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Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 24

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Ma si domanda: questa epoca così gloriosamente iniziata da Niccolò Pisano, poteva considerarsi come piena e definitiva per il risorgimento della nuova arte italica? Non lo credo. Intanto notate che l'impulso di Niccolò, per quanto fosse vigoroso, fu di poca durata ed ebbe un seguito relativamente scarso. I suoi allievi e successori immediati poco aggiungono all'opera sua. Per tutta Italia, oltre Pisa, a Lucca, a Arezzo, a Bologna, a Roma, a Napoli, si ammirano i monumenti della scultura rinnovata per opera del grande artista pisano; ma nè il figliuolo Giovanni, nè fra Guglielmo da Pisa, nè fra Guido da Como, nè lo stesso Andrea e Tommaso e Nerio fanno muovere all'arte dei grandi passi. È fuor d'ogni dubbio che per un periodo di oltre cinquant'anni abbiamo nell'arte una specie di sosta. Attività materiale grande, ma progressi scarsi. Più che d'una corsa in avanti si tratta di un moto circolare sempre dintorno al medesimo centro. Non è più il marasma di prima, ma una stasi incerta e irresoluta di cui, sulle prime, non sappiamo renderci conto.

Ma la ragione non è difficile a trovarsi, o signore. L'opera di Niccolò Pisano non poteva dare la forma definitiva e l'andamento completo al risorgimento artistico in Toscana, perchè in sostanza l'arte sua è un'arte di reminiscenze, è un'arte di pura tradizione. Con essa il Genio italico si riannoda al suo passato glorioso. Era moltissimo ma non bastava. Bisognava fermare i piedi sicuri sul presente e divinar l'avvenire.

Per un'arte nuova facevano mestieri degli elementi nuovi, degli elementi che ritraessero la ragion loro in modo più diretto dalle condizioni della storia contemporanea e dalla natura. Pensate solo a questo, o signore; la donna più morbosamente amorosa dell'antichità, Fedra, che appena Euripide aveva osato portare, tardi, sulle scene della Grecia; Fedra doveva dare per mezzo dell'artista cristiano le sue sembianze alla madre di Cristo, alla personificazione cristiana di tutte le idealità della donna. Questo, voi lo vedete bene, nell'arte metteva i germi di un altro conflitto che, a lungo andare, ci avrebbe forse ripiombati in un altro caos artistico e in una impotenza somigliante a quella dalla quale eravamo appena usciti. Era necessario che il movimento artistico di Toscana si sdoppiasse, o meglio che il primo fosse seguito da un secondo più efficace perchè più comprensivo. E per tutta Toscana voi sentite come scorrere un soffio caldo e primaverile: vedete Arezzo, Pisa, Siena, Lucca, Firenze che vi danno idea di amazzoni gagliarde in gara fra di loro. Corrono, corrono e ognuna vuole arrivar prima!.. Arezzo ha il suo Margheritone, Pisa ha il suo Giunta, Siena ha Guido, Firenze ha Cimabue. Già si prevede che, come il periodo precedente ebbe inizio dal risveglio della scultura, in questo secondo la pittura dominerà; la pittura che si stende con ala più vasta nell'orizzonte dell'arte. Si prevede ancora che in questa nobilissima gara la vittoria rimarrà a Firenze; a Firenze che, fra le città italiane, era una di quelle che conservavano in minor numero ricordi e avanzi dell'antica arte classica: fatto importantissimo questo, già notato dallo stesso Benvenuto Cellini; e che doveva grandemente influire sull'indirizzo più libero, sul carattere più originale, sulla schietta modernità insomma dell'arte e che s'andava maturando e batteva alle porte dell'avvenire.

Dunque, riassumendo: Pisa doveva dare al rinascimento dell'arte italica l'elemento tradizionale e lo diede con l'opera di Niccolò e dei suoi scolari; lo diede vigorosissimo, lo diede in modo da render ben meritevole la fama gloriosa che il Pisano si è acquistato nella storia. Ma bisognava entrare in un periodo nuovo; e Firenze vi entrò con un vigore e con una fortuna che sconfisse tutte le altre città toscane in gara con lei. Le esagerazioni storiche del Vasari sono già state cribate e ridotte al loro giusto valore. Vasari vide con occhio troppo toscano e forse troppo fiorentino quando entrò nei particolari; ma nella grande linea storica il buon aretino si mantenne nel vero. Firenze doveva essere la sede, doveva essere il faro da cui sarebbe partita la nuova luce. Tutto contribuiva nel conferire a Firenze questa privilegiata e gloriosa missione storica. Il suo popolo era libero, forte, ricco, fidente di sè, guardava con sicurezza al futuro. Era sopra tutto istruito, come nessun altro popolo in quel tempo. Erano i giorni, o signore, in cui i poeti si sognavano di esser messi per incantesimo in una barca insieme ai loro più cari amici ed alle loro care donne e di veleggiare a lungo senz'altra cura, sotto un cielo e sopra un mare tranquillo, ragionando e sognando d'amore. Giovanni Villani ci narra che nel 1283 per un lungo tratto di tempo tutta la città rimase nel grazioso «dominio d'Amore». Era una vita spirituale e gioconda. La parte umana che doveva dare il primo elemento all'arte s'innalzava, si affinava, si ingentiliva. L'altro elemento, l'elemento mistico cristiano, alla sua volta si rendeva sempre più acconcio alla composizione della definitiva opera d'arte.

Sopra una verde collina dell'Umbria un povero uomo pregava Dio; ma lo pregava in una forma insolita dando alla sua preghiera un'insolita intonazione. Chiamava partecipe alla sua prece, al suo inno, il sole, la luna, le stelle, le montagne, le piante, i fiori, le rondini e le colombe dell'aria: voleva che tutte le creature viventi si unissero a lui in una gara immensa di lode amorosa rivolta al Creatore. Da una parte adunque il divino, non dirò no che si abbassasse, ma si rendeva più mite, più dolce, accennava più affabilmente verso questa povera vita umana; l'umano si elevava, si affinava, si ingentiliva… Insomma, eravamo prossimi, eravamo alle viste di quella «divina simmetria»; a quell'accordo degli elementi materiali e ideali che il medio evo aveva con tanto disagio e inutilmente cercata, da cui doveva balzare luminosa e gloriosa la perfetta opera d'arte.

Mancava l'uomo, e quest'uomo l'aveste voi, e discese, umile pastore, dalle montagne che circondano la vostra Firenze: Giotto. Ho detto il nome del più grande forse fra gli artisti di tutti i tempi, e di tutte le civiltà. Egli non esordì come Niccolò, copiando il sarcofago antico, ma disegnando, in mezzo alla pace de' suoi boschi, una delle sue pecorelle, simbolo gentile del poetico naturalismo, che egli doveva inaugurare. Wolfango Goethe nell'olimpica serenità dell'anima sua lo avrebbe chiamato Euphorion, il figlio di Elena bellissima e di Fausto pensoso; colui che doveva sintetizzare e fondere gli elementi plastici dell'arte antica e gli elementi spirituali e sentimentali dell'arte moderna e cristiana. Come lo chiameremo noi?.. Noi ci contenteremo di prendere in prestito da Dante, il suo grande amico, una frase, e lo chiameremo il maestro e l'autore del «dolce stile nuovo» della pittura e dell'arte toscana.

E qui, signore, io sono arrivato ai limiti nei quali debbo fermarmi. – Saluto il bellissimo tema che sarà tratto con forma più degna della mia dal mio successore un altro anno, e in cui si rispecchia così pura gloria italiana, la quale, in tanta parte, è gloria vostra, o Fiorentini.

EPILOGO

DI
ERNESTO MASI

Signore!

È un ufficio modesto quello che io ho da compiere, ma che sapendo compiere con chiarezza e brevità, potrebbe, secondo il famoso precetto d'Orazio, riescir utile e piacevole insieme.

A significarlo con evidenza sento che, a guisar d'esordio, una buona similitudine, presa in prestito da qualche poeta, mi tornerebbe assai bene, ma per quanto la cerchi, non mi vien fatto trovarla adatta, come vorrei. Mi ricorre alla memoria soltanto la dantesca solita:

 
E come quei che con lena affannata
Uscito fuor del pelago alla riva
Si volge all'acqua perigliosa e guata.
 

Ma la lena affannata, che sarebbe la vostra, o signore, l'acqua perigliosa, che sarebbe la materia delle conferenze passate… Oibò! non conviene per nessun conto! Dico dunque senz'altro che ricordarvi le principali cose discorse finora, accennarne qualche generalità comprensiva dei molti particolari, che vi furono esposti, additar qualche nesso, qualche correlazione fra l'uno e l'altro argomento e riepilogare le conclusioni più importanti, potrebbe riescir utile e piacevole insieme, appunto come dopo un lungo viaggio (questa volta la similitudine è un po' vecchietta, ma per compenso convenientissima) s'ama riandare, fantasticando, le cose vedute, non però in modo da rifarcene in mente una ridda vertiginosa di monti e di foreste, di laghi e di piazze, di chiese e di palazzi, di musei e di campanili, ma riordinando dentro di noi e scegliendo con discrezione quello che in natura ci parve più bello, in storia più caratteristico, in arte più fecondo di consolanti idealità da mettere in serbo per la vita.

Prometto troppo. Me n'accorgo. Ma non mi manca almeno la buona volontà di mantenere e non di tutte le promesse, che a questo mondo si fanno, si può sempre assicurare altrettanto. – Ad ogni modo, proviamo!

Dei varii periodi, nei quali si vuole dividere la storia del Medio Evo italiano, vi fu principalmente parlato dei secoli XI e XII, con qualche scorsa nei periodi anteriori e nei susseguenti, ora per indicare la cagione degli avvenimenti, ora per mostrarne le conseguenze e chiarir bene così da che profonda notte si usciva a quelli che si convenne chiamare, gli albori della vita italiana. Albori di vita italiana? O perchè? Era dunque morta questa vita? Quand'è che nella storia si muore e si rinasce? No, signore; nè si muore, nè si rinasce in realtà, bensì anche nella storia annotta e si brancola talvolta nel buio, poi un po' di luce torna a risplendere e ci si rimette in cammino. La dominazione romana del resto era il mondo, non l'Italia soltanto. Un'idea e una forza, irresistibili entrambi, il cristianesimo e i barbari, sfasciano quella potente, quella sapiente unità, annientano quella universale dominazione. Allora l'un popolo si getta sull'altro, e questa convivenza forzata di razze diverse sul medesimo suolo, l'una che padroneggia, l'altra che serve, sino a che col mescolarsi e coll'accomunare le loro forze rispettive danno origine ad una civiltà nuova sotto la luce dell'idea cristiana, è il fatto elementare, per dir così, della storia medievale europea; un fatto non mai accaduto prima in così larghe proporzioni; un fatto, che non può ripetersi dopo, e che contraddistingue perciò il Medio Evo da tutte le altre età della storia. – La fusione fra invasori ed indigeni, fra dominatori e dominanti, accade fuori d'Italia più facile. Ben gli aveva Roma già curvati una volta gli uni e gli altri sotto il medesimo giogo! Ma in Italia romanità e barbarie non si fondono con uguale facilità, nonostante il cristianesimo, che fu gran fattore di tali fusioni. Tutto resiste e impedisce. Più di tutto forse l'idea romana, stata perciò paragonata, per quella specie di fato perpetuo, che diviene nella nostra storia, ad una di quelle stelle tanto grandi e tanto lontane, che il loro raggio non ci giunge se non dopo diecine di secoli, sicchè, se ora venisse a spegnersi, la si vedrebbe splendere ancora per molte migliaia di anni. Così è. La vecchia Roma è finita, ma il pensiero di lei sopravvive e domina tutti per lungo corso di storia, barbari, latini, papi, comuni, pensatori, tribuni, cronisti, poeti, persino la casalinga donnetta del primitivo Comune Fiorentino, che

 
… traendo alla rocca la chioma,
Favoleggiava con la sua famiglia
De' Troiani, di Fiesole e di Roma.
 

Quando col pensiero fisso alla libertà e indipendenza dell'Italia, anche i libri di storia erano per metà di politica16, usava discutere se dato che i Longobardi avessero potuto occupare e reggere tutta l'Italia, non si sarebbe fin d'allora formato dell'Italia uno stato nella nuova forma romano-barbarica, come la Francia e la Spagna, ed il Machiavelli accusava fieramente i Papi d'averlo impedito e dietro a lui tanti altri dibattevano la medesima questione, che con ragione il Mamiani giudicava aver lo stesso valore che «cercare quello che accaderebbe al mondo se l'aria avesse manco di ossigene, o il mare di salsedine o la terra ponesse a fare il suo giro sole dodici ore in cambio di ventiquattro»17. Se una filosofia della storia è possibile (cosa di cui molti dubitano) è fondandola unicamente sui fatti, quali furono, non quali alcuno potrebbe desiderare che fossero stati. E stando ai fatti, all'anarchia dei duchi Longobardi fu pure un progresso e un ordine dato la feudalità franca, il cui capo, invasato anch'esso dall'idea romana, ricostituisce la dignità imperiale cessata in occidente da oltre tre secoli, fra le ingenue acclamazioni del popolo italiano, che non sospetta neppure di dover essere la prima vittima di questa ricostituzione; alla quale, morto Carlomagno, sottentra un'anarchia feudale, confusa, impotente, buona a nulla, anche quando l'un pretendente sopraffà l'altro, perchè Berengario osa intitolarsi re d'Italia, allorchè non ne signoreggia tanta, se non quanta è compresa fra l'Adige e il Po. – Anche a quest'anarchia viene a metter ordine, dopo oltre settant'anni, una seconda restaurazione imperiale, ma intanto nel consorzio umile, modesto, quasi inavvertito della corporazione d'arte, all'ombra del campanile della parrocchia, sotto l'autorità ecclesiastico-feudale del Vescovo, a cui gli imperatori di casa Sassone concedono via via il potere degli antichi Conti18, si ridesta e si svolge già tanto di nuova vita italiana, che lo storico Sismondi non dubitò di glorificare quegli Imperatori tedeschi, come i veri fondatori, i veri padri dei nostri Comuni. Lo furono essi in realtà? – A questa quistione, o signore, avete sentito accennare più volte, ma poichè trattavasi della storia speciale dei principali Comuni, era naturale che per accenno soltanto fosse toccata. Or bene, le linee più generali di tale questione son queste19.

Il nostro Comune medievale è una vecchia istituzione romana, che ha resistito all'urto delle invasioni barbariche e che ha perdurato durante l'ordinamento feudale (il quale ordinamento non è altro in sostanza che la barbarie disciplinata per mezzo del possesso territoriale), ovvero è una istituzione nuova, una istituzione importata, in una parola una istituzione tedesca?

Ma se era indigena, antica, romana, perchè avea aspettato a rivelarsi di nuovo che la feudalità avesse pur dato un assetto qualsiasi alle barbarie, e fosse già passata per tutte le sue vicende storiche e avesse trionfato dappertutto e avesse provveduto a tutte le necessità della vita civile, politica, pubblica e privata?

E se per contrario era nuova, importata da fuori, tedesca insomma, al pari della feudalità, se le sue origini erano da ricercarsi nell'indole degli invasori, nello sciolto individualismo germanico e nelle istituzioni provenienti dalla conquista, come mai sorgeva essa in assoluta opposizione a quest'indole e a queste istituzioni, sicchè il suo trionfo non dovesse essere che a prezzo d'abbattere i castelli feudali e d'assoggettare i discendenti degli invasori alle leggi del Comune? Il Comune insomma è cosa nostra, è un diritto, di cui il popolo italiano non smarrì mai la coscienza, o è un effetto del vassallaggio del regno feudale italico al regno feudale di Germania?

Sì l'una che l'altra opinione ebbero sostenitori di grandissima autorità. Ma oramai prevale, come avrete avvertito, una opinione media fra questi due estremi, un'opinione, che è la più conforme all'indirizzo tutto positivo degli studi storici moderni, perchè tien conto nella soluzione del problema, non di un ordine di fatti soltanto, ma quanto è possibile, di tutti i fatti della storia. Ora il germanismo, la feudalità, la Chiesa, l'Impero, tutti questi sono elementi storici, che concorrono a comporre la vita civile e politica del Medio Evo. Sotto molteplici travestimenti, e con adattamenti diversi, ora vigoroso e visibile, ora debole e quasi perduto di vista, l'antico municipio latino ha bensì perdurato sotto a tutto quel pondo immane di nuove sovrapposizioni, ma com'era possibile che risorgesse del tutto all'infuori estraneo affatto a quegli elementi, in onta ai quali era sopravvissuto? La storia non procede così. Da tutti quegli elementi di vita medievale e insieme dalla conservata tradizione romana nasce dunque il Comune, di cui avete veduto, o signore, i tipi principali in Milano, Venezia, Firenze, e non soggiungo Roma, perchè Roma sta da sè, impigliata più d'ogni altro Comune nella vecchia idea romana della dominazione universale e colla presenza del Papato, di cui vi fu narrato il crescere dell'enorme dominazione spirituale (non certo utopistica questa, perchè sorpassò di gran lunga l'antica dominazione romana), e vi fu narrato altresì il sorgere e progredire della dominazione temporale, cagione principale forse che rese così straordinariamente confusa, tempestosa, anarchica in permanenza, assai più di quella d'ogni altro Comune, la vita del Comune romano. – Milano è il tipo del Comune svoltosi nel regno feudale. – Fra i Comuni marittimi, specie i meridionali, che sottrattisi alla dominazione Longobarda o sotto la debole e lontana sovranità bizantina sono i primi a sorgere e i primi a scomparire, fra i Comuni marittimi Venezia sta sola, Venezia che morirà per ultima di tutte le repubbliche italiane e che costituisce come un lungo episodio della storia nazionale, estraneo a tutte le forme principali del movimento politico dell'Italia20. – Firenze infine, il più tardivo degli stessi Comuni toscani e insieme il più glorioso di tutti i Comuni italiani, riassume in sè tutte le forme della vita comunale, ma ad una ad una le elimina tutte per rimanere il gran tipo del Comune democratico, dove neppure avete più, come in Milano, vero governo a Comune, a cui cioè nobili e popolani partecipino ugualmente, ma dopo alterne vicende di governo di nobili, e di governo di nobili e popolo, questo all'ultimo sormonta e crea, ripeto, il gran tipo del Comune democratico. Tant'è che a Firenze il moto comunale si svolge lungo tempo senza che apparisca nessuna spiccata individualità storica, che non sia tutto il popolo, mentre a Milano, la città d'Italia, dove si può dire che il moto, il quale dà origine alle libertà comunali, proceda più manifesto e più regolare, avete una grande successione di grandi uomini, nei quali sarebbe quasi possibile accentrare la sua storia. Milano infatti, la maggior sede arcivescovile di Lombardia, con giurisdizione amplissima, grandi ricchezze, con rito distinto, quasi un altro Papato di fronte al Romano, è delle prime città, che passano dalla podestà comitale a quella del Vescovo ed in Sant'Ambrogio, l'eroe eponimo milanese al IV secolo, s'intravvedono già le prime linee di quella potenza, che dopo terribili vicende ricomparisce in Ansperto di Biasonno nel IX secolo, in Landolfo di Carcano nel X e finalmente in Ariberto d'Intimiano nell'XI, la solenne figura, che in pieno Medio Evo ha ispirazioni e ardimenti politici degni del Conte di Cavour e attorno alla quale vedeste aggrupparsi l'insurrezione dei vassalli minori contro i capitani o vassalli maggiori, come in Lanzone, il nobile ribelle al proprio ordine, il vassallo maggiore, che fa causa comune colla plebe, vedeste accentrarsi il moto glorioso, che riescì all'unione dei vassalli minori con la plebe, e quindi alla libertà del Comune.

Ma siamo nel regno feudale, e nè Ariberto, nè Lanzone, nè capitani, nè vassalli minori, nè plebe, nè Comune, nessuno sogna neppure di ribellarsi all'Imperatore o di disconoscere soltanto l'autorità del Sacro Impero Romano e Germanico, appunto perchè il Comune è una istituzione italiana, che rigermoglia su terreno feudale21. E Ariberto incorona due volte di sua mano Re d'Italia Corrado il Salico e lo accompagna a Roma, perchè si cinga la corona imperiale, e il primo pensiero di Lanzone è di rivolgersi all'Imperatore Enrico il Nero, e quando Lanzone ha intimoriti i nobili fuorusciti, e gli ha rimessi in città, e ha perequati i diritti di tutti, e ha costituito il Comune, fa ancora sanzionare questi nuovi ordini nella Dieta Imperiale di Roncaglia. Che se dalla lotta gloriosa, che Ariberto e Milano sostengono contro Corrado il Salico nel 1037, scendete, oltre a cent'anni dopo alla prima lega Lombarda e a Federigo Barbarossa, vedrete bensì che il popolo italiano lotta per mantenere e ricuperare contro l'Imperatore quello che i risorti Comuni chiamano le buone consuetudini, stabilite già dagli Imperatori della casa di Sassonia, allargate da quelli della casa di Franconia e all'ombra delle quali i Comuni stessi si sono ricostituiti; ma se entro le mura della città si smantellano a furor di popolo le rocche imperiali, se le città collegate momentaneamente, combattono in campo aperto contro i feudatari italiani e tedeschi e contro le milizie feudali, che attorniano l'Imperatore, niuno si sogna neppure di non riconoscere la sua autorità nelle Diete, niuno si sogna, quand'anche l'Imperatore è respinto dalle mura cittadine, di non riconoscerlo come giudice ed arbitro fra città e città, di non rispettarlo come il monarca legittimo, che legittimamente porta la corona dei re nazionali e più ancora come il monarca romano, che porta la corona d'Augusto, di Trajano e di Costantino.

Permettetemi di ricordarvi in proposito i mirabili versi del Carducci, che, poetizzando una pagina del Quinet, rappresenta epicamente questo che il Quinet chiama il fascino del diritto imperiale22.

Siamo nella notte del Sabato santo del 1175, l'esercito della Lega Lombarda cinge da ogni parte l'esercito del Barbarossa, che ha dovuto levar l'assedio da Alessandria, e gli chiude ogni possibilità di scampo così dal lato delle Alpi, come da quello di Pavia. – L'imperatore è perduto. – Lo circondano costernati, avviliti, pensando già di non poter più uscir vivi da queste strette, il sire di Hohenzollern, stupito di dover morire per la vil mano di bottegai armati come i cavalieri; il Vescovo di Spira, che amaramente rimpiange il buon vino, i giocondi canonici, le torri della sua gotica cattedrale in Germania; il biondo Conte Palatino Ditpoldo, che in fantasia rivede i suoi castelli sul Reno e la bella Tecla sospirante d'amore al lume della luna; l'arcivescovo di Magonza che vorrebbe almeno esser certo i tesori rubati in Italia avessero varcato sicuramente le Alpi; il Conte del Tirolo, che si dispera dovere ormai il suo cane e il suo povero figliuolo andarsene alle caccie senza di lui:

 
Solo, a piedi, nel mezzo del campo, al corridore
Suo presso, riguardava nel ciel l'Imperatore,
Passavano le stelle su'l grigio capo. Nera
Dietro garria col vento l'imperial bandiera
A' fianchi di Boemia e di Polonia i regi
Scettro e spada reggevano del Santo Impero i fregi.
Quando stanche languivano le stelle, e rosseggianti
Nell'alba parean l'Alpi, Cesare disse: «Avanti!»
A cavallo, o fedeli! Tu, Wittelsbach, dispiega
Il sacro segno in faccia della lombarda lega.
Tu intima, o araldo: «Passa l'Imperator romano,
Del divo Giulio erede, successor di Traiano.»
Deh come allegri e rapidi si sparsero gli squilli
Delle trombe teutoniche fra il Tanaro ed il Po,
Quando in conspetto a l'aquila gli animi ed i vessilli
D'Italia s'inchinarono e Cesare passò!23
 

Venezia sola è posta fuori del tutto da questo fascino del diritto imperiale. Avete visto, o signore, come nacque, mentre l'Impero d'Occidente cadeva, come crebbe, come si ordinò questa meravigliosa città, meritevole d'esser detta figlia di Roma assai più di quanto vantino le cronache medievali per tutte le altre città italiane, perchè di Roma ereditò la sapienza e la perseveranza politica e perchè cittadini romani erano i profughi, che la fondarono cercando uno scampo alla furia dei barbari sulle lagune e sulle isolette del golfo veneto. Vi esercitarono bensì i Goti una specie di alto dominio, l'impero d'Oriente una supremazia formale e non più, ma ciò accade nel primo periodo appena della sua esistenza e non avendo mai lo straniero potuto mettervi il piede, essa sola non sarà mai vassalla nè d'Impero nè di Chiesa, essa sola non sarà nè guelfa nè ghibellina, nessun Imperatore Germanico oserà chiederle giuramento di fedeltà: non avrà in sè mescolanza di due razze di vincitori e di vinti, che si combattano fra di loro24; le sue discordie intestine non faranno che riaffermare i suoi ordinamenti, che al 1297 saranno definitivi e dureranno per altri cinquecent'anni in punto.

Più travagliato e meno durevole destino ebbero le sue rivali sul mare, Amalfi, Pisa, Genova, ma esse dividono con lei la gloria di quella primavera italica del risorgimento comunale.

Niuno però dei Comuni marittimi nè Amalfi, nè Pisa, nè Genova può paragonarsi a Venezia, monumento unico d'italiana energia fin nella sua materiale costruzione, e che ha tutto di esclusivamente suo, origine, leggende, cittadinanza, sovranità, leggi, ordini civili, nobiltà, popolo, cerimonie, feste sacre e profane, i suoi santi persino, perchè tutta veneziana è la leggenda di San Marco, che detronizza il bizantino San Teodoro e diviene il protettore, il simbolo, il grido di guerra di Venezia. L'avete udita questa leggenda in tutti i suoi particolari. Non vi dispiaccia riudirla da un poeta, non senza molte buone ragioni messo presto fuori di moda, ma la nobiltà dei cui sentimenti raccomanda ancora, io credo, al ricordo delle signore gentili. I suoi versi compendiano altri fatti, ch'io non avrei tempo a ricordarvi partitamente:

 
Veleggiando venia verso Aquilea
Un dì l'Evangelista…
Quando il nocchiero improvvido, dall'ôra
Sospinto in grembo d'una pigra e trista
Laguna si perdea
Tra un labirinto d'isolette…
All'appressarsi del naviglio sacro,
Unico abitatore,
Volando emerse di colombi un nembo
Dal turbato lavacro.
Il Pio guardò quell'isole dal lembo
De la sua poppa lungamente. In core
Gli sfolgorò del vaticinio il lampo
E profetò che un giorno
Tra quella d'acque squallida vallèa
In trionfal ritorno
All'avello condotto esser dovea.
E come ei tacque su le canne apparve
Lo spettro d'una chiesa bizantina,
Che tremolò per l'etere e disparve;
E d'eco in eco per lo tacit'arco
Dell'adriatica marina
Grido immenso volò: «Viva San Marco!»
Si laggiù poserai…
Laggiù, o celeste, poserai ma cinto
Da selva di lucenti
Colonne e sul tuo portico regale
Scintilleranno…
I destrieri di Corinto.
Al nome tuo, venturo inno di guerra…
Prigioniere verran di Palestina
A riflettersi mille arabe lune
Dentro le tue lagune;
E su le torri dell'infido Greco
Un vecchio ardente e cieco
Guiderà la vittoria,
A piantar fra i nemici il tuo vessillo
Logoro dalla gloria,
Verranno i re da regïon lontane
Le tue belle a sposar repubblicane;
E su quella palude
D'alighe immonde sorgeran portenti
Di templi, di trofei, di monumenti25.
 

E sia, ammiriamo pure Venezia. Ma voi sapevate prima, o signore, e sempre più vi sarete confermate, che se si vuole penetrare veramente nel vivo della storia del Medio Evo italiano, vedere atteggiate e combattenti tutte le passioni di quella età, saggiate tutte le forme politiche; se si vuol conoscere come dalla lotta lontana delle due podestà che dominano il Medio Evo, Papato ed Impero, come dall'affievolirsi dell'organizzazione feudale si svolga la libertà del Comune popolare e a che tradizioni questo comune riattacchi le sue origini, e perchè contenga quasi due popoli in uno e perchè la lotta a morte fra questi due elementi che lo compongono costituisca il destino e il segreto della sua storia; se si vuole infine sapere perchè vi sia una storia di un grande Comune italiano, che è tipo e modello di quasi tutte le altre, bisogna guardare a Firenze, a questo cuore d'Italia, come fu chiamata, che all'infausto cosmopolitismo imperiale o papale di Roma potrà per sua gloria contrapporre il cosmopolitismo dell'arte, della poesia, della scienza, il privilegio della lingua, e persino fra le tumultuose tragedie della sua vita interiore i primi germi dello Stato moderno.

Nelle ingenue leggende delle sue origini vedeste già adombrate, forse con senso più profondo che non apparisca, le divisioni etniche, che divamperanno più tardi in lotte furibonde; le quali lotte e divisioni, in quel Comune, che tarda tanto a svolgersi e si svolge quasi inavvertito, quasi inconscio di sè, strappando a brandelli il suo potere della potestà Margraviale della contessa Matilde; in quel Comune, composto nella maggior parte di operai, di artigiani, e di qualche nobile decaduto, che per miseria s'inurba; in quel Comune che stretto nelle sue associazioni d'arti e mestieri si regge e progredisce con queste senza bisogno di potere centrale, cominciando, direbbe il Romagnosi, il suo incivilimento in ordine inverso, cioè dall'industria per giungere al possesso territoriale; in quel Comune, dico, come risulta ancor più evidente dalla sua storia ulteriore, quelle divisioni e le lotte, che ne conseguono, rimangono sempre esse nel fondo di tutte le sue vicende o possono dirsi quasi la legge storica, che illumina da cima a fondo tutto quell'incomposto arruffio. Il quale non spossa le forze del Comune, anzi sembra aumentarle, poichè appena le interne discordie danno qualche tregua, si guerreggiano le terre vicine e si allarga lo Stato; uno Stato che è tutto nella città principale, la quale non si aggrega, ma domina feudalescamente i vicini e che all'Impero chiede sopratutto di lasciarlo sottentrare nei diritti e nel potere degli antichi feudatari; altra prova, se mai occorresse, che il nostro Comune medievale è bensì romano d'origine, ma dalla temperie barbarica e feudale, in cui è risorto, profondamente modificato. Così è che le due parti combattentisi entro il Comune pigliano i due nuovi nomi, come dice Dino Compagni, di Guelfi e di Ghibellini, ma il loro contrasto preesisteva a questi nuovi nomi, nella stessa guisa che il prorompere di queste lotte si verifica in Firenze assai prima del fatto del Buondelmonte, a cui gli storici lo sogliono riferire, e non è se non un incidente di quella torbida vita del Comune fiorentino, di cui parrebbero un mistero inesplicabile non solo il progredire, ma anche il durare e l'esistere, se non si sapesse donde viene, ove va, se una medesima legge storica non ci scorgesse a comprendere gli Ordinamenti di Giustizia del 1293, la vittoria dei Ciompi nel 1378, gli eccessi che spianano a poco a poco la via alla lunga insidia dei Medici, nel tempo stesso che i forti e grandi sentimenti di quel popolo, le sue umane riforme, la sua carità operosa, l'ardente sua fede ci spiegano l'altro mistero che fra discordie e tumulti così feroci e continui la civiltà più complessa spicchi tal volo e veggansi nelle chiese, nei quadri, nei primi saggi della pittura nascente affollarsi angeli, cherubini, madonne, apparizioni candide, innocenti, che sembrano discese dal cielo a predicar la pace fra gli uomini, e fra tanto imperversare di odii l'arte, religiosissima ancora, sforzasi, quasi in espiazione, a moltiplicare dovunque gli emblemi dell'amore.

16.Balbo.
17.Carlo Troya, in Prose Lett., pag. 396.
18.Mi attengo ai fatti, che hanno carattere più generale. In realtà questo passaggio dell'autorità del Vescovo al Comune non è una regola senza eccezione. Ne ha in Lombardia; ne ha molte più in Toscana.
19.È riassunta da: Francesco Lanzani, Storia dei Comuni Italiani dalle origini al 1313. – Villari, Il Comune Italiano e la storia civile di Firenze (Politecnico 1886). – Hegel, Storia della costituzione dei Municipi italiani. – Haulleville, Communes Lombardes. – Scupper, La Società Milanese all'epoca del risorgimento del Comune, in Archiv. giurid. 1869. Vol. 3.º – A. Amati, Ariberto e Lanzone.
20.Lanzani, Op. cit.
21.Lanzani, Op. cit.
22.Quinet, Révolutions d'Italie.
23.Carducci, Sui campi di Marengo.
24.Quinet, Op. cit.
25.Aleardi, Le città italiane marinare e commercianti.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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