Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 17
Abbia ad essere: poichè importa moltissimo che il nostro linguaggio non perda il privilegio invidiabile di poter attingere alle fonti vive del parlar popolare; e importa altrettanto che queste fonti siano quelle medesime da cui esso sgorgò e di dove attinse in passato. Solo così il linguaggio potrà mantenersi durevolmente limpido e fresco. Ora, un certo qual pericolo sovrasta. L'Italia s'è ricomposta, ha conseguito una capitale, e quella capitale non è, nè poteva esser Firenze. Essa è invece la città su cui s'impernia tutta la vita italiana: come s'è visto, insieme colla vita politica, colla civile, colla religiosa, anche la vita linguistica. C'è luogo quindi a temere che il centro di gravità tenda a spostarsi. Contro un pericolo siffatto non vedo quale altro rimedio possa esserci all'infuori di un fervore di vita intellettuale, che mantenga a Firenze, così mirabilmente disposta dalla natura e dalla storia, il carattere di Atene italiana. A quest'opera, sommamente salutare e benefica, non solo per la patria piccina, ma anche per la grande, tutti possono efficacemente contribuire. Contribuisca anzitutto ciascuno col coltivare la mente sua propria. E cooperatrice efficacissima, anzi indispensabile senz'altro, è a dire la donna. Chè, ivi non è coltura durevole e schietta, dove la donna non è colta; la donna, prima educatrice delle nuove generazioni; stimolatrice insieme e riposo dell'ingegno umano; allettamento e anima di quei ritrovi, per opera dei quali il pensiero e la parola – ce lo dica la Francia del passato – possono meglio che con qualsivoglia altro mezzo ingentilirsi e affinarsi. Ma badi bene la coltura di non lasciarsi salire in groppa quella odiosa strega che è la pedanteria. Se questo avesse a seguire, bisognerebbe correre a sbarrare le strade e chiudere il passo anche a lei. Meglio allora sempre per la donna rimanersene coi pregi che si trova aver da natura.
APPENDICE
Sarà, credo, opportuno, ch'io non lasci vagare stampata questa mia conferenza, senza dire aperto cosa pensi di certe opinioni messe fuori di recente, alle quali vedo farsi un'accoglienza, che non avrei immaginato quando parlavo al pubblico della sala Ginori.
Nel 1884, quell'insigne romanista che è Ernesto Monaci, sostenne, in un articolo ingegnoso pubblicato nella Nuova Antologia (15 agosto), che il vero focolare della nostra prima scuola poetica, fosse, nonostante il nome consacrato dall'uso già ai tempi di Dante, Bologna, non la Sicilia. Ivi si sarebbe primamente fissata anche la nostra lingua letteraria. Alcuni anni appresso il prof. Augusto Gaudenzi – uno studioso che dalla sua rocca della storia del diritto può, bene armato e arredato, far proficue scorrerie in altri dominii – prima in una rivista (L'Università, iii, 204 seg.), poi soprattutto in un libro (I suoni, le forme e le parole dell'odierno dialetto della città di Bologna, Torino, Loescher, 1889), riprese la seconda parte dell'idea del Monaci, determinandola in modo considerevolmente diverso; e alla teorica mise per fondamento dati suoi proprii, e antiche scritture, di cui egli stesso era stato ritrovatore sagace. Stando a lui, la lingua letteraria avrebbe la sua culla nelle scuole di arte notarile dell'Università bolognese.
Non è senza meraviglia che alle deduzioni del Gaudenzi ho visto assentire, dando conto del libro, due cultori valentissimi degli studi linguistici: il Salvioni (Giornale storico della letteratura italiana, XVI, 378) e il Meyer-Lübke (Literaturblatt für germanische und romanische Philologie, XII, 25). Almeno, che il Meyer-Lübke assenta, mi par chiaro da certe frasi e dalla mancanza di ogni obbiezione; quanto al Salvioni, il suo assenso è esplicito, con certi allontanamenti tuttavia. Mentre cioè per il Gaudenzi la lingua prevalsa a Bologna fu la toscana, per il Salvioni invece, più ragionevolmente di certo, era un contemperamento delle varie parlate italiane. Con ciò egli ritorna all'idea primitiva del Monaci; ma non si perita di dire che il Gaudenzi «dimostra il fatto in modo ben più sicuro.»
