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Kitabı oku: «Conferenze tenute a Firenze nel 1896», sayfa 24

Various
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V

Discesi nel sepolcro i più insigni esecutori e compositori del secolo passato, tramontata quella fecondissima scuola napoletana che aveva avuto il dominio non solo nella penisola, ma in tutto il mondo, noi vediamo, o Signore, svolgersi un periodo da 10 a 15 anni, musicalmente bigio, freddo; in una parola mediocre. Non mancano la dottrina, l'ingegno, il gusto; manca, pare, il genio. Sorgono il Morlacchi, Simone Meyer, il Paër, il Generali, qualche altro; brava gente, uomini di molto valore ma che non si levano alle grandi altezze dei maestri precedenti. Due gloriosi maestri ha sempre l'Italia, o Signore; ma vivono e s'inspirano fuori d'Italia. Sono Cherubini e Spontini. Cherubini che nella musica teatrale si mette, per purezza armonica e per freschezza di melodie, vicino a Mozart; e nella musica sacra non trema di fronte al grandissimo Beethoven. Lo Spontini, come il Cherubini, esce presto d'Italia dove la fortuna poco gli sorride; e va a Parigi e diventa il maestro preferito da Napoleone I, col favore espresso del quale riesce a rompere tutte le ostilità degli emuli e dei cortigiani e fa eseguire nel 1810, con tutti gli onori e il prestigio d'una rappresentazione di corte, la sua famosa opera La Vestale, nella quale è tanta vena melodica, passione drammatica, tanta romanità di carattere; nella quale par di sentire la grandiosità dell'impero napoleonico. Un gran pregio dello Spontini è di avere meglio dei suoi predecessori, forse meglio dello stesso Glück, intuito il profondo consenso psicologico che può istituirsi nel dramma tra poesia e musica. Di ciò gli rese giustizia e testimonianza Riccardo Wagner nella sua celebre lettera a Francesco Villot, dicendo che egli riconosce nello Spontini uno dei suoi legittimi predecessori.

Ciò che mancava all'Italia musicale in questo periodo era una forte energia creativa, senza della quale non è possibile vera rivoluzione d'arte. Nella musica nostra si sente un'aura che viene d'oltre monte; ci accorgiamo che c'è stato Glück, Mozart, Haydn e che dai nostri si vuol, per quanto è possibile, fondere le nuove ricchezze straniere col grande patrimonio musicale italiano. È un proposito ottimo ma non basta per la grandezza dell'arte; e ne segue, in sostanza, un periodo d'incertezze e di titubazioni, che sarebbe finito in una morta gora, se invece non fosse stato un passaggio, una preparazione; se invece colui che era aspettato non fosse venuto.

E colui che era aspettato, colui che aprì realmente in Italia e per l'opera italiana i tempi nuovi, voi sapete, fu Gioacchino Rossini, il quale appunto cominciò a fare le sue prime armi nei primi del nostro secolo (1808) traendo a sè l'attenzione del pubblico bolognese e d'altri col Pianto dell'Armonia. Poi venne Demetrio e Polibio, una breve opera o piuttosto una cantata in cui il giovanissimo maestro mise una passione, una forza di sentimento e un felice ardire di novità che costrinse tutti gli animi a volgersi verso di lui. Par veramente che una fresca fontana di nuove melodie sgorghi dall'animo giovanile del felice maestro e che si espanda e dilaghi con forza irresistibile.

Gioacchino Rossini si afferma, e nel suo rapidissimo successo pare che avvolga in un circolo giocondo di rinnovamento tutta la società italiana, la quale apre tutto l'animo suo al soffio della nuova arte. – Vi è un uomo, diceva a quel tempo lo Stendhal, del quale si parla ormai più che di Napoleone in Italia, del quale si parlerà prestissimo a Parigi, a Pietroburgo forse anche a Calcutta. E questo uomo non ha che 18 anni e non è che un compositore di musica! – Ma in questo compositore di musica si concentravano milioni di anime, e la sua voce balda e giovanile pareva la voce dell'avvenire e della speranza. Gli uomini erano stanchi di soffrire. Era passata nell'aria la tormenta della rivoluzione francese; c'era stato Napoleone I, con le sue ambizioni crudeli e le sue guerre terribili. Troppo sangue s'era versato, troppo si era tremato e pianto!.. Le povere anime umane, abbattute come canne sotto la bufera, volevano rialzarsi. La vita doveva avere ancora delle gioie, la civiltà doveva avere ancora dei trionfi. E questa voce che gridava – avanti! – questa voce dell'avvenire che tutti aspettavano parve, per un momento, che fosse modulata nella musica del giovane Rossini, ne' suoi crescendo annunziatori, nelle sue squillanti fanfare, nell'ampio modulo de' suoi motivi, nella insolita forza delle sue armonie, nella concitazione veemente dei suoi ritmi nuovi…

