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LE ORIGINI DEL PAPATO E DEL COMUNE DI ROMA
DI
ARTURO GRAF
Signore e Signori,
Nel gennaio dell'anno 1077 seguiva in Italia uno dei fatti più memorabili che narrino le storie del mondo. Per tre giorni di seguito, nella corte del Castel di Canossa, un imperatore tedesco aspettava, vestito del saio dei penitenti, a capo scoperto, a piè nudi, che il papa, dal quale era stato scomunicato e maledetto, volesse ammetterlo alla sua presenza, largirgli l'assoluzione e il perdono. Quell'imperatore aveva nome Enrico IV; quel papa Gregorio VII.
Com'era possibile ciò? per quali ragioni, per quali vie era cresciuta così formidabilmente la potestà di colui che pur si diceva servo dei servi di Cristo? Gregorio sognò di far soggette alla potestà dei pontefici tutte le potestà della terra; quale forza d'idee, quale concorso di eventi, suscitaron quel sogno, e per poco non fecero che diventasse realtà?
Per intenderlo bisogna risalire alle origini, bisogna rifar nello spirito il corso della storia. Nella quale nulla è di miracoloso e d'inesplicabile; ma concatenazione infinita di cause e di effetti, e logico esercizio di forze ineluttabili.
Vediamo prima di tutto perchè e come sorgesse il papato, quella preminenza, cioè, che il vescovo di Roma acquistò sopra gli altri vescovi; e perchè e come sorgesse e si fermasse in Roma, e quivi, e non altrove, dovesse sorgere e fermarsi. Sarò parco nel ricordo dei fatti, come l'indole e la misura del mio dire richiedono, e mi studierò di trarne fuori l'anima che li fa muovere e ne dà ragione.
Per lungo tempo le comunità cristiane particolari, le singole Chiese, trionfando delle persecuzioni, anzi traendo da esse nuovo vigore e vita novella, s'andarono moltiplicando per entro al mondo pagano, senza che l'una prevalesse, a dir proprio, alle altre. Ciò non dimeno le comunità di più antica fondazione, o fondate in città più cospicue, e in specie quelle che avevano, o si credeva avessero avuto, a primo istitutore alcuno degli apostoli, dovevano di necessità esser tenute in maggior concetto e primeggiare in qualche maniera. Il desiderio della cattolicità, ossia della universalità, della quale è già cenno, sino forse dal primo secolo, in una epistola di Sant'Ignazio, vescovo di Antiochia; il bisogno di opporre a comuni nemici una comune difesa, e di serbare intera, incorrotta, uniforme la dottrina di Cristo, nel che era la forza e la salvezza di tutti; tendevano già per sè stessi, con lento ed inconsapevole lavoro, a costituire certe forme di preminenza, tanto più durature e capaci d'incremento quanto più utili. Le comunità non vivevano vita separata; vivevano anzi in una perpetua comunione di pensieri, di parole e di opere, ricorrendo le une alle altre, ogni qual volta nascesse un dubbio in materia di dottrina o di disciplina, ogni qual volta avessero bisogno di consiglio o di aiuto. Così stringevano fra loro vincoli d'interesse e di fratellanza, e, come avviene, tendevano spontaneamente a raccogliersi e ordinarsi intorno ad un centro.
In origine il primato spettò di pien diritto a Gerusalemme, dove il Redentore aveva insegnato ed era morto, e dove gli apostoli avevano ricevuto lo Spirito Santo prima di separarsi e muovere all'opera della predicazione. Se la storia fosse governata da preconcetti ideali, inflessibili ed inviariabili, Gerusalemme avrebbe dovuto essere la Chiesa madre dell'orbe cristiano, e la natural sede del pontificato; invece di fronte a lei sorsero: Antiochia, ch'era stata il centro della predicazione di San Paolo; Alessandria, che aveva ricevuto la nuova fede da San Marco: Roma, che due apostoli avevano consacrata col sangue, ed era la metropoli del mondo. Il primato di Costantinopoli era ancora di là da venire. Per un certo tempo Roma non fu maggiore delle altre Chiese maggiori; ma non tardò molto a crescere sopra tutte le altre. E così doveva avvenire.
