Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 21
LA FILOSOFIA E LA SCIENZA NEL PERIODO DELLE ORIGINI
DI
GIACOMO BARZELLOTTI
Signore e Signori.
Ernesto Renan in uno dei suoi Nuovi studi di storia religiosa dice: «Quella gran notte la quale si stende dalla rovina della civiltà antica al risplendere della civiltà moderna, non è, come molti se la sono figurata, un'ombra tutta uniforme, ma presenta a un occhio attento linee assai chiare, d'un disegno facile a scorgersi. La notte non dura realmente che fino al secolo undecimo. Allora ha luogo un rinascimento in filosofia, in poesia, in politica, in arte. Di questo rinascimento la parte prima, che spetta principalmente alla filosofia e a quel pochissimo di scienza che allora le era unita, può dirsi si accolga tutta nella Scolastica, nella filosofia del Cristianesimo e della Chiesa, che si estende anche in occidente per tutto là ove arriva la grande azione intellettuale e la fede della comunità religiosa guidata da Roma.»
Il momento storico che io debbo descrivervi e che va dall'entrare del secolo undecimo fino a Dante, è come l'albeggiare primo e incerto della coltura italiana che ne precorre il pieno giorno glorioso, già quasi al suo colmo sul finire del secolo decimoterzo. A guardarlo ora, nelle lontananze della storia della mente e dell'anima del nostro popolo, cotesto primo momento del suo risorgere rende immagine di quello che sono sotto il nostro bel cielo d'Italia, là in quella potente natura dei paesi meridionali, così fosca nelle sue tempeste, ma anche così mirabilmente precoce nei suoi risvegli di primavera, quelle mattinate quando a un alito fecondo di vita che la invade tutta, il sereno rompe dai monti e dalla marina e il sole appena spuntato fa già quasi sentire tutta la sua forza. È come una vittoria faticosa, contrastata ma rapida della stagione nuova sull'inverno che si dilegua, dopo una lotta tra il vento e le nubi dense, abbassate, sotto a cui l'aspetto del mare, mutabile, come un bel volto meridionale a ogni soffio della passione, cangia di momento in momento dal ceruleo fosco della tempesta all'azzurro chiaro scintillante di luce. Noi assistiamo dal lido a questa vittoria crescente del sereno e del sole che avventa fasci di strali luminosi e fende e respinge sempre più le grandi masse di nubi, sino a che tutta la curva del golfo di Napoli si apra all'occhio in piena luce tra la punta di Sorrento e quella di Posilippo.
A questo rasserenarsi della natura in un paese meridionale fa pensare, lo spettacolo che dà di sè lo spirito italiano risorgente dopo il mille appena un alito di libertà, d'ideali religiosi e civili e di nuove forze sociali vi spira dentro.
I due ultimi secoli declinanti verso il mille, specie il decimo, che fu detto a ragione un'età di ferro, avean veduto in Italia l'estremo della violenza corrotta e dell'abbiezione, cui aveva potuto trascorrere una feudalità come la nostra, mista degli elementi di tante invasioni soprappostisi gli uni agli altri, discorde in sè stessa, agitantesi in perfide gare di dominio tra, da un lato, gli ultimi fiacchi Carolingi, i Berengari, gli Ottoni e i primi imperatori ghibellini, tutti impotenti a contenerla, e dall'altra parte il Papato. Il quale, scaduto dal primo suo grande ufficio di tutore dei popoli e da quello che si era assunto sotto Carlo Magno di restaurare la dignità dell'Impero, era divenuto ormai poco più e anche meno di un feudo baronale di un dogato romano. Nella notte dei tempi delle Teodore e delle Marozie, l'Italia, minacciata al nord dagli Ungheri, corsa, occupata al mezzogiorno dai Saraceni, era scesa anche più basso nelle miserie civili che non quando alla deposizione di Carlo il Grosso una dieta di signori e di prelati aveva detto nessuna voce poter bastare ad esprimere ciò che il paese aveva sofferto.
E pure in codesto buio era rimasto ancora qualche barlume. Se gli studi classici greci e la conoscenza di quella lingua erano, si può dire, spariti dall'occidente d'Europa, un sentore della coltura antica e dello studio del latino classico s'era potuto però conservare nelle scuole dei grammatici non mai morte. Le enciclopedie di Cassiodoro, di Claudiano Mamerto, di Capella, d'Isidoro, di Beda l'avevano come fatta passare essicandola in rozzi estratti, che pur ne rendevano ancora, se non lo spirito, in parte però i materiali e le forme.
E la Chiesa facendo sue tante di codeste forme, accogliendo, in occidente, il latino come lingua sacra, molto aveva salvato del sapere e del pensiero antico nelle opere dei Padri, della tradizione grammaticale e letteraria nelle scuole unite alle parrocchie, alle cattedrali e nei seminari. Nelle biblioteche benedettine dove, come narra Benvenuto da Imola, qualche volta cresceva l'erba, s'eran distrutti, è vero, col raschiarli, non pochi codici antichi; ma spesso anche aveva brillato nelle veglie di qualche pallido monaco curvo sui libri una lampada che, come quella del pensatore, secondo la bella espressione di Gian Paolo Richter «avrebbe rischiarato il mondo.»
Il papato fin da quando mettendosi dalla parte del popolo respinse da noi il moto bizantino degli Iconoclasti, aveva concorso a salvare l'avvenire delle arti. E nella tradizione ecclesiastica del diritto canonico, nelle immunità vescovili strappate agl'imperatori, e da cui in più luoghi avean cominciate le franchigie delle città, molti germi di coltura e di consuetudini più umane in età così violente s'eran potuti preservare. Anche fuori del breve giro delle sette arti, da cui di rado osava uscire il sapere medievale, una parte delle dottrine naturali e matematiche coltivate dai Greci s'era con le scienze occulte trasmessa a noi dagli Arabi. Siciliani, se non altro, di nascita erano un traduttore della Materia medica di Dioscoride vissuto nel decimo secolo, e nella prima metà del duodecimo sotto Ruggero il Normanno l'ammiraglio Eugenio interprete dell'Ottica di Tolomeo. Era compilato in Sicilia per ordine del Re Normanno, e, come crede l'Amari, da uomini forse la più parte italiani, il celebre libro di geografia detto il libro di Ruggero e attribuito ad Edrisi. E accanto a questi studi che poi doveano giovar tanto ai primi viaggiatori e navigatori d'Italia, un altro ne era sempre sopravvissuto per tradizione tutta nostra, quello del Diritto romano, ultimo splendore dell'occaso italico, come lo chiama il Carducci, e che sembra ritardare resistendo in faccia ai Goti l'oscurità barbarica, sembra interromperla balenando nella legislazione dei Longobardi. A Roma nella scuola imperiale d'arti e di giurisprudenza, a Pavia nella scuola regia longobarda, a Ravenna nell'interpretazione dei libri di Giustiniano, poi a Bologna da Pepone ad Irnerio, il diritto teneva vivo tra noi quanto di più alto ci era rimasto della romanità spenta, per poi uscir dalle scuole e mescolarsi alle contese tra la Chiesa e l'Impero e prestare all'una e all'altro armi di cui poi dovean valersi, venendo su tra quelle contese, i nostri comuni.
Ma intanto, se non comuni, città in parte almeno indipendenti erano cominciate a sorgere qua e là anche innanzi e dopo l'entrare del secolo undecimo; prime le marinare: Genova a riparo dei monti, Venezia fatta sicura dalle lagune e ben presto signora dell'Istria e della Dalmazia, Pisa, coi suoi navigli, uniti poi a quelli di Genova, in caccia dei Saraceni; nel mezzogiorno Gaeta e Amalfi, che già nel secolo X fioriva di commerci, e Salerno insigne per la sua scuola, che già aveva medici di grido prima del mille.
In codeste forme di reggimento politico, mezzo tra il feudale e il popolare, non s'era ancora però potuta comporre una società nuova, una società vera. Quando essa, quasi a un tempo, cominciò a venir su in più parti d'Italia, e prima nelle città lombarde coll'incremento del comune, più tardi ordinato sotto i consoli, dal confondersi e contemperarsi del sangue e delle forze delle classi soggette, dei vassalli inferiori, de' borghesi, degli artigiani con la vecchia nobiltà feudale, e ne scoppiò un fermento, un rigoglio nuovo di vita popolare nascente, contro al cui urto doveva poi rompersi a Legnano la furia dell'Imperatore, allora, o signori, in quelle origini della forma di società civile che fu nostra e fatta dal genio nativo del nostro popolo, vediamo concorrere tutte insieme a produrla e più a farla poi fiorire di arti e di alta coltura quelle che sono state, che saranno sempre le prime condizioni di qualsiasi grandezza umana nelle cose morali e sociali: non la indipendenza e la libertà politica sole, che non bastano, ma sopratutto il forte consentire delle volontà individuali in un grande intento comune, il loro eroico obliarsi in qualche grande idea impersonale, tale da oltrepassare la vita e i suoi interessi e i suoi piaceri, e farla gettar via, al bisogno, con gioia per ciò che vale più di lei.
Questo era il lievito da cui fermentò, penetrata tutta di una grande idealità di pensiero e d'arte, la coltura dei comuni italiani. Sorti fra le lotte di due grandi potestà, che parlavano e combattevano così l'una come l'altra in nome di un'idea, essi paiono, in quest'ultimo tratto del deserto medievale, avviarsi esploratori di una civiltà nuova con l'occhio volto a due grandi miraggi storici: a quello dell'Impero, come di tutto un passato di signoria sui popoli da restaurare qui da noi; a quello della Chiesa teocratica, quale l'aveva pensata e riformata un nostro, Ildebrando, come di una grande dittatura delle menti e degli animi, di una romanità restaurata nel campo della coscienza. Miraggi, se si vuole, l'uno e l'altro che per secoli sviarono la storia italiana da quel cammino sicuro dell'unità e della concentrazione nazionale per cui già nel secolo undecimo s'eran messi altri popoli d'Europa. Ma quante grandi contemplazioni di pensiero geniale, quante visioni di arte ispirata fruttarono codesti miraggi da sant'Anselmo d'Aosta a Tommaso d'Aquino, dal cantico al sole di Francesco d'Assisi, dall'Itinerarium di san Bonaventura, alla Monarchia, al Convito e al Paradiso di Dante! Anzi non peraltro io credo che l'Italia, sebbene la sua lingua sia stata scritta tanto più tardi delle altre lingue romanze, le abbia precedute nella maturità precoce della sua letteratura, se non perchè qui da noi sotto questo suolo pieno di così grandi memorie non mai spente, campo delle maggiori lotte morali e storiche di quel tempo, covava, lasciatemi dir così, una maggiore semenza fecondatrice d'ideali ispiratori del pensiero e dell'animo umano. La riforma dei chiostri, che precede ed inizia l'opera di Ildebrando e la contesa per le investiture; – poichè solo nella solitudine e nel raccoglimento l'uomo si è sempre apparecchiato ad agire potentemente sugli altri; – questa riforma muove da Cluny onde esce anche Gregorio VII; ma l'impulso più potente viene dall'Italia, da grandi solitari come san Romualdo, san Giovan Gualberto, da pensatori eloquenti come Lanfranco e san Pier Damiano. Uno dei centri più importanti di tal moto di riforma fu, nella seconda metà del secolo XI, la nostra Firenze; dove il rogo di Pietro Igneo precedeva nel 1068 il nascere della Repubblica, allo stesso modo che, dice il Villari, doveva nel 1498 precederne la morte il rogo di Girolamo Savonarola. E allora e anche più tardi dopo che col suo svolgersi in forme più larghe la storia dei comuni e dei popoli d'Italia trae più della sua materia dagli interessi economici, sociali e politici dal laicato, il motivo ideale delle sue iniziative più grandi resta per un pezzo in un ordine di pensieri che accenna al di là e al disopra della vita. N'è prova la pittura che è tutta, si può dire, fino al cinquecento un'epopea sacra figurata; n'è prova quella mirabile fioritura di monumenti ecclesiastici, primavera dell'arte di cui l'Italia si cuopre tutta nei secoli duodecimo e decimoterzo, mentre le prime ispirazioni alla letteratura appena nascente vengono dalla pietà e dal sentimento mistico e si esprimono in cantici e laudi, in leggende e vite di santi. Certo quell'impeto di fede armata che trascinò gran parte d'Europa nelle Crociate investì appena l'Italia. I nostri comuni ebbero da quelle imprese più che altro occasioni a guadagni e commerci nuovi, a viaggi avventurosi fecondi di contatti intellettuali con l'Oriente. Ma s'ingannerebbe chi argomentasse da ciò che quella intensità d'eroismo religioso non abbia tramandato anche da lontano molto del suo calore ne' cuori italiani. Quanto se ne siano accese le fantasie lo mostra la parte, minore certo che in altre letterature, ma pur sempre notevole che ebbero nella nostra, specie ne' racconti, le avventure dei Crociati. E il sentimento popolare che li accompagnò veleggianti verso il glorioso acquisto dovette vibrare anche fra noi intenso, se tanti secoli dopo potè fare quasi da corpo della risonanza all'eco profonda che la Gerusalemme del Tasso ha destato in tutta la nazione.
L'idea religiosa cristiana era, adunque, in quel sorgere della nostra coltura, e rimase poi fino a Dante, sino a che questa tocca, si può dire, con lui quasi la sua maturità, il vero motivo dominatore del pensiero e dell'ingegno del nostro popolo e degli uomini che più ne rendono in sè il tipo; l'idea cristiana, non però côlta e sentita soltanto, come pur fu nei fervori del gran moto francescano e dell'arte primitiva, in tutta la sua ingenuità, nuda e quasi paurosa di forme e molto meno nella rigidità ascetica, nell'immensità cupa del fanatismo dommatico mistico dei suoi seguaci di altre nazionalità, dei precursori tedeschi e inglesi della Riforma.
Anche avuto pur sempre riguardo alla ricchezza di forme e di elementi ideali con cui la varietà d'indole delle stirpi d'Italia, dalle lombarde alle meridionali, si riflette nella storia della nostra coltura, una cosa è certa: che la nota caratteristica tradizionale delle manifestazioni durevoli del genio italiano è un'alta serenità d'equilibrio tra il sentimento, il pensiero e l'immaginativa, tra il moto caloroso della ispirazione e la compostezza della forma; è in somma quasi un abito ereditario di forte disciplina, impresso in noi da Roma, e che ci fa cercar sempre nell'idea, nella forma, nelle linee, nella parola un senso come di misura e di riposo monumentale e d'intima armonia di tutta l'anima umana con sè stessa e con la natura, una decenza come di chi medita, parla e scrive in cospetto di tutti e ha bisogno di sentir ripercossa la verità e l'efficacia dell'opera sua in un intento comune, in un forte consenso sociale.
Questa doveva essere l'impronta del pensiero e dell'arte del cinquecento tornato alle fonti e agli ideali classici. Ma la corrente dell'immaginare e del sentire che lo penetra tutto, deriva dal fondo della vena nativa dell'intelletto italiano, quale si mostra sin dal suo primo sgorgare nel trecento e prima e risale altissima nella Divina Commedia.
Essa è già tutta, nonostante le deviazioni che possono imprimerle gli eccessi di qualche asceta mistico e le fantasie apocalittiche di qualche visionario come Giovacchino di Fiore o Giovanni da Parma, nell'atteggiamento di forte disciplina e di larga comprensione organica che la Scolastica dà per opera, in grandissima parte, d'ingegni italiani o sorti in Italia, alle idee religiose e alla teologia del Medio Evo da Anselmo d'Aosta a Tommaso d'Aquino.
I quali esprimono, il primo, quello che oggi si direbbe il programma della Scolastica nel suo libro Cur Deus homo? il secondo, la sintesi di essa e di tutta la filosofia medievale nella Summa theologica, e segnano, l'uno, l'aprirsi, l'altro il culminare della curva immensa tracciata dal pensiero speculativo dei Dottori della Chiesa a circoscrivere entro i limiti del credo di lei tutto il mondo della coscienza, della società e della storia.
Tra i termini storici segnati da codesti due grandi nomi italiani tra la seconda metà del secolo XI e quella del XIII stanno la giovinezza e la maturità della Scolastica. Nel primo periodo storico quell'accordo tra il contenuto del Cristianesimo e la forma nazionale che essa cerca di soprapporgli per trarne fuori un sistema d'idee ordinato e ben definito, comincia nel credo ut intelligam, (io credo per comprendere) di sant'Anselmo, e muove dalla sua celebre dimostrazione dell'esistenza di Dio e dall'interpretazione filosofica che egli dà del dogma della Trinità e di quello dell'Incarnazione. Nel secondo periodo, che comincia col secolo XIII e con Alessandro d'Hales e Alberto Magno, maestro di san Tomaso, il sistema della Scolastica si svolge intero in una sintesi immensa (Summa), la quale comprende tutti i possibili punti di contatto che l'arte dialettica ormai adulta ha saputo trovare e fissare tra il domma e la ragione che cerca di compenetrarlo di sè, senza però, si badi, alterarne di un atomo i dati e i presupposti fondamentali.
Al di là dell'unico centro, se posso dir così, d'equilibrio tra il peso di codesti dati del domma, che prevarrebbe da sè, e quello della ragione che vuole invece preponderare lei – centro che il sistema di san Tommaso ha saputo trovare secondo i criterii de' suoi tempi e su cui, come su taglio sottilissimo di squisita bilancia da saggiatore, egli riuscì a far gravitare una mole d'idee che stupisce – non sarà poi possibile al pensiero medievale spostarsi di un punto di più senza che codesto equilibrio sapiente si alteri, il dissidio tra il domma e la ragione filosofica, fatta sempre più esigente, diventi inconciliabile e la fede sia rimandata nel proprio campo, e il pensiero laico già nascente seguiti da sè senza tutela il suo cammino verso il Rinascimento.
E notate. Questo spirito intimo di critica e di libertà d'esame del contenuto del domma, che poi sul finire della Scolastica (nella seconda metà del secolo XIV) cresce ed attira a sè quanto di forza viva delle menti si va ormai ritirando da lei, s'era già mostrato in germe ne' filosofi che l'avevano iniziata, specie nel primo e in uno dei più arditi tra tutti, in Scoto Erigena, che per uno strano caso pare abbia avuto comune la razza e la patria (l'Irlanda) con Giovanni Duns Scoto, col grande avversario dei Tomisti, dalle cui dottrine comincia poi la dissoluzione finale della Scolastica.
Vissuto nel IX secolo dopo la grande restaurazione delle scuole medievali fatta da Carlomagno, e educato in quelle irlandesi che allora serbarono maggiori elementi di cultura e ne fecero parte anche a noi, l'Erigena aveva ne' suoi cinque libri De Divisione naturae concepito la creazione, al modo degli Alessandrini e sulle orme del falso Dionigi Areopagita, come una grande scala di emanazioni digradanti dall'alto dell'unità primitiva e divina, che tutto accoglie in sè, giù giù per classi di esseri sempre men generali ed estesi, dagli universali dei generi superiori esistenti in sè, alle specie, poi agli individui e alle proprietà loro; in quello stesso ordine in cui nella nostra mente, lungo la scala dell'astrazione, le idee più generali e più semplici precedono le particolari e complesse.
Così s'era accennata e spuntava proprio alla radice del sistema della Scolastica per poi aduggiarlo tutto di una vegetazione di dispute senza fine, quella dei Realisti e dei Nominalisti. Essa doveva prendere occasione da un celebre passo dell'Introduzione di Porfirio alla Logica d'Aristotele, tradotto da Boezio, ove è detto «di non voler affermar nulla de' generi e delle specie, della differenza, della proprietà, degli accidenti, se siano o no sostanze, o esistano solo nelle menti, se siano o no cose corporee, e se siano separate dagli oggetti sensibili o invece non separabili da questi.» A tale questione avevano già accennato l'Erigena e i primi scolastici, ma essa sorse poi e crebbe sempre più per un intimo bisogno che il pensiero umano ha sentito in tutti i tempi di proiettare al di fuori di sè l'ombra di sè stesso e dei suoi processi mentali, dandole quasi corpo e solidità nelle cose e sostituendo ad esse le idee, le astrazioni. È in fondo la stessa concezione idealistica della natura che faceva dire a Benedetto Spinoza «l'ordine delle idee va di pari passo con l'ordine delle cose.» Essa è stata in ogni tempo, anche in tempi prossimi a noi, in filosofia l'analogo di quello che nelle religioni dei popoli primitivi e fanciulli è l'animazione della natura, embrione rozzo dello spiritismo. Essa fa di Scoto Erigena uno dei più arditi precursori dei grandi panteisti moderni tedeschi, degli Schelling, degli Hegel.
Ma non tutti i realisti trasportavano l'ordine e il processo delle idee astratte nella realtà dando loro natura di sostanze e di essenze, preesistenti o almeno superiori per grado o per gerarchia di potenza causale alle cose particolari e concrete. Così pensavano i realisti estremi platoneggianti, che poi scrissero sulla loro bandiera: universalia ante rem.
Ma i realisti temperati – scusatemi, signori e signore, se io vi debbo portare ancora per qualche momento con me traverso il prunaio di questa terminologia, non più noiosa però nè più vana di certe terminologie delle infinite parti parlamentari d'oggi – i realisti temperati professavano la dottrina aristotelica che le idee universali (essere, sostanza, causa, ecc.) hanno bensì come tali esistenza reale, ma solo, diremmo, incorporata negli individui e combattevano sotto questa parola d'ordine: gli universali sono nelle cose: universalia in re. La dottrina nominalistica sosteneva invece non darsi esistenza reale che degli individui; le specie e i generi essere non altro che forme comuni astratte di concepire e di designare collo stesso vocabolo i punti e le proprietà simili di più oggetti individuali date a noi dall'esperienza e dall'osservazione: essere, in altre parole, concetti e nome di classi. E secondo che alcuni tra i nominalisti si riferivano alla esistenza del concetto astratto delle somiglianze nella nostra mente, si dissero concettuali (dottrina a cui si avvicinò Abelardo); e secondo che non ammettevano altro di comune tra le cose raccolte in classi generali che il nome, si chiamarono nominalisti veri e propri. Gli uni e gli altri ebbero per grido di battaglia: universalia post rem; gli universali sono dopo le cose.
Se non che questa controversia famosa, che è come il nodo primo di tutte le altre infinite delle scuole medievali, non scende nel campo aperto di queste e non vi porta con sè schiere di dialettici, armeggianti l'una contro l'altra a colpi di sillogismo e qualche volta anche di pugnale, se non assai più tardi, alla metà del secolo XI. Allora Roscellino, un bretone, il Maestro d'Abelardo, l'avversario di sant'Anselmo d'Aosta, espresse a voce dottrine che contro il suo volere lo fecero designare dalla Chiesa e condannare come capo di una setta di nominalisti. Anselmo col patos eloquente dei grandi dottori cristiani, lo chiama eretico della dialettica, e vedremo perchè. Guglielmo di Champeaux, suo discepolo, nato nel 1070, morto nel 1121, vescovo di Chalons sur Marne, amico del gran Bernardo da Chiaravalle, contrappose a quella di Roscellino una dottrina realistica che faceva contenuta tutta l'essenza comune del genere in ogni individuo. Il quale non veniva così per lui a distinguersi dagli altri che per mere varietà accidentali; in modo che – gli opponeva Abelardo – una stessa sostanza presente tutta in individui diversi avrebbe perciò attributi repugnanti fra loro. La stessa cosa, la stessa sostanza verrebbe allora a trovarsi presente nel tempo stesso in luoghi diversi. «Se tutto l'essere dell'uomo esiste in Socrate, non esisterà in chi non è Socrate. Ma, siccome esiste anche in Platone, così ne seguirebbe che Platone sarebbe Socrate, e che Socrate si troverebbe in un solo e medesimo momento anche là dove è Platone.» Se – giudicatene voi, o signore, – se Abelardo non avesse avuto per innamorare Eloisa ragioni e discorsi un po' più attraenti di questi, c'è da credere che egli non sarebbe riuscito a farla sua. Perchè, è vero, anche il cuore ha pure a momenti la sua logica, ma è di quelle con cui la filosofia e qualche volta anche, pur troppo! il buon senso non hanno proprio nulla da fare.
Sottigliezze dunque che ci fanno sorridere e pure chiudono in sè in germe dottrine che anche oggi dividono pensatori acutissimi e positivi. Per esempio, la opinione sostenuta dallo Stuart Mill nella sua classica Logica che le idee universali e persino i principii supremi della nostra mente siano ottenuti solo per associazione e per astrazione di elementi simili raccolti poi e fissati nel concetto soggettivo, designato o, come dicono i logici inglesi, connotato nel vocabolo, nel termine generale, è un vero e proprio nominalismo. Ma tornando agli scolastici, il sorriso ci cessa sulle labbra subito, e se si pensa quanta serietà, quanta importanza aveva per quelle menti e quelle anime dominate da una fede potente, l'intimo motivo teologico e religioso che era travestito sotto le strane forme di quei problemi. È che tutta quella vegetazione apparentemente così vana di fronde dialettiche poteva celare, celava spesso un verme velenoso per le anime. L'eresia vi strisciava dentro. Nelle varie forme di soluzioni di una questione, che poteva parere delle più innocenti, si aprivano vie diverse che potevan riuscire a interpretazioni non ortodosse dei misteri del Cristianesimo, tra gli altri di quelli dell'Eucarestia e della Trinità. Codeste interpretazioni avevano avuto quasi tutte i loro antecedenti nelle sette combattute dai Padri della Chiesa. Ma poichè si ripetevano e in forme nuove secondo i tempi, i Dottori proseguivano l'opera dei Padri, confermavano e fissavano con nuove determinazioni razionali il senso del domma per sottrarlo alle fluttuazioni pericolose delle opinioni individuali. E questa parte, sostenuta più in ispecie dai grandi scolastici italiani, da sant'Anselmo a san Tommaso contro gli eretici della dialettica, è più che due terzi forse della grande opera storica, disciplinatrice delle menti, compiuta dalla scolastica.
Ne abbiamo un esempio a proposito del nominalismo di Roscellino, nella fiera polemica sostenuta contro di lui da sant'Anselmo d'Aosta. Una conseguenza del nominalismo, per cui solo gli individui esistono nella realtà, era che le tre persone della Trinità dovessero esser pensate come tre sostanze individuali e quindi come tre dei, tre eterni, diceva Roscellino. Anselmo sosteneva la realtà eterna e l'unità sostanziale dell'essere divino e diceva: «Chi non comprende come più uomini siano nella unità della loro specie un uomo solo, come potrà capire in che modo nel mistero della natura divina più persone, ciascuna delle quali è Dio, siano un Dio solo? E chi ha mente così oscurata da non discernere che il proprio cavallo non è il color suo, come potrà arrivare a distinguere l'essere unico di Dio dalla pluralità di relazione tra le persone divine?» L'ironia qui, come vedete, tocca quasi la satira.