E Rossini capì. Non era uomo di grandi nè di troppo severi studi; ma aveva la genialità spontanea e feconda che la natura consente rare volte ad un artista e che sempre s'accompagna a una fedele percezione del bisogno predominante nel proprio tempo. Capì che la musica stava per subire, come ogni arte moderna, un forte impulso verso la popolarità e il genio nazionale; ma capì ancora che bisognava contemperare e fondere le grandi migliorie della tecnica con le tendenze connaturate e con le tradizioni della musica italiana. Era una specie di fil di rasoio la linea sulla quale egli si metteva a camminare; ma condotto dalla sua indole felice, Rossini camminò e arrivò alla mèta. Infatti guardate: nel 1817, interrogato Leopoldo Cicognari, il giovane maestro si mostra un po' diffidente di tutto quel sopraccarico di armonie, di tutto quell'incremento strumentale che veniva dalla Germania e dice: qui bisogna mettere un argine. Pareva dunque un conservatore. Ma d'altra parte egli era chiamato “il tedeschino„ per la grande assiduità con cui nella biblioteca di Bologna aveva studiato e trascritto in partitura le sinfonie dell'Haydn e del Mozart, le primizie forse del Beethoven ed altri documenti del genio strumentale germanico. Dunque egli univa quella felice bilateralità d'istinti e di tendenze che gli consentiva d'essere il grande, il nuovo compositore d'Italia: che apriva la via ai maestri e all'opera futura.

Per questa via il giovane maestro procedette non fermandosi mai, ma andando avanti un po' alla spensierata, un po' all'italiana, come dicono i suoi biografi stranieri, molto fidando specialmente nella baldanza de' suoi felici ideali e nella seducente giovialità dell'indole sua. Ma andò sempre avanti: dal Tancredi al Barbiere di Siviglia, dall'Otello al Mosè, al Guglielmo Tell, che il Fetis non dubitò di chiamare “l'opera delle opere„ ed ha ragione perchè in questo spartito egli seppe raccogliere sapientemente ed efficacemente tutte le migliorie conquistate alla nuova musica pel teatro, di là e di qua delle Alpi.

Rossini fu dunque riformatore nel miglior significato della parola; ma volle esserlo alla sua maniera, ossia bonariamente, senza violenze, senza sussiego. Stancatosi presto di tutte quelle virtuosità, e di tutti quei gorgheggi che i grandi cantanti dell'epoca sua profondevano nelle arie delle opere, che fece egli? Non sentenzia, non tuona; invece comincia col rabbonire questi difficili ed esigenti esecutori dicendo loro: – volete delle scale cromatiche? volete delle cadenze sospese? dei trilli, dei ricami d'ogni genere? Li avrete, ma ve li voglio fare io. – E questa era già una prima legge e una prima misura. La vecchia musica scuoteva dal capo la cipria. La virtuosità aveva un vizio mortale: quello di fare della bravura esecutiva quasi il fine supremo della musica. Doveva morire; e Rossini gli dà con grazia il colpo mortale.