Fu veramente San Pietro in Roma? vi sofferse egli veramente il martirio? È questo un dubbio che diede materia a infinite dispute, un dubbio che la critica sino a questi giorni non potè risolvere, e che forse non potrà risolvere mai. Se non vi fu, dovette certo desiderare di andarvi, perchè le forze del cristianesimo nascente già tendevano verso Roma, a cui tutto tendeva; perchè il mondo non poteva esser fatto seguace di Cristo, se prima al mite giogo di Cristo non si piegava la città ch'era capo del mondo, e perchè all'entusiasmo dei primi cristiani un tale trionfo doveva sembrare sopra tutti gli altri glorioso e magnifico. Sia come si voglia, certo è che, in Roma, la credenza alla venuta e all'insegnamento del principe degli apostoli nella città, appar viva sino dal principio del secondo secolo, e che se questa era leggenda, era leggenda necessaria, di cui si scorgono immediatamente gli effetti. La Chiesa fondata da San Pietro e da San Paolo doveva non solo, per ragionevole presunzione, possedere la dottrina nella maggior sua integrità e purezza, ma avere ancora sopra tutte l'altre Chiese quello stesso primato che sopra tutti gli altri apostoli Cristo aveva conferito a San Pietro. I Papi furono dunque legittimi successori di San Pietro, appunto perchè successori di lui furono papi.
Il sentimento di questo primato s'andò facendo sempre più vivo ed universale, e più saldo il proposito di farlo valere. Ireneo, vescovo di Lione, e martire nei primi anni del secolo terzo, risolutamente affermava in un suo scritto contro gli eretici Valentiniani, che tutte le Chiese debbono conformarsi alla Chiesa di Roma in ragione della preminenza che le spetta, e non molti anni dopo Cipriano, vescovo di Cartagine, diceva in una delle sue epistole: «V'è un solo Dio, e un solo Cristo, e una sola Chiesa, e una sola cattedra, fondata per le stesse parole del Signore su Pietro»; e chiamava in un'altra epistola sua la Chiesa di Roma «radice e matrice della Chiesa cattolica». Già Vittore I (192-202) aveva asserita la sua prerogativa; mezzo secolo più tardi, Stefano I (253-257), escludendo dalla comunion dei fedeli alcuni vescovi, che in certa question di battesimo, non consentivano con le dottrine di Roma, derivava il suo diritto dal diritto di Pietro, in cui era fondata la Chiesa, e di cui egli era il legittimo successore. La tomba del principe degli apostoli diventò come il Palladio, nonchè di Roma cristiana, del papato.
La dimora e il martirio di San Pietro in Roma, o la opinione di quella dimora e di quel martirio, dovevano, senza dubbio, conferire potentemente al primato della Chiesa di Roma e del vescovo di essa; ma non credo che per sè potessero produrlo ed assicurarlo. Il soggiorno, l'insegnamento, la morte di Gesù in Gerusalemme, non bastarono a conferir quel primato a Gerusalemme, anzi non bastarono nemmeno, nel tempo che seguì, a riscattarla dalla dominazione degli infedeli. Se San Pietro avesse insegnato e fosse morto in alcun'altra città dell'Oriente e dell'Occidente; e poniam pure che fosse delle maggiori, quella città non sarebbe divenuta per questo, ecclesiasticamente parlando, madre delle altre, e non sarebbe divenuta sede del papato. A tale officio era serbata Roma. Senza Roma, assai probabilmente non vi sarebbe stato papato, o sarebbe stato un papato assai diverso da quello che fu; e senza papato, o con un papato diverso, è assai dubbio se vi sarebbe stata cattolicità. Sembra strano a dire, ma non è men vero che ad instaurare la Chiesa cattolica, e a fondare pei secoli la potestà dei papi, ci volle tutta la forza di Roma pagana.
