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Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 6

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Qui Venezia si trova di fronte ad altre due città marittime, che andavano anch'esse crescendo in potenza, e alle quali la fortuna della rivale non poteva non destare sospetti e antagonismi, scoppiati poi in sanguinose discordie.

Pisa non era una nuova venuta. I documenti della sua nobiltà risalivano all'antica civiltà etrusca, alla grandezza romana. Risorta dopo l'invasione barbarica, ebbe a combattere i Saraceni. Ma il valore delle armi non si scompagna agli accorti maneggi del commercio e ai provvidi ordinamenti civili. Il dominio della contessa Matilde fu più di nome che di fatto e non impedì il libero svolgimento della libertà, fecondatrice di ricchezza e benessere materiale. E quanta fosse la sua floridezza commerciale, provano le parole del monaco Donizone, il quale, nel suo ascetico fanatismo, vede i navigatori pisani trasformati in mostri marini e la città insozzata da male generazioni di Pagani, Turchi, Libici, Parti, e le sue spiaggie corse dai Caldei.

Dopo aver combattuto contro la vicina Lucca, Pisa combattè pel possesso della Sardegna contro Genova.

Difficili i primi passi di Genova, umili le origini: trafficare coi porti vicini, combattere i predatori saraceni e normanni. A poco a poco, a nuovi commerci nuovi lidi. Fin dal 958, essa gode della sua libertà, non funestata mai da capricci superbi di conti, di marchesi, di duchi, ai quali tutti il trattato di Berengario II e di Adalberto vietano di porre piede nella città. Prosperano le compagnie cittadine belligere e trafficanti. Da prima, insieme coi Pisani, Genova strappa ai Mori la Sardegna, ma ben presto le armi consociate diventano fratricide, e la guerra fra le due città dura sessant'anni.

Ad accrescere la ricchezza e le rivalità delle città marinare d'Italia giungono le crociate.

È opinione comune che tra le prodezze irreflessive, ma generose delle crociate, Pisa, Genova e, in ispecie, Venezia, non abbiano cercato che l'interesse ed abbiano fatto servire una grande idealità religiosa ad ottener dovizie materiali, ad aprir nuovi scali al commercio. Certo, fra quei tre popoli non apparve l'ascetismo feroce, nè il principio di autorità dogmatica, soccorritore del feudale e del dinastico, ma la religione fu sentita e intesa fra quelle genti, nè fu ipocrito pretesto di mercantili speculazioni. Vi sono popoli credenti e pratici a un tempo, come l'inglese e il veneziano. Sono sinceri in tutti e due gli atteggiamenti della loro esistenza, e perchè sinceri colgono i frutti di ambedue queste attitudini dello spirito. Il missionario inglese, quando con la Bibbia, tradotta in tutti gli idiomi asiani e africani, s'avanza in regioni ignote a spargere la santa semente del verbo di Dio, è profondamente sincero e devoto al suo ideale fino a rifiutare per esso la vita. Ma, superate le difficoltà, egli è egualmente convinto di servire alla sua patria mutando l'evangelista in negoziante, segnando la via ai cotonieri del Lancashire e qualche volta, e Dio gli perdonerà, ai fabbricatori di brandy del suo paese. Così Venezia: devota a Cristo, si sentiva bensì accesa di zelo religioso per la liberazione del Santo Sepolcro, e, all'infuori di ogni pensiero mondano, palpitava nella isoletta di Rialto, come il grande signore di Francia e di Lamagna nel suo maniero. Ma a canto all'imagine di Gesù crocifisso, i signori dei mari intuivano tutti i nuovi orizzonti di traffichi e di colonie e vi si fisavano con amoroso zelo. E in quel connubio di palpiti cristiani e di mercantili disegni, si accordavano la religione con l'industria, l'ascetico col mercadante, e l'imagine di Gesù liberato si adornava di tutte le opulenze della nuova vita economica. Così erano, o signori, anche i vostri antenati. Credenti, mercadanti e diplomatici a un tempo, mistici e positivisti, i lucri guadagnati negli arditi commerci consegnavano alla divinità e dai banchi uscivano gli artefici, che erigevano i vostri insigni monumenti. Così la nostra storia prova come sia vano, sterile e oseri dire irreligioso, un ascetismo monastico orientale, che si consuma ne' suoi malaticci idealismi, e come, alla sua volta, conduca a ruina una sete di lucro, che non si temperi, non si legittimi e direi quasi non si purifichi in queste aure salubri della idealità. Quanto diversi, o signori, dai coloni italiani del nostro tempo, i quali, senza ideali religiosi e senza disegni di utili operosità, si avventurano in luoghi, che nè i nostri antichi apostoli, nè i concittadini di Marco Polo e di Colombo avrebbero eletto a sede di colonie. Il che dimostra appunto, perchè ci fa difetto il modo di scegliere con infallibile rettitudine di giudizî, quanto ci manchi e quanto siamo lontani dalla sana idealità e dall'avveduta operosità dei nostri maggiori. Oh! non disputavano a Venezia sulla fecondità e sull'avvenire delle grandi colonie che occupavano, come non disputavano a Genova su quelle del mar di Marmara e del mar Nero. Le opime spoglie che ne traevano non consentivano i dubbi dolorosi, che s'odono nei nostri parlamenti.