Ora, dove stia codesta dimostrazione, per mia parte confesso proprio di non capire. Se i testi del Gaudenzi sono assai notevoli e se è da essere riconoscentissimi a chi ce li ha dati, i ragionamenti che muovono da essi si trascinano innanzi a fatica di congettura in congettura e non reggono a un esame, per poco attento che sia. Bologna, gran fucina di coltura, ha di certo anche nella storia della nostra lingua un'importanza ragguardevole; ma ridurre dentro di essa soltanto la formazione del volgare illustre, è un rimpicciolire il problema; quanto poi al metterne per l'appunto la nascita nelle scuole di notariato è un immiserire le cose in modo addirittura compassionevole. Nè si capisce che si dia tanto peso a Guido Fava, che, se fu bolognese, scrisse la maggior sua opera in Toscana, e non si pensi a Buoncompagno, che, toscanissimo e insegnando lettere a Bologna, tra tante sue opere non ce ne lasciò nessuna in volgare. Ai documenti del Guadenzi basterebbe contrapporne due soli: da un lato l'iscrizione di Ferrara, che molto tempo prima ci dà esempio di un volgare scritto che non è davvero il ferrarese, pur contenendo elementi dialettali, ed uno emiliano caratteristico; dall'altro, i frammenti fiorentini del 1211, di cui s'è vista la portata cronologica. E dov'è la ricca fioritura di carte volgari, di cui, se la teoria del Gaudenzi fosse vera, noi avremo bene diritto di far domanda, soprattutto alla sua Bologna? Se il volgare deve per solito servire ai notai solo per le spiegazioni verbali alle parti contraenti, non sappiam davvero che importanza abbia da avere questo ordine di fatti per la fissazione della lingua scritta.
Ben altro ci sarebbe a dire; ma rimetto l'esposizione a miglior tempo. Intanto mi basta di aver levato la voce per mettere in guardia contro di ciò che a me pare un errore non meno grave che nuovo.
LE ORIGINI DELLA LETTERATURA ITALIANA
DI
ADOLFO BARTOLI
Non congiunti più da nessuna affinità psicologica al Medioevo, riesce difficile a noi sentire quello che fosse, nei suoi aspetti bizzarri e multiformi, l'età delle febbri ascetiche e degli entusiasmi cavallereschi, dei barbari e dei santi, dei feudatari e dei servi, delle crociate e dei tornei; quella lunga e lugubre età nella quale il pensiero umano sembra vicino al suo ultimo disfacimento, e che è pure l'ingenuo tempo dei sogni e delle fole. Se una caratteristica possiamo cogliere in quel caotico agitarsi di elementi tanto diversi, questa sola sarà, che una puerilità universale ha invase le menti, che gli uomini sono divenuti fanciulli. La ragione sembra essersi coperta del lenzuolo funebre, per discendere nel sepolcro, dove dormirà molti secoli. I suoi radianti fulgori sono spenti. Il mondo colle sue gioie, la natura colle sue bellezze non parlano più al cuore degli uomini; le più alte aspirazioni dello spirito sono giudicate un peccato; il cielo incombe sulla terra, e nell'immane abbraccio la soffoca. Si è perduto quasi il concetto della successione dei tempi: ai funerali di Alessandro il Macedone si fanno assistere i frati colle croci e i turiboli; Catilina sente la messa a Fiesole; Orfeo è un contemporaneo di Enea, Sardanapalo un re della Grecia, Giuliano l'Apostata un cappellano del papa. Tutto in quel mondo prende un colorito fantastico. Gli uomini dell'antichità come i contemporanei, se appena si sollevino dal livello comune, hanno tosto la loro leggenda, la loro storia poetica, che la tradizione abbellisce, ingrandisce, trasforma, e dove s'abbracciano fraternamente gli anacronismi più grossolani e le più strane invenzioni. Si confonde la storia di San Gregorio Magno con gli incerti ricordi di Edipo; si crede che il Barbarossa viva nascosto nel fondo di una foresta, e si aspetta che torni per liberar Terrasanta; di Virgilio si fa un mago; si narra che papa Gerberto ha stretto un patto col diavolo.
