mente, dimenticarlo, pensare ad altro, ma non ne era capace. Lo affliggeva, non gli dava pace. Sapeva che sarebbe dovuto tornare alle caserme, ma non ne era stato capace. Era ancora una giornata libera e quindi stava camminando da ore, percorrendo i sentieri della foresta, cercando di fare chiarezza tra i suoi pensieri. Era certo che il serpente portasse con sé un qualche profondo messaggio proprio per lui, che a lui fosse richiesto di fare qualcosa, urgentemente.
A peggiorare le cose, la sua separazione da Gwen era stata repentina. Quando avevano raggiunto il limitare della foresta si erano rapidamente separati, quasi senza dire una parola. Lei gli era sembrata sconvolta. Aveva dato per certo che fosse per il serpente, ma non poteva esserne certo. Non aveva più fatto cenno al loro incontro. Aveva cambiato idea su di lui? Aveva forse lui fatto qualcosa di sbagliato?
Il pensiero lacerava Thor. Lui stesso aveva a malapena idea di cosa fare, mentre vagabondava da ore. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che capisse quel genere di cose, che potesse interpretare segni e presagi.
Thor si immobilizzò. Ma certo. Argon. Sarebbe stato perfetto. Poteva spiegargli tutto, e dare pace alla sua mente.
Thor si guardò attorno: si trovava all’estremità nord del crinale più remoto e da lì aveva un’ampia veduta della città reale ai suoi piedi. Era vicino a un crocevia, e sapeva che Argon viveva solo, in una casetta di pietra, nella zona settentrionale della Pianura del Macigno. Sapeva che se avesse svoltato a sinistra, allontanandosi dalla città, uno dei sentieri l’avrebbe condotto lì. Si mise in cammino.
Sarebbe stato un lungo tragitto e c’erano buone possibilità che Argon non fosse neanche lì quando Thor fosse arrivato. Ma doveva tentare. Non poteva avere tregua finché non avesse trovato delle risposte.
Thor camminò con un nuovo impeto nei suoi passi, al doppio della velocità, in direzione della pianura. La mattina volse al pomeriggio, mentre lui camminava e camminava. Era una bellissima giornata estiva, e la luce brillava lucentemente sui prati tutt’attorno a lui. Krohn saltellava al suo fianco, fermandosi di tanto in tanto per piombare su uno scoiattolo, che poi portava trionfante in bocca.
Il sentiero divenne più ripido, più ventoso, e i campi svanirono lasciando il posto ad un paesaggio desolato di rocce e macigni. Presto anche il sentiero scomparve. Si fece più freddo e crebbe il vento, mentre anche gli alberi diminuivano e il paesaggio diventava roccioso, scosceso. Era inquietante lassù, nient’altro che piccole rocce, terra e macigni a perdita d’occhio: Thor si sentiva come se stesse viaggiando in una terra desolata. Quando il sentiero scomparve completamente, Thor si ritrovò a camminare su ghiaia e roccia.
Accanto a lui Krohn iniziò a pagnucolare. C’era un qualcosa di angoscioso nell’aria e anche Thor lo percepiva. Non era per forza qualcosa di malvagio: semplicemente era diverso. Come una pesante nebbia mistica.
Proprio quando Thor iniziava a chiedersi se stesse procedendo nella giusta direzione, scorse all’orizzonte, in cima ad una collina, una piccola casa di pietra. Era perfettamente circolare, a forma di anello e bassa, fatta di una pietra nera e solida. Non aveva finestre e un’unica porta a forma di arco, ma senza battente o maniglia. Era possibile che Argon vivesse davvero lì, in quel posto desolato? Si sarebbe arrabbiato per l’arrivo non atteso di Thor?
Thor iniziava ad avere degli ulteriori pensieri, ma si sforzò di proseguire lungo la sua strada. Quando si avvicinò alla porta, poté sentire nell’aria un’energia così spessa da non poter quasi respirare. Il suo cuore batteva più forte per la trepidazione quando allungò il pugno per bussare.
Prima che potesse toccare la porta, questa si aprì da sola con uno scricchiolio. Era nero all’interno e Thor non era in grado di dire se l’avesse aperta il vento. Era così buio che non riusciva a capire come qualcuno potesse trovarsi lì dentro.
Thor spinse delicatamente la porta e fece capolino all’interno con la testa.
“È permesso?” disse.
Aprì di più. Era completamente buio, a parte per un lieve baluginio all’estremità opposta della dimora.
“Permesso?” disse, più a voce alta. “Argon?”
Accanto a lui Krohn piagnucolava. A Thor apparve ovvio di aver avuto una cattiva idea, e che Argon non fosse a casa. Eppure si fece forza per guardare ancora. Fece due passi verso l’interno e la porta si chiuse di colpo dietro di lui.
Thor si girò su se stesso e lì, accanto al muro opposto, vide Argon.
“Mi spiace di averti disturbato,” disse Thor con il cuore che gli batteva.
“Vieni senza invito,” disse Argon.
“Perdonami,” disse Thor. “Non avevo intenzione di autoinvitarmi.”
Thor si guardò attorno, mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità, e vide diverse piccole candele disposte in cerchio lungo il bordo della parete di pietra. La stanza era prevalentemente illuminata da un unico fascio di luce che giungeva da una piccola apertura circolare nel soffitto. Quel posto era opprimente, severo e surreale.
“Poche persone sono state qui,” rispose Argon. “Ovviamente non saresti qui tu stesso, se non te l’avessi concesso. Quella porta si apre solo per chi ha il permesso di oltrepassarla. Per coloro a cui non è concesso, non si apre mai, neanche con tutta la forza del mondo.”
Thor si sentì meglio, eppure ancora si chiedeva come Argon potesse sapere che lui stava arrivando. Ogni cosa di quell’uomo era misteriosa per lui.
“Ho avuto un incontro che non ho capito,” disse Thor, bisognoso di raccontare tutto e di avere un’opinione da Argon. “C’era un serpente. Un Dorsobianco. Ci ha quasi attaccati. Siamo stati salvati dal mio leopardo, Krohn.”
“Siamo?” chiese Argon.
Thor avvampò, rendendosi conto di aver detto troppo. Non sapeva cosa dire.
“Non ero solo,” disse.
“E chi c’era con te?”
Thor si morse la lingua, non sapendo quanto poteva dire. Del resto, quest’uomo era molto vicino al padre di Gwen, al Re, ed era probabile che gli raccontasse tutto.
“Non vedo come la cosa possa essere importante, considerato il serpente.”
“È molto importante. Non ti sei chiesto se sia proprio quello il motivo per cui il serpente sia giunto?
Thor fu preso completamente alla sprovvista.
“Non capisco,” disse.
“Non tutti i presagi che vedi sono rivolti a te. Alcuni si riferiscono ad altre persone.”
Thor esaminò Argon nella luce fioca della stanza, iniziando a capire. Gwen era destinata a qualcosa di cattivo? E se era così, lui poteva evitarlo?
“Tu puoi cambiare il destino?” chiese Thor.
Argon di voltò, attraversando lentamente la stanza.
“Ovviamente questa è la domanda che ci poniamo da secoli,” rispose Argon. “Il destino può essere cambiato? Da una parte tutto è predestinato, tutto è scritto. Dall’altra siamo dotati di libero arbitrio. Anche le nostre scelte determinano il nostro destino. Sembra impossibile che questi due – destino e libero arbitrio – convivano, fianco a fianco, eppure è così. È dove questi due si intersecano, lì dove il destino incrocia il libero arbitrio, che il comportamento umano viene in ballo. Il destino non può essere sempre spezzato, ma a volte lo si può piegare o addirittura cambiare, con grande sacrificio e grande forza di volontà. Eppure il più delle volte il destino è irremovibile. La maggior parte delle volte siamo solo degli spettatori, messi qui a guardare il suo dipanarsi. Pensiamo di giocare un ruolo, ma di solito non lo facciamo. Siamo prevalentemente osservatori, non partecipanti.”
“Allora perché l’universo si preoccupa di mostrarci dei segni, se non c’è niente che possiamo fare?” chiese Thor.
Argon si voltò e sorrise.
“Sei svelto, ragazzo. Te lo dirò. Spesso i segni ci vengono mostrati per prepararci. Il destino ci viene mostrato per darci il tempo di prepararci. A volte, raramente, ci viene dato un presagio per permetterci di agire, di cambiare ciò che sarà. Ma è molto raro.”