Ma, siamo giusti, ciò che ai nostri maggiori mancava era il senso della concordia. I vicini interessi e le comuni imprese fecero scoppiare più fieri i dissidî fra Pisa, Genova e Venezia.

Intanto da una straordinaria impresa era agitata quest'ultima città. Quando Innocenzo III tentò ravvivare la santa guerra, i crociati francesi si rivolsero, per ottenere il navilio, a Venezia. Era allora doge Enrico Dandolo, vecchio ottuagenario, a cui gli anni e la debole vista accresceano l'ardimento e l'energia; indole tenace e impetuosa e nello stesso tempo astuta e dissimulatrice. Egli accettò le proposte, ma prima di accingersi all'impresa, volle avere l'approvazione del popolo, ch'ei fe' radunare nella chiesa di San Marco, la plus belle que soit, come la chiama Goffredo di Villehardouin, uno di quei crociati. I cavalieri di Francia dalle armi corrusche, i veneti patrizî dalle vesti gravi e maestose dell'Oriente, il popolo dalle fogge variopinte, si adunarono sotto le cupole dorate dai scintillanti mosaici, fra quella strana architettura di colonne superbe sovrapposte a colonne, tra le effigie mirabili e i marmi preziosi.

Il vecchio doge, in luogo eminente, indossava una tunica purpurea, un manto affibbiato con borchia d'oro e un corto bavero d'ermellino. Parlò Goffredo di Villeardouin pregando Venezia ad accompagnare i baroni francesi a vendicare l'onta di Gesù. La voce di quel guerriero entusiasta si alzava trionfante come un inno, ricercava le fibre più intime di quei cuori, finiva addolcendosi in una prece, nella quale passava il puro alito della fede. Allora da più di diecimila petti un grido s'alzò sotto le vôlte dorate della chiesa e il doge e i legati francesi giurarono sulle loro spade. Ma quando furono pronte le navi, non trovando i baroni di Francia, tutta la somma stabilita pel passaggio, Enrico Dandolo propose loro, in luogo di soddisfare intero il debito, di riconquistare insieme coi Veneziani la città di Zara ribellata. La proposta fu accettata, e, dopo poco tempo, Zara cadeva. Durante l'assedio si presentava ai crociati Isacco, imperatore di Costantinopoli, spodestato da un usurpatore, chiedendo aiuto per ricuperare il trono. Papa Innocenzo, che avea con ogni possa cercato d'impedire l'impresa di Zara, scagliando perfino i fulmini apostolici, ora secretamente favoriva la spedizione di Costantinopoli, vagheggiando l'unione della Chiesa anche in Grecia. Avea finito col trovare gli opportuni ripieghi sacerdotali, concludendo con un pensiero degno della politica odierna: necessitas, maxime cum insistitur opere necessario, multum et in multis excusat. E poi troppo recenti erano le greche perfidie contro la repubblica di San Marco, perchè ogni veneziano non sentisse in cuore il desiderio della vendetta. Non erano ancor vive le generazioni che aveano veduto il fedifrago imperatore gettar un giorno in carcere tutti i Veneziani, che avea potuto prendere ne' suoi stati? E il valore dei Veneti, condotti da Vitale Michiel non era stato reso impotente dalle inique arti dei Greci? E non si era tentato di perdere coll'inganno più infame lo stesso Enrico Dandolo, che in Costantinopoli avea tentato di salvare l'onore della patria? Non erano le leggi e i trattati arbitrariamente violati dalla corte bizantina? D'altra parte, e i documenti attestano ciò, il Pontefice e il Doge si accordavano nel pensiero che la sommessione di Costantinopoli potesse agevolare il conquisto di Terrasanta. Fu stabilita l'impresa e compiuta; ma poco stante, in seguito a nuove rivoluzioni e intrighi di palazzo, i crociati vennero a rottura coi Greci, e Costantinopoli fu presa per la seconda volta. Quando il gonfalone di San Marco sventolò sulle mura di Costantinopoli, i Greci fuggirono spaventati, fra il confuso rumor d'armi e di grida, unito al frastuono orrendo di urla, di gemiti, di pianti. E il Papa, plaudendo agli eventi fortunati, scriveva ai vescovi, abati e duchi dell'esercito: sane a domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. E dimenticò Terrasanta.

«Dalla creazione in poi non v'ebbe più larga preda» scrisse il Villehardouin. Immense ricchezze e preziosi oggetti d'arte furono salvati nella generale rapina, e trasportati in patria dai Veneziani: quadri, statue, gemme con cui arricchirono la pala d'oro e il tesoro di San Marco, e i quattro celebri cavalli di rame dorato che, trasportati da Chio, dall'imperatore Teodosio II, a ornare l'ippodromo di Bisanzio furono posti sul pronao della basilica veneziana.

La forza di Venezia imperava ormai sull'Oriente. All'interno potea dirsi secura, coi nuovi ordinamenti politici, per mezzo dei quali si svolgeva la sua attività, colla legge che impera e custodisce, colla concordia che fortifica e rafferma. Sottratta già da lungo tempo al popolo la dogale elezione, chiuso a chi non fosse nobile, il governo, s'era consolidato quel reggimento di ottimati, grande anomalìa fra due cose normali, il governo cioè di tutti e quello di un solo che tutto eguaglia in una comune tirannide, quel reggimento di ottimati che salvò l'indipendenza veneziana. Costituzione non certo desiderabile oggi, ma per quei tempi ammirabile, e che illuminò del suo raggio uno dei periodi più gloriosi della libertà fiorentina, quando, tenendo gli occhi fissi a Venezia, fra Girolamo Savonarola, Paolo Antonio Soderini, Francesco Valori e altri magnanimi volevano garantire la nuova indipendenza, affidando la somma delle cose ai migliori dei cittadini, ai benefiziati, e instituendo il Consiglio grande. Il tentativo fallì, poichè la tenacia del volere non fu pari all'altezza degli intendimenti.

Delle due forti rivali di Venezia, Pisa in breve non fu più da temersi. La sua potenza s'infranse allo scoglio della Meloria e sulla bella e sventurata città aleggiò l'arte, supremo conforto. Quando l'età delle forti imprese si oscura, s'inalba luminosa quella delle arti.

Restava Genova, nè il vessillo di San Giorgio volle per lungo tempo e a niun patto piegare dinanzi a quello di San Marco. Lunghe e accanite le guerre, brevi le tregue, per ripigliar lena a nuove battaglie, combattute con varia fortuna.

Nel 1256, i Liguri spogliano le navi veneziane nel porto d'Acri e saccheggiano il quartier veneziano. Lorenzo Tiepolo corre alla vendetta, con gran numero di navi e coll'aiuto dei Pisani, spezza la catena del porto, preda e arde le navi nemiche, penetra nella città, incendia il quartiere dei Genovesi ed espugna il castello di Mongioia. Invano i Genovesi tentano riannodare le forze: il Tiepolo, presso a Tiro, li sbaraglia una seconda volta; poi non lungi da Acri stessa, li sconfigge nuovamente con più sanguinosa battaglia.

Nel 1261, la gelosia ligure rialza il trono greco a Costantinopoli. Vi si oppone Venezia e ne vien nuova guerra, finita colla rotta dei Genovesi nelle acque di Trapani.

Una fiera rivincita prese Genova a Curzola, quando, sotto il comando di Lamba Doria, un minor numero di galee vinse i Veneti condotti da Andrea Dandolo. Il Doria trasse seco a Genova 5000 prigioni. Marco Polo fra questi. Lo sfortunato ammiraglio di Venezia die' di cozzo nell'albero della sua nave e morì…

Ma a che oggi riandare la serie di questi gloriosi delitti? Nel camposanto di Pisa, in quella dimora di morti, dove palpita tanta parte di storia italiana, stanno appese, non già trofeo di ire fraterne, ma segno perenne di fraterno affetto le catene del porto di Pisa, dai Genovesi prese e donate ai Fiorentini. Nell'affetto sereno della patria unificata, Firenze e Genova vollero restituite a Pisa quelle catene, come augurio d'invitta concordia fra le città italiane, pegno e segnacolo di un'êra novella.

Ora una luce irradiano quei torbidi ricordi di storia italiana, luce di fraternità e di pace.

LE ORIGINI DEL COMUNE DI MILANO

DI
ROMUALDO BONFADINI

Lo studio delle origini – è bene saperlo prima di mettersi in via – rappresenta per lo spirito piuttosto una fatica che un diletto.

La scarsità delle fonti, la cronologia difficile, l'ermeneutica capricciosa obbligano a lunghe indagini, a laboriose induzioni, per istabilire quello che si suole chiamare la verità storica e che, nella maggior parte dei casi, si limita ad essere la congettura più verosimile. E d'altra parte, urtano così fieramente coi nostri i costumi, i sentimenti, le leggi di quell'epoca buia, che il piacere dei paragoni scompare, e la stessa immaginazione si stanca a cogliere e ricomporre la continuità dei contorni in quelle figure, di cui la storia non può dare generalmente che tratti incompleti, interrotti, sfumati nel tipo morale e nelle particolarità dell'azione.

Però, v'è un aspetto del problema che può mitigar la fatica di questo studio. È una soddisfazione di pensiero che non può sembrar vana al filosofo, se anche lascia indifferente l'artista. Poichè nello studio delle origini assai più che nello spettacolo delle decadenze l'orgoglio dell'umanesimo trova ragion di affermarsi.

Le origini non sono altro, storicamente, che i periodi nei quali le istituzioni umane, di qualunque natura, passano dallo stadio anarchico ad una forma organica. Ora, difficilmente questa trasformazione si manifesta, senza l'impulso della virtù. Virtù d'uomo o virtù di popolo; genio di individui o istinto di moltitudini; energia d'iniziative, quand'anche macchiate dalla fatalità del delitto, o devozioni di concordia, quand'anche rese inefficaci da difetto di previdenza.

Il fenomeno può dirsi costante, in quanto si riferisca alle origini dei poteri pubblici, siano monarcati, comuni e repubbliche. Sembra quasi che la Provvidenza abbia voluto imprimere a questi periodi, che rasentano in certo modo lo sforzo della creazione, quel carattere di grandezza che necessariamente segue o circonda i creatori. Così, non si può pensare alle origini della monarchia francese senza risalire a quel Carlo Martello, che rimane nelle fantasie popolari come il tipo del guerriero nazionale invincibile. Ruggero il normanno e Umberto Biancamano dominano della loro fiera e simpatica personalità le origini dei due maggiori principati italiani. Nè la fondazione della monarchia spagnuola può disgiungersi da quel generoso nucleo di patrioti, raccoltisi con Pelagio sui monti baschi a costituire il battaglione sacro della resistenza nazionale. Nè la storia grande della repubblica di Venezia può farci obliare quell'energico esodo di pescatori che giurano di mantenere, sulle palafitte di Rialto, la loro libertà insidiata dalle orde conquistatrici della terra-ferma.