E pure da una tale prodigiosa credulità, da questo stato infantile dell'umano intelletto, che caratterizza il Medioevo, derivarono appunto i frutti della letteratura romanza. Come proprio dei fanciulli è l'amare tutto ciò che sappia di meraviglioso; come in essi è prepotente il desiderio dei racconti, tanto più graditi quanto più uscenti dai limiti del verosimile, così un popolo fatto latino dalla conquista, ringiovanito poi dal connubio colle fantasiose stirpi germaniche, e dalla loro antichissima epica eccitato, innestava sull'epopea merovingia l'epopea nuova, celebrando Clotario e Dagoberto, Carlo Martello e Carlomagno. E così sulla terra di Francia risuonava il primo cauto romanzo, che poi, traverso ai secoli, dispiegandosi, come albero rigoglioso ed immenso, in mille e mille rami, toglieva argomento dalle leggende intorno agli antenati di Carlo, intorno alla sua giovinezza, alle sue guerre, ai prodi compagni delle sue imprese. Nè solo dalle leggende Carolingie il trovèro francese attingeva materia pei suoi canti infiniti. Tutto in quell'epoca di trasformazione, di inconsciente poesia, di balda giovinezza de' cuori, prendeva un colorito uniforme; tutto era guardato traverso un velo di fantastico tessuto: la guerra di Troja, come le imprese di Alessandro Magno; le prodezze di Arturo, come gli amori di Tristano, come i miracoli di Sant'Eulalia e di Sant'Alessio. Si accoppiava quindi alla solennità religiosa feudale della canzone di gesta, il cavalleresco romanzo d'avventura; si intrecciava al canto epico il romanzo allegorico dell'amore simboleggiato nella Rosa, mentre, quasi araldi dell'avvenire, ghignavano beffardi il poema della Volpe e il procace Fabliau.
Tutta questa lussureggiante fioritura romanza sbocciava e si allargava nella Francia settentrionale e centrale, dal settimo al tredicesimo secolo.
E nella Francia meridionale intanto più presto che altrove si apriva uno spiracolo di luce nel buio del Medioevo. Sotto quel limpido cielo, in mezzo a quella inebbriante natura ed a quelle popolazioni facili ad ogni impressione, avide di piaceri e di feste, agitate da un forte sentimento della vita; in quelle città intelligenti e fiere, dove la libertà si sviluppava così nobilmente, dove i pregiudizi occidentali erano distrutti dalle intime relazioni coi Musulmani e cogli Ebrei, dove regnavano sovrani lo spirito cavalleresco, l'amor della gloria, la difesa del debole, il culto per la donna, la liberalità, la magnificenza, nella Francia meridionale sorgeva un'altra letteratura, che cantava l'amore, la gioia, la cortesia; che affratellava in una specie di democrazia poetica il povero al ricco, il vassallo al signore; che univa in nozze ideali il popolo all'aristocrazia. Il poeta Provenzale, il trovatore, è sopratutto un artista, un artista lirico, che spesso mette in musica le sue proprie poesie, e da sè stesso cantandole, si accompagna col suono; che vive nei castelli dei principi e dei nobili, ne rallegra i conviti e le feste, riceve doni di cavalli, di bardamenti, di armi, di vesti; si aggira per le sale sontuose del maniero feudale, sogguardato dalla bella castellana, che sa di essere amata da lui, e se ne compiace nel suo segreto, ed aspira come un profumo il suo canto. Fra codesti trovatori ci sono i più potenti baroni della Provenza, ed insieme paggi, servi, soldati, giovani poveri e avventurosi. C'è Guglielmo Conte di Poitiers gran corteggiatore di donne, che oggi ama e domani abbandona; grande scettico che ride dei vescovi, e corre in Terrasanta a capo di trecentomila crociati; prode soldato che vive d'armi e d'amore, di canto e di cortesia. C'è Bernardo di Ventadorn, il figliuolo dell'uomo che scaldava il forno nel castello feudale, che ama prima la moglie del suo signore, e poi in Normandia la celebre Eleonora di Poitiers, e alla corte di Tolosa una bella italiana, Giovanna d'Este. C'è Goffredo Rudel che s'innamora, senza averla mai vista, della contessa di Tripoli, traversa il mare per lei, giunge malato e muore, muore felice perchè ha potuto per un istante contemplare la bellissima donna e riceverne un dono. Ci sono cento e cento altri, di questi cavalieri poeti, di questi guerrieri innamorati, di questi servi ardimentosi, che dal secolo XI al XIII fanno eccheggiare delle loro canzoni quella terra benedetta dalla natura.