Per questa strada egli continuò senza ostentazione di smanie riformiste, ma sempre riformando. Arrivato a un certo punto, sapete che gli accadde? Che molti de' suoi vecchi ammiratori lo abbandonarono e cominciarono a mormorare di lui. Se leggete per esempio quella, non molto esatta, ma briosissima vita di Rossini che dettò lo Stendhal, sentirete con vostra non mediocre sorpresa che la Semiramide, per esempio, è già qualificata fra le opere pensate e scritte in stile tedesco!.. E quando lo stesso Stendhal uscì dall'Opéra di Parigi dopo la prima rappresentazione del Guglielmo Tell, lo sentirono dare in escandescenze ed imprecazioni, dicendo che gli avevan guastato il suo Rossini, tuffandolo nelle nebbie della musica teutonica e facendone un seguace di Carlo Maria Weber. È sempre la medesima storia, che si ripete e si ripeterà nel mondo dell'Arte.

Bisogna poi non dimenticarsi, o Signore, che Rossini fu anche mirabilmente assecondato dai cantanti. I cantanti non erano più i sopranisti, se Dio vuole, ma continuavano le grandi e squisite tradizioni. Non si chiamavano Velluti, Crescentini, Bernacchi, Farinello o Guadagni; ma si chiamavano la Pasta, la Malenotti, il Nazzarri, il Tachinardi, il Donzelli. Splendono sopratutto due astri felicissimi in questo firmamento; il Rubini e la Malibran.

VI

E così fu posta la gran tesi musicale moderna, che si potrà svolgere in vario senso, che si potrà risolvere in diversi modi. Ma tutte le volte che saremo nel campo delle vere passioni umane, significate nel melodramma, io dico che bisognerà sempre risolverla tenendo in grandissimo conto la melodia e la voce umana. Bisognerà, pena la morte, o Signore, la quale può colpire un melodramma anche sotto forma di imbalsamazioni trionfali… ma è sempre la morte, ossia l'esiglio dal palcoscenico.

Riccardo Wagner ha detto che la voce umana è il più bello e il più nobile degli strumenti; e a me pare una frase inesatta. Abbiamo differenza, in qualche guisa, assoluta e categorica. Fra lo strumento e colui che l'adopra c'è una sostanziale distinzione. Il flautista adopera il suo flauto, poi lo ripone in un cassetto; e per quanto egli, suonandolo, abbia lavorato con tutto il trasporto dell'anima, qualcosa sarà andato sempre perduto in quell'intervallo che è fra lo strumento e colui che l'adopra. Invece nella intimità della voce del cantante collo spirito che la muove, in questa profonda e sacra intimità, risiede un'efficacia e una magìa che nessun istrumento, di metallo o di legno, a corda o a fiato, arriverà mai ad uguagliare.

La poesia, ha detto ancora Riccardo Wagner, getta il seme nei solchi, la musica lo feconda. E questa è similitudine di grande verità, o Signore. Ma quand'è che la musica raggiunge i suoi effetti più meravigliosi?.. Difficile questione. Ma se ognuno di voi consulti i suoi ricordi come io consulto i miei, spogliandosi d'ogni preconcetto e d'ogni ipocrisia artistica, risponderà che i più deliziosi, i più sublimi momenti musicali passarono nell'anima nostra quando la musica si unì e si fuse liricamente e drammaticamente alla parola poetica; momenti che nessuna polifonia orchestrale, per quanto ispirata e sapiente, potrà mai raggiungere.

A questo parere mostrò di inclinare lo stesso Beethoven quando ebbe, per così dire, percorso tutto il suo immenso ciclo, quando ebbe toccato il termine della sua epopea sinfonica. Arrivato alla Nona Sinfonia in cui aveva cercato di gettare tutte le forze della natura, tutte le voci della vita, tutto lo slancio, tutto l'anelito della passione, s'accorse che qualche cosa ancora gli rimaneva a dire; e questo qualche cosa, nessuno strumento lavorato dalle mani dell'uomo glielo poteva dare. Allora domandò a Federico Schiller il canto “Alla Gioia„ e su quel canto profuse le ultime ricchezze della sua grande anima musicale, chiudendo, come il pellegrino giunto sul vertice della mistica Montagna, con un fuoco meraviglioso che empì tutto l'emisfero. Presagio insieme e simbolo che le ultime altezze della musica saranno raggiunte quando essa, disposandosi novellamente al verbo umano, gli porterà in dono, cresciuti di tutti i progressi dell'arte, i suoi accordi e le sue modulazioni.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
01 kasım 2017
Hacim:
410 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain