Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 19
LE UNIVERSITÀ E IL DIRITTO
DI
FRANCESCO SCHUPFER
Signore e Signori!
Vi ricorda di avere negli anni della vostra infanzia udito favoleggiare di una principessa d'altri tempi, che la virtù malefica di un mago aveva improvvisamente immersa in un profondo letargo? La bella dormente durò così cento, ducento, trecento anni, senza che il tempo potesse nulla su lei, finchè un prode e gentile cavaliero, rotto l'incanto, la ridonò alle gioie della vita o dell'amore.
Così suona la leggenda, che mi è tornata al pensiero appunto oggi, che il cortese invito di questa benemerita Società promotrice di pubbliche letture, mi conduce a parlarvi delle università e della scienza del diritto negli albori della vita italiana.
Perchè anch'esse hanno la loro leggenda.
Erennio Modestino, prefetto dei vigili nel 244 dopo Cristo, avrebbe chiusa la serie dei grandi giureconsulti romani. Lo studio e la scienza del diritto, dopo essersi sollevati a straordinaria altezza, sarebbero decaduti. Dirò meglio: quella gioconda primavera della giurisprudenza, che aveva illustrato il regno dei Severi, si sarebbe come spenta improvvisamente già sotto i Romani, per far luogo ad un periodo molto lungo, che avrebbe vissuto di sole memorie.
Ora non vi dirò quali cause potrebbero aver determinato cotesto fenomeno: certo esso ha del prodigioso, ed anche più prodigioso è il modo con cui si sarebbe venuti alla riscossa. La scienza giuridica sarebbe caduta in un letargo mortale appunto nel momento del suo maggiore rigoglio, per risorgere novecent'anni dopo in tutta la sua bellezza e freschezza in Bologna per opera d'Irnerio il fortunato cavaliero.
È una leggenda simile all'altra; dissimile soltanto in ciò, che molti ci hanno creduto, e forse ancora ci credono. Ma oggimai la fede è scossa.
In verità, anche nei secoli buî, che formano il medio evo, in cui la forza cieca prevale, e in cui parrebbe che non ci fosse posto per la scuola e per la scienza, l'una e l'altra continuano; e siccome eran due civiltà che si disputavano il campo: la civiltà romana e la civiltà langobarda, non farà meraviglia di trovare scuole di diritto romano e scuole di diritto longobardo, scienza romana e scuola langobarda, l'una e l'altra con la sua impronta e co' suoi caratteri speciali, e l'una e l'altra dar la mano a Bologna, che forte delle vecchie tradizioni, riuscirà nondimeno a metterci qualcosa di suo, molto del suo, ed affermarsi in modo, da parer quasi che altre scuole ed altra scienza non ci fossero state prima di essa. In sostanza Bologna non rappresenta per noi una risurrezione; ma obbedisce alla grande legge dell'evoluzione, che governa il mondo.
Pertanto è mio proposito di ricercare oggi quali fossero le scuole di diritto che sopravvissero alla caduta dell'impero e studiarne l'attività scientifica: insieme vedremo come sorgesse Bologna, e che cosa abbia preso da esse, e che cosa, alla sua volta, abbia dato alla storia della civiltà.
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Comincio dell'osservare, che, già sotto i Romani, certe nozioni di diritto solevano impartirsi insieme con le materie del trivium, specie con la rettorica, all'occasione del genus judiciale. Le scuole del medio evo non fecero che continuare, anche per questo riguardo, le tradizioni antiche; e così in quei primi secoli – nel VI come nell'XI – il diritto forma oggetto di studio in tutte le scuole laiche superiori, unitamente alla grammatica, alla dialettica, alla rettorica, che erano appunto le arti liberali del trivio. Ne fanno fede Venanzio Fortunato nel secolo VI, Alcuino e Teodulfo nei tempi di Carlomagno. Al secolo XI si riferisce una notizia di Milone Crispino sul beato Lanfranco, da cui si rivela che, fino dagli anni puerili, era stato istruito nelle scuole delle arti liberali e delle leggi secolari, secondo l'uso della sua patria. Medesimamente la Pugna Oratorum di Anselmo Peripatetico, della metà del secolo XI, mostra che Anselmo, oltre ad essere addestrato nella rettorica e nella dialettica, era anche versato nel diritto, e che lo studio delle leggi romane andava tuttavia congiunto con la rettorica. Anselmo affida appunto alla rettorica la rappresentanza della giurisprudenza; e lo stesso risulta da alcune poesie del tempo. Una dice, parlando della rettorica:
Jus civile, forum, curules ipsa perornat;
E un'altra:
Civiles causas judicat esse meas.