Che cosa accadeva frattanto in Italia? Quando già le due letterature della Francia erano giunte al loro più alto sviluppo, in Italia si continuava a scriver latino. Sebbene anche qui si parlasse da tempo immemorabile una lingua volgare, questa lingua che pur serviva alla preghiera e all'amore, che era pure strumento ad esprimere i più cari ed intimi sentimenti dell'anima, pareva sdegnosa di assorgere a più elevato ufficio. La lingua della letteratura seguitava ad essere il latino, non solo nel VII, nell'VIII, nel IX e nel X secolo, ma anche nell'XI e nel XII.
Le ragioni di questo fatto sono complesse, ma si possono tutte riassumere in una sola, nell'influenza esercitata sugli Italiani dal grande nome di Roma. Per essi le memorie classiche fanno parte della loro vita: ogni città pone la sua gloria nel ricongiungersi all'antichità; Pisa, Genova, Verona si dicono fondate dai compagni di Enea: Firenze si crede edificata da Cesare e chiamata la piccola Roma; Padova si vanta di possedere le ceneri di Antenore; Venezia di essere stata costruita e abbellita colle pietre, colle colonne, colle vasche avanzate alla distruzione di Troja.
Roma, anche vinta, soggioga i suoi vincitori. Eruli, Ostrogoti, Longobardi, si succedono, ma non penetrano la società, non la trasformano: Teodorico invade Roma, ma la sua reggia resta più romana che gota. Questa fu certo per noi una sventura politica. Mentre la Gallia rinnovata dai suoi stessi invasori diventava la Francia, e la Bretagna diventava l'Inghilterra, e l'Iberia la Spagna; noi soffrimmo tutti i danni delle invasioni, senza che questi fossero compensati dalla creazione di nessuna forza novella. Se Teodorico o Liutprando fossero stati il Clovi dell'Italia, chi sa quale diversa condizione si sarebbe preparata al nostro paese, chi sa quanti dolori, quanti martirii, quante umiliazioni di meno registrerebbe la nostra storia. Ma così non accadde. Noi fummo appena spruzzati del sangue barbarico, e rimanemmo Romani: Romani nelle idee, nei sentimenti, nelle leggi ed anche nella lingua come strumento letterario. Onde agli Italiani mancò quella infanzia d'intelletto e di cuore che fu per altre genti latine fonte d'ispirazione poetica. Là l'evoluzione letteraria si operò nel popolo e per il popolo, e fu spontanea, viva, feconda. Noi avevamo tutto un glorioso passato che ci gravava le spalle, che ci faceva esser maturi quando gli altri eran fanciulli, che ci dava i pregi della virilità, ma ci privava della vivacità infantile. Noi eravamo i continuatori di una civiltà antica di secoli, non i cominciatori di una civiltà nuova. La storia imperava tiranna su noi, e poco ci commovevano le prodezze dei paladini o la rotta di Roncisvalle o le bianche mani d'Isotta. Noi non avevamo, come gli altri popoli d'Europa, un eroe fantastico, nel quale s'incarnasse idealmente la nazionalità italiana. I nostri eroi seguitavano sempre ad essere i vecchi Scipioni. Noi eravamo pratici: le nostre città marittime si arricchivano coi commerci, nelle nostre Università si studiava il diritto romano, i nostri Comuni combattevano per la loro libertà: pratici e sempre un po' increduli, sempre con un po' di paganesimo nelle ossa. Il nostro scetticismo non ci concedeva di creare leggende, e le leggende degli altri popoli accoglievamo freddamente, non aggiungendovi nulla di nostro, anzi spogliandole spesso del loro colorito poetico, riducendole in prosa, ed in prosa latina. Perchè quello che accadeva per il contenuto, accadeva pure per la forma. La lingua latina non era per gli Italiani quello che per gli altri popoli, sui quali passò vincitrice l'aquila