Ho già detto che le forze cristiane tendevano a Roma naturalmente, perchè Roma era il cuore e il capo del mondo; perchè tutto, da tutte le parti del vastissimo impero, tendeva a Roma, e concorreva in Roma. Si ricordi come le altre religioni erano confluite verso la città imperiale, desiderose di assidervisi e di acquistarvi come un nuovo lustro e una nuova consacrazione. I cristiani detestavano Roma, figurata nell'Apocalisse come la bestia dalle sette teste, e la chiamavano col nome ingiurioso di Babilonia; ma non sapevano e non volevano staccarsi da lei. Dove tanti elementi e tante forze concorrevano, la vita si faceva più intensa ed operosa, e l'organismo di quella Chiesa vigoreggiava e cresceva, come vigoreggia e cresce nell'organismo animale un membro in cui più operose e più intense si raccolgano le energie della vita.
Roma era la sede dell'impero, e doveva, anche per ciò, diventare la suprema sede del cristianesimo: l'imperatore che avversava e perseguitava la nuova religione, l'imperatore doveva, senza volerlo, suscitare il papa. In fatto era naturale che il vescovo il quale si trovava in più immediata opposizione con Cesare, e che di Cesare, più da vicino, sfidava i decreti e la maestà, dovesse acquistare, nel concetto dello universe genti cristiane, una maggiore importanza, una maggior dignità, e l'una e l'altra tanto maggiori, quanto meno efficaci contro la Chiesa governata da lui gli editti di Cesare. Al qual proposito è pur da notare che la ostilità degli imperatori giovò anche in altro modo al papato; giacchè se gl'imperatori fossero stati sin dal principio cristiani, e amici e tutori dei vescovi di Roma, assai probabilmente, o prima o poi, in una o in un'altra maniera, si sarebbero mutati di amici e tutori in padroni, avrebbero usurpato molte attribuzioni e molti offici di quei vescovi, avrebbero, con altre parole, ucciso il papato sul nascere. Più e più fatti dei tempi posteriori, e l'esempio memorabile dei patriarchi di Costantinopoli, divenuti schiavi e strumenti degl'imperatori loro, non lascian dubbio di ciò.
Ma sopratutto conferì Roma alla istituzione e perpetuazione del papato con quel carattere di universalità che le era proprio, con quel suo vanto di eternità, che così spesso risuona sulle labbra degli scrittori pagani, e per quel convincimento suo proprio e di altri, anzi di tutti, allora e dopo, attraverso ai secoli, attraverso a tutti i rivolgimenti, le vicissitudini, le ruine della storia, che in lei, e solamente in lei, fosse la sorgente prima di ogni diritto e di ogni sovranità. Roma caput terrarum e caput rerum, doveva pur essere caput Ecclesiæ. La cattolicità religiosa non sarebbe stata possibile senza quell'altra cattolicità, civile e politica, che da Roma, e nel suo nome s'era diffusa nel mondo. La religione di Cristo, non nazionale, come la giudaica, non chiusa entro i termini di una patria, non legata necessariamente a un ciclo storico, ma liberale e universale, preposta per tutti i tempi a tutte le patrie e a tutti i popoli, ebbe, a dispetto degli oltraggi e delle persecuzioni, grandissimo aiuto e grandissimo incremento da quella Roma intorno a cui e sotto alla cui potestà s'erano congregate e fuse le genti. La religione di Cristo presuppone un concetto capitale e nuovo, quello di umanità; e tale concetto appunto Roma aveva suscitato ed elaborato, e tradotto ancora, per quanto concedevano i tempi, in un fatto. Senza Roma il Cristianesimo non avrebbe potuto sorgere, o, sorto, non avrebbe potuto diffondersi.