Specialmente meritano d'essere ricordati i versi che Wipo, un borgognone della diocesi di Losanna, diresse nel 1041 ad Arrigo III. Il cappellano imperiale contrappone il buon uso italico d'insegnare di buon'ora ai giovani le arti liberali, compresa la giurisprudenza, alla crassa ignoranza dei Tedeschi de' suoi tempi, che ci mettevano ben poca cura ad istruirsi, tranne se volean darsi alla carriera ecclesiastica:
Hoc servant Itali post prima crepundia cuncti
Et sudare scholis mandatur tota juventus,
Solis Teutonicis vacuum nel turpe videtiur,
Ut doceant aliquem, nisi clericus accipiatur.
Soltanto non convien credere che codeste scuole d'arti approfondissero molto lo studio della giurisprudenza. Si tenevano più o meno sulle generali; e così accade che perfino i migliori, come Anselmo Peripatetico, non potessero gareggiare coi giuristi di professione.
D'altra parte c'erano anche scuole speciali di diritto romano.
Quella di Roma si è mantenuta anche nei secoli barbarici. Certo, esisteva nel secolo VI; e lo deduciamo dall'editto di Atalarico sullo stipendio dei professori, e da un brano della prammatica sanzione del 554, in cui Giustiniano ordina di pagare, come per l'addietro, le annonæ ai grammatici, agli oratori, e anche ai giureperiti. Lo stesso Giustiniano indica chiaramente la scuola di Roma come una delle tre scuole ufficiali dell'impero. Nè può dirsi ch'essa si perdesse così subito.
È però giunto un momento, in cui il posto di Roma è stato preso da altre scuole, che già prima eran venute in fama. Alludo specialmente a Ravenna, dove già da lungo tempo esisteva uno studio di grammatica e rettorica. E in breve i vanti di Ravenna doveano ecclissare quelli di Roma, tanto più che le relazioni di Ravenna con l'Impero eran più dirette. Odofredo racconta, che lo studio era stato altra volta a Roma, ma che poi era passato insieme coi libri legati nella Pentapoli e a Ravenna, che in Italia avea tenuto il secondo posto. E anche cerca di precisare il tempo: propter bella quæ fuerunt in Marchia, a cagion delle guerre che ci furon nella Marca; ma non è ben chiaro, nè si sa, quali propriamente fossero. Il Fitting pensa alle guerre della seconda metà del secolo XI, che si combatterono appunto fino alle porte di Roma, e nella stessa Roma, contro Gregorio VII, dal 1081 al 1084. Certo una frase del cardinale Atto (morto nel 1083) mostra che, ai tempi di Gregorio VII, gli studi in Roma eran veramente decaduti; ma il cardinale ne attribuisce la causa alle condizioni poco salubri della città, per lo che si durava fatica a trovare professori che volessero dimorarvi. Insieme si vede, che c'erano altri studi, i quali avevano offuscato quello di Roma.