“È vero che il Dorsobianco annuncia morte?”
Argon lo scrutò.
“Sì,” disse, alla fine. “Senza dubbio.”
Il cuore di Thor sussultò a quella risposta, alla conferma delle sue paure. Era anche sorpreso della risposta diretta di Argon.
“Ne ho incontrato uno, oggi,” disse Thor, “ma non so chi morirà. O se c’è qualcosa che posso fare per evitarlo. Voglio levarmelo dalla mente, ma non ci riesco. Quell’immagine della testa del serpente è sempre con me. Perché?”
Argon lo fissò a lungo e sospirò.
“Perché, chiunque sia a morire, la cosa avrà delle conseguenze dirette su di te. Condizionerà il tuo destino.”
Thor era sempre più agitato, sentiva che ogni domanda suscitava ulteriori domande.
“Ma non è giusto,” disse Thor. “Ho bisogno di sapere chi morirà. Devo avvisarli!”
Lentamente Argon scosse la testa.
“Non è necessario che tu lo sappia,” rispose. “E se lo saprai, potrebbe comunque non esserci nulla che tu possa fare. La morte trova il suo bersaglio, anche se qualcuno ne è avvisato.”
“E allora perché mi è stato mostrato?” chiese Thor, tormentato. “E perché non riesco a levarmelo dalla testa?”
Argon avanzò, così vicino, a pochi centimetri. L’intensità dei suoi occhi quasi illuminava quel posto buio, spaventando Thor. Era come guardare il sole e doveva sforzarsi per non distogliere lo sguardo. Argon sollevò una mano e la mise sulla spalla di Thor. Era ghiaccio al tocco e gli mandò un brivido lungo il corpo.
“Sei giovane,” disse Argon, lentamente. “Stai ancora imparando. Percepisci le cose troppo intensamente. Vedere il futuro è un grande dono. Ma può essere anche una grande dannazione. La maggior parte degli uomini che vivono il loro destino, non ne hanno coscienza. A volte la cosa più dolorosa è proprio avere coscienza del proprio destino, di ciò che sarà. Non hai neanche imparato ancora a capire i tuoi poteri. Ma accadrà. Un giorno. Quando capirai da dove vieni.”
“Da dove vengo?” chiese Thor, confuso.
“La casa di tua madre. Lontano da qui. Oltre il Canyon, al di fuori delle Terre Selvagge. C’è un castello che si staglia contro il cielo. È isolato su una rupe e per raggiungerlo si percorre un sentiero di roccia battuto dal vento. È una strada magica, è come salire al cielo. È un luogo di immenso potere. È da lì che vieni. Fino a che non raggiungerai quel posto, non capirai mai completamente. Quando lo farai, riceverai risposta a tutte le tue domande.”
Thor sbatté le palpebre e quando riaprì gli occhi si ritrovò, con grande sorpresa, fuori dalla casa di Argon. Non aveva idea di come ci fosse finito.
Il vento ululava tra le rocce e Thor strizzò gli occhi per l’intensità della luce del sole. Accanto a lui stava Krohn, piagnucolante.
Thor si riavvicinò alla porta di Argon e bussò con tutta la sua forza. L’unica risposta che gli giunse fu il silenzio.
“Argon!” gridò Thor.
E questa volta gli rispose il fischio del vento.
Tentò di spingere la porta, anche appoggiandovisi con la spalla, ma quella non si spostò.
Thor attese a lungo, non sapeva esattamente quanto, fino a che si fece tardi. Alla fine si rese conto che il suo tempo lì era scaduto.
Si voltò e iniziò a ripercorrere la discesa rocciosa, pensieroso. Si sentiva più confuso che mai, e sentiva anche con maggiore certezza che una morte stava per verificarsi, anche se era ancora più privo di mezzi per evitarla.
Mentre camminava in quel luogo desolato, iniziò a sentire qualcosa di freddo alle caviglie e vide che si stava formando una fitta nebbia. Saliva, diventando a colpo d’occhio più spessa e più alta. Thor non capiva cosa stesse accadendo. Krohn mugolava.