Tanto è ciò vero che gli stessi cristiani cominciarono, appena sopravvenuti tempi migliori, a considerare Roma come un proprio istrumento della Provvidenza, e a dire che a lei era stato commesso da quella il glorioso officio di preparare il mondo alla venuta del Redentore, e di spianare le vie alla diffusione della nuova dottrina. Prudenzio, nato verso il mezzo del quarto secolo, Prudenzio che giudica Roma la più magnifica delle opere della Provvidenza, dice nel suo poema contro Simmaco: O Roma, vuoi tu sapere perchè sei salita tant'alto? e perchè tutto il mondo soggiaccia al tuo freno? Dio, volendo consociar tutti i popoli, e stringere in un concorde amore tutti gli animi, li fece soggetti al tuo impero, perchè non possono le genti congiungersi degnamente con Cristo, se prima un unico spirito non le congiunga fra loro. In conformità di tali idee scrisse Paolo Orosio i sette libri delle sue storie contro i pagani, sforzandosi di provare che tutta la storia passata di Roma, la sua gloria e la sua potenza, altro non erano che una preparazione del Cristianesimo. Questo concetto ebbe ancora il medio evo, e si vede espresso da Dante in quei noti versi del secondo canto dell'Inferno, dove, ricordata Roma e ricordato l'impero, dice:
La quale e il quale, a voler dir lo vero,
Fûr stabiliti per lo loco santo
U' siede il successor del maggior Piero;
e soggiunge che Enea, nell'inferno, ove gli era stato concesso di penetrare,
Intese cose che furon cagione
Di sua vittoria e del papale ammanto.
Ancora il nome di Roma doveva favorire potentemente l'opera della propagazione della fede, alla quale per secoli attesero i papi con instancabile zelo; perchè i popoli, assuefatti a ricevere da Roma la legge politica, dovevano essere naturalmente proclivi a ricevere da lei anche la legge religiosa; e tutti sanno quanto il nome e la maestà della metropoli del mondo potesse sullo spirito degli stessi barbari invasori. Da altra banda, i popoli da sì lungo tempo piegati alla signoria politica di Roma, dovevano facilmente ancora piegarsi alla signoria ecclesiastica che in lei si veniva formando, e, senza quasi avvedersene, aiutarla e promuoverla. Tale e tanto fu quel glorioso nome di Roma, che valse, per secoli, a dar sembianza, e persino qualche spirito di vita, a un fantasma, a quello che il Petrarca diceva nome vano senza soggetto, al restaurato impero d'Occidente: come non avrebbe esso giovato a un organismo pien di vigore e di vita qual era il papato?
Così è che, per tutte queste ragioni, la potestà dei romani pontefici andò di mano in mano crescendo, finchè divenne preminenza incontestata ed assoluta; ma fu instaurazione lenta e lunga, turbata da numerose vicende e da gravi peripezie. Il maggiore pericolo a quella preminenza venne (chi il crederebbe!) dai primi imperatori che abbracciarono il cristianesimo. Nota è la storia di Costantino, sebbene non al tutto palesi e chiare sieno le ragioni del suo operare. Vinto Massenzio, Costantino promulgò l'anno 313 il famoso editto di Milano, che sanciva la piena libertà religiosa, senza favorire delle due religioni nemiche, la pagana e la cristiana, più l'una che l'altra. E in questa parità si durò dieci anni, e furono molti, perchè non era condizione che potesse durare a lungo. Appena ebbe maturato nell'animo il proposito di dare all'impero maggiore unità e salvezza, Costantino fu condotto a vagheggiare quella uniformità religiosa di cui per lo innanzi non si era curato. Vinto Licinio, egli, che pur si fregiava del pagano titolo di pontifex maximus, egli che non si fece battezzare se non presso a morte, cominciò a favorire il cristianesimo, a perseguitare il paganesimo. In sulle prime non s'immischiò nelle facende interne della Chiesa di cui s'era fatto tutore; ma non andò molto che vi s'intromise assai più del dovere, e convocò sinodi, fra i quali il famoso ecumenico di Nicea, esiliò vescovi, e li ripristinò nell'ufficio ond'erano stati privati. La potestà laica invadeva il dominio della potestà ecclesiastica, e, come sempre, dalla commistione e dalla confusione delle due potestà nascevano turbazioni e disordini, onde s'aveva a risentire tutta la compagine della Chiesa.
Sotto parecchi degl'imperatori che seguirono le cose andarono peggiorando, perchè su questo sdrucciolo era difficile fermarsi. Il beneficio di Costantino fu pagato a caro prezzo. Non solo si videro imperatori favorir l'eresie e promuovere le contese; ma se ne videro di quelli che usurparono il posto e l'ufficio dei vescovi. Riappariva l'imperatore pontifex maximus sotto sembianze cristiane. Costanzo, che convoca concilii, che decreta in materia religiosa come in materia civile, che impone simboli, quasi fosse il legittimo interprete dello Spirito Santo, e che nel sinodo di Milano del 355 getta in viso ai padri stupiti ed esterrefatti il memorabile placito: Canone è la mia volontà; Costanzo, cui il più perseguitato dei vescovi, Atanasio di Alessandria, dà il nome di Anticristo, che tre secoli innanzi era stato dato a Nerone, è imperatore e papa ad un tempo, e caccia in esilio l'altro papa Liberio, quando questi ardisce di levarglisi a fronte e di contrastargli. Tali, ed altre simili intrusioni e soperchierie, erano del resto provocate continuamente dalle stesse fazioni che tenevano in subbuglio la Chiesa, e non meno dagli avversarii che dai propugnatori dell'ortodossia, i quali tutti, quando più non isperavano di vincere colle ragioni, o coi sofismi e le calunnie, volentieri si volgevano per aiuto a chi aveva la forza e non era malcontento di adoperarla. Le fazioni cercavano di aver dalla loro l'imperatore, e l'imperatore, com'era naturale (e non sempre forse fu male), cercava di assodare e rendere assoluto il dominio suo facendosi arbitro delle coscienze, avocando a sè la suprema autorità spirituale.
Il papato corse allora grave pericolo; ma tante erano del rimanente le condizioni che il favorivano, tanti gli aiuti che gli venivano da ogni banda, e tanta avvedutezza e costanza ebbero i vescovi di Roma, che il pericolo fu superato e la vittoria ottenuta. Già il concilio di Sardica, sino dall'anno 347, aveva riconosciuta e proclamata la preminenza del vescovo di Roma; nel sinodo di Costantinopoli, del 381, il vescovo di Roma fu dichiarato primo in dignità, quello di Costantinopoli secondo. Verso la fine del secolo VI, e dopo, a più riprese, gl'imperatori bizantini tentarono di dichiarare ecumenico veramente il loro patriarca, che già più volte aveva usurpato quel nome e di sostituirlo al papa di Roma, troppo lontano e troppo riottoso; ma ogni loro conato fu inutile.
Valentiniano, dopo la breve riscossa che il paganesimo ebbe con Giuliano l'Apostata, ripristinò la libertà dei culti; ma con Teodosio il cristianesimo diventò stabilmente religione dello Stato. La chiesa d'Occidente, in opposizione con quella d'Oriente, sempre più tendeva ad escludere da ogni giurisdizione sua il potere civile, ed a rendere autonomo il supremo ministero ecclesiastico. Gli avvenimenti incalzavano e favorivano quella tendenza. Per un complesso di cause e di condizioni che non tocca a me rintracciare, l'organismo dello Stato in Occidente s'andava sempre più indebolendo, e s'avviava alla morte; e di quanto lo Stato s'indeboliva, di tanto s'afforzava la Chiesa, sempre più emancipata da quella incomoda soggezione. Tutte le menti e le volontà e le virtù che altrove oramai non avevano modo di esercitarsi, voltavansi spontaneamente alla Chiesa, si raccoglievano in lei. Ciò che era vivo cercava la vita, e la vita era nella Chiesa, e la morte dello Stato era necessariamente accelerata dal defluir delle forze verso la Chiesa. Questo non era un caso nuovo nella storia. A poco a poco la gerarchia ecclesiastica s'instaura, le chiese per la pietà dei fedeli straordinariamente arricchiscono, la monarchia spirituale dei papi si fonda. Leone I, che meritò il nome di Grande, ebbe immensa autorità; fece, nel 453, tornare addietro Attila; mitigò, nel 455, gli orrori della irruzione di Genserico. I barbari distruggevano l'impero d'Occidente; ma, convertiti già al cristianesimo, rispettavano la Chiesa, s'inchinavano dinanzi al suo pontefice. Mentre Teodorico sconfiggeva Odoacre, e si apparecchiava a farsi padrone d'Italia, Gelasio I rispondeva alle prepotenze dell'imperatore Anastasio con una lettera famosa, ove l'autorità dei vescovi è separata risolutamente dall'autorità dei principi, anzi è fatta maggiore con argomenti che i successori di lui non mancheranno di ripetere. E quando, nel 524, il pontefice Giovanni, primo di questo nome, andò, forzato da Teodorico, a Costantinopoli, per farvi cessare la persecuzione contro gli Ariani, l'imperatore Giustino mosse, col popolo, solennemente a riceverlo, gli si gettò ai piedi, e volle essere di bel nuovo incoronato da lui.