romana. Quei nostri padri antichi amavano il latino come loro lingua nazionale: esso faceva parte del loro sentimento di patria, era un ricordo della gloria passata, il segnacolo della loro grandezza, il labaro delle memorie e delle speranze. Gli Italiani del Medioevo scrivendo il latino, potevano illudersi nella credenza di aver messi in fuga i Barbari; e abbandonare quella lingua che aveva accompagnati nel loro giro trionfale i conquistatori del mondo, che aveva risuonato solenne e terribile nel Foro, che aveva servito alle immortali creazioni di Virgilio, doveva parere come perdere un'altra volta la patria.
Questo tenersi stretti al latino era poi potentemente favorito in Italia dalla Chiesa, che ne aveva fatto la sua lingua officiale, e non permetteva intromissione di volgare nei suoi riti; era favorito dalle magistrature e dagli scrittori. E così la chiesa, le leggi, la scienza, le condizioni sociali e intellettuali, le memorie del passato e le aspirazioni del presente, tutto cospirava a ritardare l'apparizione della nuova letteratura.
Vero è che quella povera lingua dei poeti, degli storici, degli ascetici, quella miserrima lingua della liturgia e delle leggi, era piuttosto che un latino, un volgare latinizzato: vero è che già quasi appartiene alla letteratura italiana il canto del nono secolo per l'imprigionamento dell'imperatore Lodovico II, e quello dei soldati modenesi del decimo; e che in latino volgare noi abbiamo una ricchissima letteratura di poemi, di canti storici, di cronache, d'inni sacri. Ma, insomma, il volgare schietto, la lingua parlata non osa ancor farsi avanti, diventare lo strumento dell'arte nuova. Siamo già alla fine del dodicesimo secolo, e nulla ancora apparisce.
Però, i semi si vanno gettando. Le due letterature della Francia saranno quelle che determineranno il primo sviluppo della letteratura italiana. Prima di arrischiarsi al loro volgare, gli Italiani scriveranno in provenzale e in francese.
Numerosi legami unirono già anticamente la Gallia meridionale all'Italia, e come l'Italia diede alla Provenza le sue istituzioni politiche, così questa ci mandò un alito della sua poesia. Molti furono i trovatori che nel secolo XII e nel successivo vennero in Italia, aggirandosi per le corti feudali dei marchesi di Monferrato, dei Malaspina, degli Estensi; visitando la Lombardia, la Marca Trevigiana, Como, Verona, Firenze. Il Monferrato divenne una seconda Provenza. I trovatori più famosi visitarono quella corte. Pier Vidal, dopo aver percorsa la Catalogna, l'Aragona, la Castiglia, dopo avere sposata a Cipro una greca ed avere sperato di assidersi sul trono imperiale di Costantinopoli, arrivava nel Monferrato, ed ivi scriveva verso il 1195 una poesia, dove palpita un certo sentimento di nazionalità italiana. Press'a poco nel tempo stesso si avviava verso l'Italia un altro celebre trovatore, figliuolo di un povero cavaliere della Contea di Orange, Rambaldo di Vaqueiras. Fermatosi a Genova, s'abbatteva in una donna, e la richiedeva di amore, ma ne era respinto, e componeva intorno a ciò una canzone bilingue, che può considerarsi come uno dei documenti più antichi dove rimanga vestigio di un dialetto italiano: ve ne lesse due strofe il professor Rajna parlandovi delle origini della lingua italiana. – Rambaldo, proseguendo il suo viaggio, giungeva appresso alla corte di Monferrato, dove lo attendeva la protezione del marchese Bonifazio e l'amore della sua avvenente sorella Beatrice, ch'egli cantava in molte poesie, sotto il nome di Bel Cavaliere, avendola una volta furtivamente veduta esercitarsi colle armi del fratello.
Spuntò per le Provenza un giorno terribile. Serpeggiava là una di quelle eresie medievali, che volevan ridurre gli uomini allo stato di angeli. Se ne indignarono i difensori dell'ortodossia papale che aspiravano ad essere i padroni delle coscienze; e contro i poveri Albigesi fu bandita da Innocenzo III una crociata, alla quale accorsero migliaia di avventurieri che avean tutto da guadagnare e niente da perdere. Costoro, a cui il papa concedeva perdoni, indulgenze, e, più appetitoso premio, l'affrancazione dai debiti, costoro che intravvedevano i ricchi castelli da saccheggiare con tutto quello che tien dietro al saccheggio, si rovesciarono sulla Provenza come torrente devastatore. In una sola città si scannarono più di sessantamila persone, vecchi e giovani, uomini e donne, persino bambini lattanti. Questi sgozzatori domandavano al Legato del Papa come potessero distinguere i fedeli dagli eretici, e costui rispondeva: ammazzateli tutti, che saprà dopo distinguerli Dio. Si trucidava dappertutto, nelle case, per le vie, anche sui gradini degli altari. Tutta la Provenza fu inondata di sangue, e su quella terra insanguinata divamparono le tetre fiamme dei roghi che l'Inquisizione accendeva.
I lieti cantori dell'amore, atterriti, fuggivano, e molti di essi prendevano la strada d'Italia, dove si stabilivano come in patria novella. Se prima essi accorrevano alle nostre terre in cerca di fortuna e di amore, dopo la nefanda strage venivano frementi d'ira a cercar la vendetta, e sperandolo vendicatore, si affollavano intorno a Federigo II, tanto in Sicilia come negli altri luoghi dove egli teneva sua corte.
Ai Provenzali poi, che empivano dei loro canti d'amore o di sdegno l'Italia, si accompagnavano non pochi italiani che scrivevano poesie provenzali. Alberto Malaspina non solo accoglieva i poeti occitanici nei suoi castelli di Lunigiana e del Tortonese, ma egli stesso tenzonava con altri trovatori. Maestro Ferrari da Ferrara rallegrava dei suoi versi la corte Estense e quella di Gherardo da Cimino. Lanfranco Cigala di Genova in una fiera serventese rampognava il marchese Bonifazio di Monferrato della sua instabilità politica; un altro genovese, il Calvo, gridava contro le discordie della sua patria; un veneziano, Bartolomeo Zorzi, difendeva contro Genova la sua Venezia; un piemontese, Nicoletto da Torino, celebrava le imprese di Federigo II; un altro piemontese, Pier della Carovana, esortava alla concordia le città strettesi nella seconda lega Lombarda; un mantovano, Sordello, dopo avere rapita al marito Cunizza, la sorella del terribile Ezzelino, dopo aver corse mille avventure d'amore, assorgeva ai più alti argomenti politici, faceva sentire la sua libera parola ai principi e ai popoli.
In tal guisa l'Italia tutta risuonava della poesia occitanica, la quale imponeva la propria lingua ai poeti dei paesi dove essa si stabiliva; in tal guisa trovatori della Provenza e trovatori italiani, si mescolavano nelle nostre corti, cantavano le nostre donne, i fatti della nostra storia, le imprese dei nostri principi. Ed al tempo stesso faceva sentire la sua influenza tra noi anche la poesia della Francia settentrionale; onde, come ci furono Italiani che scrissero in provenzale, così ci furono pure altri Italiani che scrissero in una lingua che è un francese italianizzato.
Il canto provenzale diede impulso alla nostra lirica; il canto francese alla poesia narrativa e morale. La prima si sviluppò nell'Italia del mezzogiorno e del centro; la seconda, nell'Italia settentrionale.
La più antica lirica italiana è quella, che, sorta circa nel secondo o terzo decennio del secolo tredicesimo, si chiamò della scuola Siciliana, perchè ebbe il suo focolare alla corte di Federigo II; e di essa fecero parte non Siciliani soli, ma anche Pugliesi e Toscani: i più famosi, lo stesso imperatore Federigo, Enzo suo figlio e Pier della Vigna suo ministro.
Federigo II fu, giova qui ricordarsene, una delle più grandi figure storiche del suo secolo. Egli promosse la scienza, protesse i dotti, difese la libertà dei culti, emancipò i servi, fondò biblioteche ed università. Questo imperatore che viveva di guerra, di amore e di scienza, mezzo orientale e mezzo romano, chi crederebbe non dovesse portare nella poesia tutto l'impeto delle sue passioni? Chi non crederebbe che, pure ispirandosi ai canti dei trovatori, non dovesse preferir quelli nei quali bolliva lo sdegno contro il suo terribile nemico, il papato? E chi non crederebbe ancora che Pier della Vigna, autore di versi latini ferventi d'ira contro i frati, non facesse sentire nei suoi versi volgari qualche cosa delle passioni che gli agitavano il petto? qualche cosa delle vicende a cui si trovò mescolato?
Eppure niente di questo. Federigo II come il suo ministro, come tutti gli altri rimatori della sua scuola, non furono che languidi imitatori della poesia amorosa dei Provenzali, e al pari di tutti gli imitatori, riuscirono peggiori dei loro modelli. Misera cosa, invero, quella nostra antichissima poesia, scarna, estenuata, gelida, anemica. Nessun impeto di passione l'agita mai, niun accento individuale vi si può cogliere. Tutte quelle migliaia e migliaia di rime somiglian tra loro, paiono una processione interminabile di pallide ombre che ci sfili davanti nel crepuscolo d'una giornata nebbiosa. La vita, la natura, l'amore, non danno mai un sussulto di verità a quei verseggiatori noiosi e monotoni, che spogliati di ogni personalità, scrivono tutti secondo un tipo comune, girano e rigirano intorno all'eterno tema dell'amore con giuochi di parole e di concetto, e con un frasario puramente di convenzione; sbadigliano i loro sospiri a donne che non son donne ma larve; e paurosi di ogni libero volo, si tengono strettamente afferrati ai loro modelli, come vacillanti bambini alla gonna materna. L'arte della scuola Sicula è, come ha detto un moderno, il balbettare infantile della decrepitezza; e non poteva essere che così. Lo spirito cavalleresco onde era sbocciata, come fiore a pomposi colori, la poesia provenzale, agonizzava oramai in tutta l'Europa; la stessa arte trovadorica era giunta a un periodo di estrema decadenza. La scuola Sicula al difetto dell'imitazione aggiungeva dunque quello di essere un frutto fuor di stagione, venuto troppo tardi e avvizzito prima di maturare.
Ma la spinta era data. Se Federigo e i poeti della sua corte amano di trastullarsi fabbricando stentatamente le stanze delle loro canzoni dietro le orme dei Provenzali, altri in quella stessa Sicilia risuonante di quel vaniloquio poetico, porge l'orecchio alla natura immortale, e compone versi d'amore vigorosamente sentito. La donna sbiadita, incorporea, insignificante dei rimatori della scuola cortigiana, si muterà così in una donna nelle cui vene corre vivido il sangue, sulle cui guancie brillano accesi i colori della salute. La povera castellana venuta di Provenza in Sicilia a morir d'etisia, cederà il posto alla donna del popolo non aduggiata dalle ombre crepuscolari di nessuna scuola, ma cresciuta sotto gli allegri e liberi raggi del sole, pioventi su lei gioventù e robustezza: un po' troppo veramente plebea e petulante, che non ha imparato certe raffinatezze e certe ipocrisie dell'educazione; ma che si presenta sulla scena dell'arte italiana come la prima che abbia fisonomia, atteggiamenti, parole, non presi in prestito da nessuno.