Comunque la scuola di Ravenna era molto frequentata e fiorente già verso la metà del secolo XI; e lo deduciamo da una notizia che si trova in Pier Damiani. Il quale riferisce una sua disputa, che nell'estate del 1045, avrebbe avuto appunto coi giuristi di quella città, e ne risulta che il diritto romano era seriamente insegnato, e che gli insegnanti erano giudici ed avvocati. La scuola tendeva a mitigare l'impedimento della cognazione, stabilito dai canoni, ed è su questo tema che si aggirò la discussione. Pier Damiani stava per la interpretazione canonica. Insieme è osservabile che la opinione dei giuristi ravvennati, nonostante la confutazione di Pier Damiani, si fece largo sempre più sì da costringere il Papa a portarla davanti al Concilio lateranese del 1063, e combatterla poi in una sua costituzione diretta ai vescovi, agli ecclesiastici e ai giudici d'Italia. Ciò mostra il grado ascendente della scuola. Inoltre i capitoli pubblicati da Arrigo III a Rimini, l'anno 1047, accennano ad alquanti legisperiti, nei quali era sorto il dubbio, se i chierici dovessero prestar giuramento, o delegare questo ufficio ad altri. Quei legati ricordavano una legge, che Teodosio Augusto aveva indirizzato a Tauro prefetto del pretorio; e la circostanza del luogo, non lontano da Ravenna, dove Arrigo pubblicò la sua legge, può far credere che la disputa si agitasse colà. E anche un altro documento attesta in favore di questa scuola. È un nuovo segno di vita, che essa dà, ancora nel 1080, col libello, che Pietro Crasso, ravennate, mandò ad Arrigo IV, perchè se ne servisse nel sinodo di Bressanone. È una scrittura che mostra molta erudizione in chi l'ha dettata, specie una profonda conoscenza del diritto romano.
Un'altra scuola appartiene pure a questi tempi: vo' dire la scuola langobarda di Pavia, che non può essere trasandata nella storia del pensiero giuridico italiano.
Essa nacque da piccoli germi. I fattori che concorsero a formarla sono: la Curia palatina, che si stabilì a Pavia sullo scorcio del secolo X; e la scuola di grammatica, della quale si hanno traccie fino dai tempi di Re Cuniberto, ma che propriamente deve essersi rialzata sotto gli Ottoni, quando, sedate le lunghe e antiche turbolenze, gli animi riversarono negli studi la loro gagliardia. La scuola di diritto si svolse appunto dal seno della Curia palatina; ma l'antica scuola di grammatica vi ha apparecchiato il terreno. Se più vuolsi, furono i giudici palatini, o alcuni di essi, che, senza lasciare la pratica, cominciarono ad insegnare. Infatti Sigifredo, uno dei più antichi glossatori della scuola, era judex sacri Palatii; e parimenti lo erano Bonfiglio, Armanno, Walfredo; ma anche altri fungevano da giudici o patrocinavano cause. Le Expositio dà loro il nome di judices e causidici. D'altra parte, erano uomini venuti su nella vecchia scuola di lettere; ed è questa loro educazione, che probabilmente li ha spinti a consacrarsi allo studio ed all'insegnamento del diritto. Certo è: se riescono a ripulirlo, e ad elevarlo a teoria, fu nel soccorso della grammatica, della dialettica, della ragione umana imparate in quella scuola; e senza essa neppur la scuola di diritto avrebbe potuto attecchire. Così Walcauso è chiamato rethor nella collezione che va sotto il suo nome:
… rectis quod strinxit rethor habenis
Walcausus meritus.
Il glossatore Sigifredo, che ricordammo dianzi, era versatissimo nella rettorica, oltre che nel diritto. Lanfranco, lo abbiamo già detto, era stato educato fino dalla puerizia in scholis liberalium artium.
Aggiungo una osservazione! Per comprendere come questa scuola sia sorta, non dobbiamo dimenticare che correva una età, in cui tutto, o quasi tutto si trovava abbandonato alla iniziativa individuale, specie in Italia, il paese delle grandi iniziative. Eravamo ancora molto lungi dai tempi odierni, in cui tutto si suole attendere dal governo, e di tutto lo si rende responsabile! D'altra parte c'erano stati sempre maestri, che aveano insegnato privatamente verso retribuzione. La qual cosa non vuol dire, che tutti sieno riusciti a fondare stabilmente una scuola. Per lo più la scuola nasceva e tramontava con l'uomo; ma a volte riesciva a mettere radice. Qualche individuo esercitò un fascino troppo potente, perchè altri non ne seguisse l'esempio nel medesimo luogo; e allora non era difficile che la scuola acquistasse un carattere durevole. Così accade a Pavia.
Quant'è alle origini, sono d'avviso che risalgano ai tempi di Ottone I. Le glosse alle leggi langobarde fanno distinta memoria di una giurisprudenza surta in una età, omai remota, durante cui la teoria del diritto pratico avea ricevuto solida forma. L'età in discorso corrisponde, senza fallo, a quella degli Ottoni; primamente, perchè i suoi giureconsulti avean veduto le pratiche osservate nei giudizi di Leone vescovo di Vercelli, che fu nel seguito di Ottone I e vescovo palatino di Ottone III; e poi perchè non conoscono altre leggi langobarde di età posteriore, nè son più citati nelle glosse di questo leggi. I loro successori della seconda metà del secolo li qualificano col nome di antiqui judices, Antiqui causidici, o anche Antiqui semplicemente, e talvolta Antiquissimi, senza dire chi fossero. Lo studio poi continuava ancora nel secolo XII; e nonostante la grande fama, in cui era venuta Bologna, lo si frequentava volentieri, e ci si veniva anche da lontane regioni. Un formulario di lettere, compilato a Pavia tra il 1119 e il 1124, ne riferisce una di uno scolaro allo zio, che comincia così: Vestre paternitati, patruelium piissime, innotescat me exulem Papie studio legum… vel dialetice… alacrem aderere. Lo scolaro, manco a dirlo, si rivolgeva al piissimo zio per quattrini.
Del resto non conosciamo che pochi giureconsulti di codesto studio pavese. I principali sono: Walcauso, Bonfiglio, Guglielmo e Lanfranco; ma se ne ricordano anche altri.
La scuola di Pavia esisteva già quando sorse Bologna; ma anche il nuovo studio bolognese vien formandosi a poco a poco, appunto sulla base degli elementi che erano concorsi a formare quello di Pavia. Certamente Bologna aveva, anch'essa, la sua scuola di grammatica e di rettorica: anzi è da credere che già sullo scorcio del secolo X e sul principio dell'XI fosse salita in fama, perchè ci si veniva anche da altre parti d'Italia. San Guido, che poi fu vescovo d'Acqui, vi si recò sul principio del secolo XI, e così San Bruno, vescovo di Segni, nella seconda metà. Ma la scuola continua anche dopo, frequentatissima. Riferisco solo due testimonianze tra molte che potrei ricordare. Il poeta, che cantò le gesta di Federico I, parlando di Bologna, dice appunto, che era un centro di studî, dove gli scolari accorrevano a frotte da tutte le parti del mondo, per impararvi le variæ artes. E Acerbo Morena spiega la cosa: pollebat equidem tunc Bononia in literalibus studiis pre cunctis Ytalie civitatibus. Insieme c'erano a Bologna molti giudici e causidici e dottori di leggi, prima ancora che ci fosse la scuola di diritto. Un Leo notarius et judex si ha già in una carta del 982; e molti se ne incontrano nel secolo XI: un Alberto legis doctor, un Iginolfo, anche legis doctor ed aulæ regiæ judex, Pepone legis doctor, un Pietro di Monte Armato judex, un Rusticus legis doctus, per tacere di altri. Ciò che più importa è il vedere, come questi dottori e giudici fossero venuti su nella scuola di grammatica. Lo stesso Irnerio, il grande Irnerio, aveva prima insegnato in artibus, e fu soltanto dopo che cominciò a studiare nei libri legali e ad insegnare in questi. Anzi Odofredo, accennando a certa sua tendenza sofistica, che mostra, qua e là, nello interpretare le leggi, l'attribuisce all'essere egli stato loicus et magister in artibus. La troppa energia dialettica fa a volte di questi scherzi. Un altro indizio non disprezzabile degli studii e della coltura di questi giuristi, è il vedere come amassero di quando in quando dar la stura alla loro vena poetica (mi si passi la parola), e chiudessero i loro atti con qualche verso. Un Angelo causidicus compie nel 1116 un atto di donazione, e finisce così:
Angelus his metris causidicus ista peregi
Notarii signo subscribens more benigno.
E due anni dopo:
Angelus his metris causidicus ista peregi
Notarii signo subscribens robore summo.
Ora, questi giudici e dottori bolognesi, che certamente nella scuola di grammatica e rettorica aveano, insieme ad altre discipline, studiato anche il diritto, han cominciato, alla lor volta, a tener scuola di legge, precisamente come a Pavia. Nè la scuola è sfuggita a Odofredo, il quale, parlando di Pepone, dico appunto: cepit auctoritate sua legere in legibus. Nè importa se l'insegnamento sarà stato in sulle prime saltuario. Oggi era Pepone, domani sarà stato Irnerio: leggevano come e quando credevano; e gli scolari ne continuavano l'opera. Così veniva a stabilirsi una tradizione scientifica, e la tradizione vuol già dir scuola: solo più tardi vi si aggiungerà uno speciale ordinamento.
La scuola stessa non è nata con Irnerio. Certamente Pepone lo ha preceduto nell'insegnamento delle leggi; e quantunque Odofredo sentenzii che nullius nominis fuit, una qualche fama deve averla goduta, se nel 1076 lo troviamo in un placito della duchessa Beatrice, e appunto cotesta carta rivela altre contemporanee. Ma ci sono anche altri indizî di una scienza preirneriana: soltanto non si fanno nomi. Tutto induce a credere che alcuni giureconsulti ci sien stati a Bologna prima ancora d'Irnerio; ma nessuno li ricorda. È una scienza che non ha nome; ed è a mala pena che quello di Pepone, più fortunato degli altri, abbia potuto salvarsi. Subito dopo Pepone è nominato Irnerio, giudice anch'egli, che oltre ad insegnare a Bologna, figura più volte nei placiti matildini e imperiali e in altre carte, dal 1113 al 1125. Dopo non se n'ha più traccia; ma intanto il suo nome aveva ecclissato tutti gli altri. Odofredo, che pur avea detto di Pepone nullius nominis fuit, soggiunge, parlando di Irnerio, che fuit maximi nominis et fuit primus illuminator scientie nostre, sì da meritarsi il nome di lucerna juris. Odofredo ne loda specialmente l'ingegno sottile e la forza dialettica. Ciò che più importa, Irnerio ha lasciato dei discepoli, che hanno anche insegnato, ed assicurato così le sorti della scuola per tutti i tempi avvenire. Soltanto non si sa di sicuro chi sieno. Ottone Morena fa menzione di quattro dottori famosi, che avrebbero insegnato a Bologna circa la metà del secolo XII, e avuto comuni le ingerenze nei più grandi affari del tempo: Bulgaro, Martino Gosia, Jacopo di Porta Ravegnana ed Ugo. Secondo il Morena sarebbero stati gli immediati scolari d'Irnerio: anzi egli stesso li avrebbe qualificati così in un distico diventato famoso:
Bulgarus os aureum, Martinus copia legum,
Mens legum est Ugo, Jacobus id quod ego.
Ma forse si tratta, più ch'altro, di una tradizione. Checchè ne sia di ciò, è certo che la scuola si elevò per essi ad una straordinaria altezza, e continuò poi per altre due generazioni. Mi restringo a ricordare alcuni nomi: Rogerio, Piacentino, Giovanni Bassiano, Pillio, Vacario della prima generazione; Azone e Ugolino della seconda. E se ne potrebbero ricordare anche altri. In realtà è una lunga sequela di illustri giureconsulti; e son notevoli i passi che si son fatti di generazione in generazione: i glossatori venuti dopo non mancano di trarre partito da quelli che li han preceduti; ma d'altronde le fonti continuano ancora a studiarsi, e l'autorità dei nomi non è d'impaccio ad alcun progresso. Ugolino però è l'ultimo dei glossatori, le cui glosse abbiano una reale importanza. Dopo lui la scuola decade. Si cominciarono a tenere nello stesso conto le fonti e le illustrazioni, e tutte, buone e non buone, senza discernimento nè esame, e si finì con lo studiarle, più che non si facesse delle fonti stesse, e farne uso, anche là dove non si dovea. La stessa glossa di Accursio è opera di decadenza, quantunque non ci sia stato forse altro glossatore, che sia salito in maggior fama.
Tali erano le scuole sugli albori della vita italiana. Resta che ne vediamo la produzione scientifica, che deve, per così dire, mostrarcele in azione, rivelandone l'operosità durante i secoli, di cui discorriamo.
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Ci tengo a ripeterlo, che la scienza giuridica dei Romani non è decaduta improvvisamente, come si crede dai più; e ad ogni modo non è vero che le tenebre state di lunga durata. Un barlume di luce appare nel secolo IV e nel V. Allora la letteratura latina si è migliorata sensibilmente per sollevarsi fino alla filosofia elegante e solida di Boezio ed alla erudizione illuminata di Cassiodoro: come avrebbe la giurisprudenza potuto sfuggire all'impulso delle lettere, della filosofia e della teologia? In realtà si è rialzata alquanto; e ne abbiamo la prova in alcune opere di cotesti tempi, dovute probabilmente alla scuola di Roma. Ricordo i Sommari del Codice Teodosiano, l'Interpretatio del Breviario, il Liber Gaii, la Glossa torinese: tutti lavori, che non rivelano molta originalità e potenza di mente, ma che d'altronde son chiari e precisi; e nei due ultimi si può anche scorgere un progresso. Tuttavia sotto Giustiniano la scienza corse un serio pericolo; perchè l'imperatore, a impedire che la sua opera legislativa potesse venire offuscata e turbata dalla verbosità dei commenti, ordinò ripetutamente che nessuno dovesse farsi a commentare il testo. Soltanto permise di tradurre letteralmente la legge in greco per comodo dei suoi sudditi, e indicarne sommariamente i titoli, e citare le opinioni dei giureconsulti antichi, purchè si accordassero col nuovo diritto: ogni altra riproduzione e illustrazione del testo doveva esser punita con la pena dei falsarî. Ora, il divieto di Giustiniano paralizzava l'attività della scuola proprio nel momento in cui, pei grandi mutamenti introdotti nella legislazione, se ne dovea sentire più forte il bisogno; e la scienza giuridica ne fu seriamente minacciata. Nondimeno la scuola, pur facendo mostra di acconciarsi alla volontà imperiale, reagì come potè, ancora durante il regno di Giustiniano, e continuò poi sempre. L'Epitome di Giuliano, la Summa perusina, la Glossa pistoiese, le glosse che, nel corso del secolo X, furono aggiunte a quella di Torino, appartengono a questa prima fioritura giuridica medievale. E così si arriva al secolo XI, quando la scienza giuridica è già in pieno rigoglio, tanto è vero che alcune produzioni han potuto mantenersi ancora per lungo tempo accanto agli scritti della scuola bolognese. Anzi, come istradamento alla scienza del diritto, son di gran lunga superiori ad essi. Vogliamo alludere specialmente al Brachylogus ed alle Exceptiones legum Romanorum, usciti, a quanto pare, l'uno e l'altro dalla scuola ravennate. Anche il libello di Pietro Crasso è un modello del genere. Così, già per opera delle scuole di Roma e di Ravenna, la storia della scienza, da Costantino a Irnerio, si presenta in una nuova luce; e nondimeno lo splendore di Bologna non ne rimane punto ecclissato. Non ci sarà più nulla di meraviglioso; ma è certo che lo studio del diritto romano è diventato a Bologna più speciale e quindi più intenso. Dopo tutto ogni scuola ha la sua impronta, e anche quelle che stiamo esaminando han la loro, ben diversa da quella che troveremo a Bologna.
In generale c'è questa tendenza tanto nella scuola di Roma, quanto in quella di Ravenna, di mettere la vecchia legge imperiale alla portata dei tempi nuovi e temperarne le durezze. Essa si rivela già nelle lettere di Gregorio Magno; nè altrimenti il Brachilogo altera a bella posta il diritto giustinianeo per adattarlo alle condizioni dei tempi, e anche informarlo ad una maggiore equità. E non c'è dubbio che siasi proposto una cosa e l'altra. Il giurista si atteggia qua e là veramente a successore degli antichi prudentes, la cui autorità non era minore di quella dei Cesari. Come il Principe vuole, e così anche il giureconsulto dee volere; e in realtà egli assume l'aria di legislatore: modifica il diritto, e non ne dà neppure la ragione, restringendosi a dire: vogliamo la tal cosa, concediamo la tal altra. Lo che non significa che egli proceda a casaccio. Si vede chiaro, che egli modifica il diritto giustinianeo, o perchè non gli pare pienamente conforme a giustizia, o perchè lo crede inopportuno, o anche perchè contraddice al diritto del paese. E non ne fa mistero: sin vero æquitas juri scripto contraria videatur, secundum ipsam judicandum est. Lo stesso modo s'incontra nelle Exceptiones legum Romanorum. Anche qui il giurista si è messo a foggiare il diritto più o meno liberamente con riguardo all'equità ed alla opportunità, e lo dice egli stesso nel prologo: Si quid inutile ruptum æquitative contrarium in legibus reperitur nostris pedibus subcalcamus, quicquid noviter inventum ac tenaciter servatum tibi… revelamus. Anzi ritorna più volte sui principî della giustizia e dell'equità che antepone alla legge. Egli osserva, che quando la justitia e la consuetudo, cioè la vera giustizia intrinseca e il diritto positivo vigente, contrastavano tra loro, non ci potean essere che gli idioti che si pronunciassero per la consuetudine: i legisperiti davano la preferenza alla giustizia, che concordava sempre con la verità. Insieme proclama il diritto, che aveano i giudici, di decampare dalle leggi per ragioni superiori, appunto come il Brachilogo; ma lo attribuisce solo ai più autorevoli e timorati di Dio, che non fossero facili a essere subornati per grazia o per denaro. Il giurista dice che se ciò poteva farsi anche coi sacri canoni, che pur aveano maggiore autorità, perchè non si avrebbe potuto con le leggi secolari? Così accadde che più principî estranei al diritto romano penetrassero in questo libro; e d'altra parte non vorrei nè pur dire che l'autore s'inchini sempre agli usi vigenti: anzi talvolta vi si oppone per tornare ai vecchi principî.
Una nuova tendenza della scuola appare dal libello di Pietro Crasso, ed è di estendere i principî del diritto privato alle questioni di diritto pubblico. Il libello stesso ne offre più applicazioni. Una riguarda i rapporti di Arrigo IV col Papa. L'autore comincia dall'osservare che Papa Gregorio teneva la sede pontificia Julia et Plautia lege contempta; e nè tampoco poteva richiamarsi a quella costituzione del Codice, che proibiva al figlio di famiglia di agire contro il padre, perchè non poteva dirsi padre di Arrigo, essendosi comportato tutt'altro che paternamente con lui, e anzi lo aveva emancipato, scomunicandolo, tendendogli d'ogni maniera insidie, e perfino attentando a' suoi giorni. Anzi perciò potrebbe dirsi incorso nella Lex de parricidiis. Lo stesso Crasso si occupa poi dei rapporti di Arrigo coi Sassoni; e anche qui la scrittura formicola di motivi privati. Per provare che avean fatto male a deporlo, si richiama nientemeno che alle Istituzioni, che riconoscono il diritto ereditario, e anche ad alcuni principî del Codice, che pareggiano la consuetudine alla legge. Insieme avverte, che chi invade violentemente una cosa, senza aspettare che il giudice decida, è obbligato a restituirla, e anche a pagarne il valore, giusta la L. 7 C. unde vi 7. 4. E così dovea essere coi Sassoni, che avean deposto Arrigo.
L'opera dei giureconsulti pavesi non è meno importante, sebbene sotto un altro punto di vista. Cominciano dal raccogliere le leggi cronologicamente e sistematicamente, e finiscono con lo illustrarle. Dettano glosse e formule, e anche compilano alcuni lavori indipendenti, e questioni e trattati, sul possesso, sul diritto successorio, sul duello giudiziario, ecc., esponendo i principî del diritto langobardo che vigeva nell'alta Italia, in modo sistematico, con la scorta di varie leggi, qua e là paragonando il diritto romano e germanico tra loro. Specialmente l'Expositio, una specie di glossa perpetua alla Lombarda è opera di molto valore. L'autore non si contenta di interpretare le singole leggi, ma ritesse, per così dire, la storia dommatica di esse: espone le opinioni degli altri giureconsulti, le loro dispute, e il modo con cui si studiavano di conciliare i passi discordi. Insieme rivela una grande dimestichezza col diritto romano, che studia nelle fonti.
In generale solo il gius romano poteva sollevare in Italia la letteratura giuridica; e infatti le glosse della scuola di Pavia acquistano subito, mercè esso, una maggiore importanza. Se più vuolsi, possiamo notare fin dalle prime uno spirito tutto italiano, che anima quei giureconsulti pavesi, ereditato forse dalla vecchia scuola di grammatica. Comunque, non c'è dubbio, che lo studio pavese, tutto dedicato a illustrare le leggi langobarde, riconosce subito l'autorità del gius romano, e il suo valore sussidiario come diritto comune. Anzi la scuola di Pavia si è resa tanto più eccellente, quanto più si è addentrata nello studio di quel diritto. Gli antiqui judices conoscevano certamente le Istituzioni giustinianee, ma non pare che conoscessero altro: certo non aveano ancora addestrato lo spirito in modo da sollevarlo oltre la materialità della legge. Talvolta si trovano come impacciati nel conciliare i vari passi: ad ogni modo la loro interpretazione è sempre letterale e pedestre. Aggiungo, che se gli Antiqui si giovarono del diritto romano, lo fecero solo per supplire i difetti del langobardo, nei casi, a cui questo non provvedeva: allora vi ricorrevano come a legge generale; se no, no. Invece Guglielmo conosce anche il Codice, e la sua interpretazione è già più larga. Egli non si appaga più della lettera della legge, nè si crede in obbligo di star ligio ad essa; ma ne abbraccia lo spirito, e, con la scorta del diritto romano, cerca d'introdurvi qualche principio più sano di giustizia e di equità. In questo senso combatte gli Antichi e Bonfiglio. Ma sopratutto si rivela questo indirizzo nell'autore della Expositio. Egli approfitta di tutte le fonti, allora conosciute: le Istituzioni, i primi nove libri nel Codice, il Giuliano, e non trasanda neppur il Digesto. Nè si contenta di colmare le lacune del diritto langobardo colle leggi romane; ma come Guglielmo e Lanfranco, e anche più di essi, lo trae addirittura ai principî romani, interpretandolo con la loro scorta, abbandonando l'analogia desunta dal diritto patrio per surrogarvi quella delle leggi romane, sostituendo perfino le disposizioni romane alle langobarde.
Insieme interessa di vedere come questi lombardisti citassero le leggi. Abbandonano le indicazioni generiche e i numeri per appigliarsi ai titoli e alle parole iniziali, sia pei testi langobardi, sia pei romani; e anche questa è una cosa che ha la sua importanza. È un metodo, che rivela nuovamente la grande conoscenza, che aveano delle fonti, e che dovea far fortuna.
Lo studio di Bologna, lo abbiamo già avvertito, non sorge di punto in bianco a ridestare o iniziare un movimento scientifico spento da secoli. Anche lo studio bolognese ha i suoi precursori e non può dirsi che riaccenda per il primo, dopo tanta caligine medievale, la lampada della scienza. Certamente la tradizione ci ha la sua parte. A cominciare dalla scuola di Roma, e venendo giù fino alla scuola di Ravenna e a quella di Pavia, c'era oggimai tutta una tradizione, più o meno scientifica, dovuta alla scuola: il terreno poteva dirsi apparecchiato già da lungo per ricevere la nuova sementa. Lo studio di Bologna è, in verità, il frutto di una lunga evoluzione storica; nè la letteratura giuridica medievale è andata perduta per Bologna.