Intorno a quel tempo ancora, senza che si possa dire con precisione quando, cominciò l'uso di serbare al solo vescovo di Roma il nome di papa, nome che per lo innanzi non aveva significato alcuno di prerogativa, e soleva darsi a tutti i vescovi indistintamente, ed anche ai semplici chierici. Così pure il nome di pontefice, che fu da prima comune a tutti i vescovi, diventò proprio dei vescovi di Roma, e significativo del loro primato.
Ma la potestà dei papi non cresceva e non si assodava senza molte vicissitudini e scadimenti repentini, così volendo la turbata e violenta condizione dei tempi. Le elezioni suscitavano cupidigie, si lasciavano dietro rancori, e non sempre eran libere, e spesso furono occasione di turbolenze e di scandali.
Nei primi secoli la elezione del papa spettava, come quella di tutti i vescovi in generale, al clero ed al popolo; ma i principi non tardarono a intromettervisi in varii modi, indicando norme e procedure, arrogandosi di decidere in caso di contestazione, pretendendo di confermare l'eletto, o, a dirittura, di designar colui su cui dovevano raccogliersi i voti.
Ai tempi di Atalarico e di Amalasunta la confermazione regia costava 3000 monete d'oro. Teodato da prima restituì la libertà della elezione, poi impose Silverio. Nè per questo rispetto, come per altri, fu la dominazione greca migliore di quella dei Goti. Non solo gl'imperatori s'ingerirono nelle elezioni, ma deposero i papi non graditi da loro. Silverio fu deposto ed esiliato, e in esilio morì, credesi, di fame. La condizione dei papi non fu allora migliore di quella dei patriarchi di Costantinopoli, anzi fu peggiore per più rispetti: le elezioni si fecero senza nemmeno più consultare i Romani.
Vennero i Longobardi, e s'impadronirono della più gran parte d'Italia: gl'imperatori d'Oriente non v'ebbero quasi più che una parvenza di dominio, e la Chiesa fu sottratta anche una volta al loro pessimo giogo. Ma tutto ciò non avvenne in un giorno. Salì sulla cattedra di Pietro un papa, riconosciuto come uno dei maggiori che la Chiesa abbia avuto, Gregorio Magno, soprannominato il Console di Dio, il quale spese la vita in riforme d'ogni maniera, e nella costante rivendicazione dei diritti inerenti al suo ministero. Egli s'oppose vigorosamente alla pretensione del patriarca di Costantinopoli di fregiarsi del titolo di ecumenico; tenne testa all'imperatore, che non senza riposti intendimenti favoriva quella pretensione; e fra Greci e Longobardi, fra pericoli e difficoltà d'ogni sorta, seppe procacciare alla Chiesa una notabile indipendenza. Sotto i successori suoi le cose mutarono di bel nuovo in peggio, di bel nuovo gravò su Roma e la Chiesa il despotismo degl'imperatori; ma durante la lunga e fastidiosa contesa pel culto delle immagini, tutto l'Occidente s'oppose all'Oriente, e i papi insorsero contro la prepotenza degli autocrati di Bisanzio. Vero è che alle prepotenze di costoro tennero dietro quelle dei Longobardi, più infesti assai perchè più vicini.