Di un'arte popolare sviluppantesi nel mezzogiorno d'Italia insieme all'arte cortigiana, ci restano varii documenti: il lamento di una donna che vede partire l'amante per Terrasanta, il pianto di una fanciulla abbandonata, e, più notabile degli altri, un contrasto tra un uomo e una donna, dove scattano parole e concetti molto vivaci, dove parla una passione irruente, senza sottintesi, senza mezzi termini, e che prova non essere il realismo un'invenzione del nostro secolo. Chi sia l'autore di questa poesia non sappiamo. I critici che si sono occupati di storia letteraria lo hanno chiamato ora Ciullo d'Alcamo ora Cielo dal Camo, e ci hanno scritto intorno pagine e pagine senza fine. Non sono molti anni che ci fu in Italia una vera alluvione di queste Ciullomachie. Ma l'alluvione per fortuna è passata, e la poesia resta: una poesia fresca di sentimento, rude nel suo contenuto e nella sua forma dialettale, che non ha grande importanza per sè stessa, ma che ci prova come accanto alla poesia artistica d'imitazione straniera, un'altra ne sorgesse indigena e originale, la quale s'ispirava alla realtà ed era eco del sentimento popolare.
Se nel centro d'Italia e nel mezzogiorno la nostra letteratura s'iniziò con poesie amorose, diversi affatto furono gli atteggiamenti presi dall'arte nascente nella parte settentrionale del nostro paese. Neppur là, invero, dovevano mancare i canti d'amore, e qualche povero avanzo ne è giunto fino a noi. Ma son poca cosa, e più triviale anche del contrasto Alcamese, tanto triviale che non sarebbe lecito a me dirvene neppur gli argomenti. Nel nord dell'Italia la più antica poesia preferì il genere civile, morale, religioso, didattico: non fu lirica, ma narrativa. Nella regione veneta si ebbe come uno strascico delle canzoni di gesta francesi; e si imitò l'epopea della Volpe; Girardo Patecchio di Cremona scrisse (non oso dire poetò) sulle noie della vita e sui proverbi di Salomone; Ugoccione da Lodi diede ammaestramenti religiosi e morali in un poemetto d'oltre, pur troppo! duemila versi; un altro poemetto compose Pietro da Barsegapè sul vecchio e nuovo Testamento; Giacomino da Verona descrisse l'Inferno e il Paradiso; Bonvesin da Riva scrisse molte poesie di generi diversi.
Giacomino e Buonvicino furono i maggiori di questi poeti settentrionali, che adoperarono una lingua avente a base i dialetti veneti, ma forbiti con intenzione letteraria.
I due poemetti di Giacomino da Verona, frate dell'ordine di San Francesco, furono certamente scritti per essere recitati al popolo, a quel popolo stesso che tanto si piaceva delle storie romanzesche, e che pendeva dalle labbra del giullare quando gli cantava le imprese di Oliviero e di Rolando.
Il suo paradiso, o com'egli la chiama, la Gerusalemme celeste, ha merli di cristallo, corridoi d'oro, porte di margherite, e alla sua guardia sta un cherubino colla spada di fuoco. Per mezzo alla divina città corre un bel fiume, le cui acque danno giovinezza eterna, sulle cui rive verdeggiano alberi dalle foglie d'oro e d'argento, e crescono fiori ch'empiono di dolce profumo tutto il paradiso.
Magra descrizione; ma come poteva essere altrimenti? Dove trovare i mezzi per rappresentare ciò che trascende la natura e il pensiero? Lo stesso più grande artista non ha a sua disposizione altri colori che quelli della terra: e Giacomino, poveretto! era tutt'altro che un grande artista.