La preoccupazione assidua, insistente, l'idea fissa della tradizione scolastica medievale era dunque, o signori, questa: serbare intatto nell'artificioso tessuto di argomentazioni, a cui collaboravano migliaia d'intelletti fatti più acuti dal raccoglimento forzato della vita claustrale, l'ordito su cui quella tela sottile e pericolosa doveva esser condotta, dato dalla fede che era il sostegno delle coscienze e di tutto l'edifizio sociale e civile dei tempi. E le difficoltà e i rischi di cotesto geloso lavoro di forma razionale su una materia già data e intangibile, erano centuplicati dall'intrecciarsi che facevano con quell'ordito di dommi fila maestre di tutt'altra materia. Poichè accanto all'autorità della fede e dei libri santi ce ne era un'altra, che faceva essa pure da testo, quella della tradizione dei filosofi antichi e specie di Aristotele. Era un'autorità già di per sè stessa repugnante almeno in gran parte all'altra, resa poi per di più incerta, oscura, disputabile da quel pochissimo che nell'occidente d'Europa durante la prima parte del medio evo era restato vivo degli scritti dei filosofi antichi. Di Platone non era sopravvissuta che una parte del Timeo nella traduzione di Calcidio, e i lineamenti veri delle sue dottrine trasparivano appena agli occhi degli studiosi di sotto alle ombre e ai ritocchi che vi avevan fatto i neoplatonici e sant'Agostino. Degli scritti logici di Aristotele non furon conosciuti fin quasi alla metà del XII secolo che le Categorie e l'Interpretazione tradotte da Boezio. I libri degli Analitici e la Topica furon diffusi a poco a poco in occidente dal 1128 in poi, quelli della Metafisica, della Fisica e dell'Etica ci furono fatti conoscere prima dagli Arabi e dagli Ebrei, poi il testo ne fu portato da Costantinopoli, e se ne fece una traduzione latina che però non fu per lungo tempo apprezzata più delle altre condotte sui testi arabi. Solo dopo che è venuto a poco a poco in contatto più largo con la forma della grande tradizione filosofica antica, alla cui efficacia, sebbene modificata profondamente dal Cristianesimo, la cultura medievale non riesce a sottrarsi, l'organismo della Scolastica si spiega tutto in un sistema di dottrine che abbracciano ogni parte della filosofia e Alberto Magno e san Tommaso scrivono le loro Summæ.
La Scolastica vien su così a un tempo col crescere e coll'allargarsi di quel primo moto di coltura comune a gran parte d'Europa destato nel nono secolo dalla dominazione mezzo feudale e teocratica di Carlo Magno. E anche dopo che le forze dell'Impero si accentrano in mano ai Tedeschi, resta per un pezzo viva in quelli che erano stati i maggiori focolari di codesta coltura, nei paesi di stirpe anglo-sassone e franca. Solo più tardi si estende maggiormente fra i popoli latini e germanici, e così prima come poi non esce dalle mani del clero. Guardata tutta insieme, essa è la più grande collaborazione intellettuale che forse abbia mai avuto la storia, e nasce dal bisogno, sentito allora da tutta la società medievale, di raziocinare il domma, di comporlo a dottrina, in una forma in cui la mente comune a quella società avesse potuto adagiarsi tutta d'accordo con le condizioni sociali e morali de' tempi, con tutti i suoi abiti tradizionali di pensiero e di sentimento.
Mai forse un codice di legislazione più stretta e più inflessibile nei suoi principii fu accettato da menti umane, e in tempi più repugnanti da ogni legislazione ne' costumi e nella vita; tempi in cui se l'individualità vera del lavoro e della produzione intellettuale non si può dire ancora apparsa, come nota il Burckhardt, in quella forma che poi prende ne' tempi moderni, era però in pieno rigoglio di vita un'altra individualità, la barbarica, ribelle a ogni altro freno così del pensare come del sentire che essa stessa non avesse provato il bisogno d'imporsi da sè. Ora un tal freno in età, così propensa com'era quella alla fede, non poteva esser dato se non da un grande sistema d'idee religiose assolute, inflessibili, ferree, in cui la mente di lei, come in una pesante cotta di maglia, che noi non potremmo nè anche più alzare, si moveva spedita e ne prendeva anzi nell'opera una dirittura rigida e quasi ferrata, un impeto come di braccio che, appunto perchè tutto coperto di acciaio, ripiombi più pesante. Il chiudersi in una autorità creduta infallibile era così proprio a quelle menti, che persino i ribelli alla Chiesa, gli eretici, gli scolastici dissenzienti, e non furono pochi, rinnegavano un'autorità in nome di un'altra. Tra gli scolastici i primi in specie, meno stretti alle parole e alle decisioni della Chiesa, che non quelli del periodo successivo e dell'ultimo, si appellano pure quasi tutti all'autorità de' Padri e la mettono a pari con quella delle scritture, anche là dove i maggiori tra i Padri esercitavano gli uni contro gli altri una grande libertà d'esame.