Non è punto facile formarsi un giusto concetto dell'autorità dei pontefici in questo tempo e del rispetto ond'essi godevano. Il mutare continuo delle fortune, il cozzare violento dei più disparati interessi, la ruina degli ordini appena instaurati, eran cagione che la stessa istituzione del papato non potesse acquetarsi in una forma stabile di diritto e di consuetudine. I principii ideali erano abbastanza determinati e saldi, ma spesso erano offesi e manomessi nella persona reale del pontefice che gl'incarnava. Si venerava il papa astratto; si deponeva, s'ingiuriava, si mutilava il papa concreto; e la ruvidezza delle coscienze, e la barbarie dei costumi, non lasciavano scorgere la mostruosità della contraddizione. Quello stesso Liutprando, che menava per la briglia il cavallo del papa Zaccaria, aveva forzato Gregorio III e i Romani a invocare contro di lui l'aiuto di Carlo Martello e dei Franchi.
I Franchi vennero, con Pippino prima, con Carlo Magno poi, e distrussero il regno dei Longobardi e posero fine all'odiata loro dominazione. Il giorno di Natale dell'anno 800, Carlo Magno ricevette in Roma, nella basilica del principe degli apostoli, dalle mani di Leone III, la corona imperiale. Cessava così ogni ragione degl'imperatori bizantini sopra Roma e sopra l'Italia; risorgeva dopo tre secoli l'Impero d'Occidente. Leone III non poteva immaginare allora che l'impero e il papato dovevano diventare nemici più tardi, e riempiere il mondo dello scandalo e del rumore delle loro secolari contese.
Non ridirò le vicende e le fortune del papato nel tempo degl'imperatori franchi, e poi nel tempo degli Ottoni, storia avviluppata e lunga, sopra alcun punto della quale bisognerà ch'io ritorni. La restaurazione dell'impero non era senza pericoli del papato, perchè non era possibile che gl'imperatori non chiedessero, o non usurpassero, diritti e prerogative tali da menomare più o meno l'autorità e la libertà dei pontefici. E cominciò Carlo Magno a darne l'esempio, Carlo Magno, di cui il papa fu un vero e proprio vassallo. Ma non era possibile, da altra banda, che il danno crescesse oltre a certa misura, e che l'impero sopraffacesse durevolmente il papato, perchè l'impero era e rimaneva, essenzialmente, una finzione, e il papato era una cosa viva e reale, e piena di forza. L'autorità imperiale si dissolveva come appena mancasse un uomo di grande e vigoroso animo per tenerla insieme e sorreggerla, mentre l'autorità papale era assai più nella istituzione che negli uomini. E a crescer forza alla istituzione vennero in buon punto, verso il mezzo del IX secolo, le famose Decretali del falso Isidoro, che a nuove pretensioni dei papi recarono il suffragio di antiche, simulate risoluzioni, e furono di sì gran peso e di tanta efficacia allora e poi, che da esse appunto si suole far cominciare una nuova età nella storia del papato. Così, a dispetto dei rigori degli Ottoni, a dispetto delle brutture e delle violenze per cui è celebre quel tristo periodo della storia di Roma che va sotto il nome di pornocrazia, l'autorità dei pontefici andò, sebbene interrottamente, crescendo. Scomunica ed interdetto erano diventati armi terribili. Il 18 giugno del 1053 i Normanni vinsero a Civitate Leone IX, che in armi s'era mosso contro di loro, e lo fecero prigioniero; ma come udirono ch'egli si piegava a levare l'interdetto con cui li aveva colpiti, gli si gettarono ai piedi, e gli fecero ressa d'attorno per baciargli le mani. Poco dopo si compieva, per opera di Cerulario, la separazione, già cominciata con Fozio, della Chiesa greca dalla latina; ma l'autorità dei pontefici, se veniva a mancare in Oriente, cresceva sempre più in Occidente.
E ad assicurare vie meglio tale autorità una grande innovazione fu introdotta nel 1059 da Niccolò II, inspirato in ciò e in altro da quell'Ildebrando che doveva esser papa a sua volta col nome di Gregorio VII. Da tempo immemorabile la elezione dei pontefici era, come abbiamo veduto, occasion di raggiri, di soprusi, di turbamenti d'ogni maniera. I pontefici non potevano sperare indipendenza e libertà piena per sè e per la Chiesa, se prima non liberavano da qualsiasi ingerenza straniera la propria elezione. Guidato da tale pensiero, Niccolò II fece votare dal Concilio Lateranense di quell'anno un decreto, in virtù del quale la elezione del pontefice fu deferita al collegio dei cardinali, mentre all'imperatore, al rimanente del clero, al popolo, non fu lasciato altro diritto che quello dell'approvazione. L'importanza e la forza di tale provvedimento furono subito avvertite da chi n'era leso. Non molto dopo, al decreto conciliare fu contrapposta una falsificazione dettata evidentemente da spirito imperiale, falsificazione che assegnava all'imperatore un posto fra i præduces, o promotori della elezione.
E il 22 di aprile dell'anno 1073 fu eletto dai Cardinali, consenziente tutto il clero, plaudente il popolo, Gregorio VII, il quale era già stato l'amico e il consigliere di parecchi pontefici, e il vero operatore delle riforme consentite da loro. Gregorio VII meditò la monarchia universale teocratica. Volle sciolto il clero, sciolte le corporazioni religiose da ogni dipendenza dalle potestà laiche, e proibì le investiture; strinse con mano vigorosa tutte in un fascio le forze della Chiesa; scomunicò Enrico IV; svincolò i sudditi suoi dal debito di fedeltà. Pensava e dichiarava che il potere dei re è frode diabolica; che colui a cui era stata concessa potestà di aprire e di serrare le porte del cielo doveva essere giudice della terra; che il papa ha diritto di deporre gli imperatori; che le insegne imperiali appartengono a lui solamente; che i popoli tutti devono prostrarglisi ai piedi. Gregorio VII e i primi successori suoi fecero della potestà dei papi la potestà massima del medio evo, una potestà che accoglieva dentro di sè, e da cui scaturiva, come da sorgente, ogni autorità ecclesiastica, ogni autorità laica.
In fatto, la Chiesa allora è tutta nel papa, o è un'emanazione del papa. I vescovi hanno perduto ogni autonomia, e non serbano altra autorità che quella che è delegata loro dal pontefice, di cui sono fatti gli strumenti. La infallibilità è dei pontefici, e non dei concilii, i quali non hanno altro officio che di approvare. Innocenzo III non si contenta più di chiamarsi, come i suoi predecessori, vicario di Pietro, ma vuol essere chiamato vicario di Cristo, e afferma che ciò che il pontefice vuole e opera, vuole e opera come Dio, non come uomo. Si vede subito quali conseguenze possono essere tratte da un'affermazione così fatta. La volontà del papa è la volontà stessa di Dio, e perciò non è lecito contraddirla nè discuterla. Agostino Trionfo, nella sua Summa de potestate ecclesiastica, composta a richiesta di Giovanni XXII, giunse a dire che non si può appellare dal giudizio del papa al giudizio di Dio, essendo l'appello solamente possibile da un giudice inferiore a uno maggiore, e papa e Dio essendo una cosa sola.
Per ciò che spetta alla potestà laica l'ordine è a dirittura invertito. A tempo degli Ottoni noi vediamo il pontefice dipendere dall'imperatore, e porgere all'imperatore, il quale, in sostanza, è arbitro delle elezioni, il giuramento di fedeltà. Ora è l'imperatore che dipende dal papa, è fatto una creatura del papa. Innocenzo III ripete ciò che aveva detto Gregorio VII, ciò che ripeterà qualche anno più tardi Innocenzo IV: la potestà laica non può essere legittima se non derivi dalla ecclesiastica. L'imperatore non può ricevere la corona se non dal papa, e non è imperatore se da lui non la riceve. I regni sono dati dal papa in feudo a chi li governa. La relazione vicendevole dei due poteri è chiarita con la famosa comparazione dei due luminari, del sole ch'era il papa, della luna ch'era l'imperatore. Queste dottrine trionfavano. Ottone IV, incoronato da Innocenzo III, si fece chiamar re dei Romani per la grazia di Dio e del papa; Pietro d'Aragona riceveva in feudo il suo regno e si riconosceva tributario e vassallo della Chiesa; Giovanni Senza Terra deponeva la corona per riprenderla, in più legittima forma, dalle mani del legato Pandolfo. L'inquisizione e i nuovi ordini monastici aiutavano potentemente l'assolutismo dei papi.