È sopratutto nel secolo undecimo che l'Italia vede sorgere a vita organica parecchie delle sue agglomerazioni politiche. Prima del mille, qualche tentativo di ricostituzione serve quasi unicamente a confermare lo stato di dissoluzione in cui langue tutta la penisola. Non s'è ancora dimenticata l'ultima violenza delle invasioni barbariche ed ecco sopraggiungere a disgregare ogni compagine sociale la preoccupazione del finimondo. Le lotte civili, accanite negli ultimi tempi, vanno perdendo d'intensità, non perchè scemi l'abitudine delle offese, ma perchè tutti sono intenti al pericolo della fine suprema, che le profezie popolari hanno segnalato.

Come il feudo era stato lo strascico della conquista, così il beneficio ecclesiastico diventa lo strascico lasciato dalla paura del finimondo. Le autorità secolari, che non possono garantire la vita eterna, perdono d'influenza; ne acquistano a dismisura le autorità chiesastiche, nelle cui mani stanno le chiavi del perdono e della salvezza. Così il potere politico viene a poco a poco assunto dagli arcivescovi, contro i quali non hanno più forza i conti e i duchi, lasciati dai conquistatori stranieri a rappresentanti dell'impero feudale nelle città. Le donazioni arricchiscono preti e monasteri, che dalla ricchezza traggono facile stimolo alla corruzione. Ed ecco preparate le due questioni che nel secolo undecimo agiteranno l'Italia. La lotta per le investiture e la riforma disciplinare del clero. Nè dal mille è lontano Gregorio VII, che di entrambe le questioni sarà nel tempo stesso il più formidabile campione e la più illustre vittima.

Senonchè il pauroso millenio è superato senza catastrofi e il mondo comincia ad acquetarsi nel pensiero della propria continuazione. Che cosa accade? che i pochi, fatti potenti dalla superstizione, mirano a rassodare e rendere più completo il loro dominio; che i molti, costretti a vivere dopo aver creduto di morire, rimpiangono la cecità loro e le sostanze stremate; che il disagio turba profondamente le classi popolari, le quali escono dalla crisi, sentendosi sul collo il giogo rinnovato di due tirannie. Intanto ricompaiono le discordie intestine, le lotte feudali, che soltanto il timore della distruzione universale aveva frenate. Le ingordigie e le violenze si danno ad eccessi tanto maggiori quanto più lunga è stata l'epoca della loro forzata inazione. In questa ridda di passioni scompare ogni benessere di plebi, ogni generosità di ottimati; la legge è fatta ludibrio nelle mani di ogni forte; e il forte di oggi diventa lo sconfitto del giorno dopo. Tutto questo ha un solo risultato, una sola caratteristica, un solo nome: è l'anarchia.

Di qui nasce, nel secolo undecimo, quella reazione salutare che dà vita ai principati ereditari ed alle repubbliche comunali. Così l'una come l'altra forma organica è accetta alle moltitudini, delle quali ordinariamente soltanto il caso dispone. Poichè non bisogna illudersi che alle costituzioni cittadine del secolo undecimo abbia spinto un prepotente bisogno di libertà. Il bisogno prepotente era l'ordine, era la fine dell'anarchia. Dove il genio o la prepotenza d'un uomo bastasse a dare questa sicurezza di governo organico, le popolazioni accettavano anche la tirannia d'un solo, purchè le liberasse dalla tirannia dei molti. Se l'uomo mancava, o il genio non faceva perdonare la prepotenza, le moltitudini cercavano alla libertà il modo di vincere l'anarchia. Ma ci sono voluti dei secoli – forse ce ne vorranno ancora – perchè la libertà, accettata come il veicolo di un beneficio, diventasse un beneficio per sè. Quelle moltitudini, che nel secolo undecimo avevano saputo disciplinare gli ordigni della libertà, non esitarono a romperli, quando appena un'impressione momentanea portava verso altri orizzonti l'animo loro. La storia può essere interpretata, ma alla storia non può sostituirsi il desiderio. Il vero è che nei nostri grandi Comuni, se della libertà mancò rare volte l'intelligenza, quasi sempre mancò l'amore. Il vero è che nel sagace desiderio dell'ordine, le moltitudini italiane oscillarono spesso e spontaneamente fra i poteri autonomi e i principati sovrani. Poichè non sempre furono i tiranni che strozzarono le libertà; qualche volta le libertà si sono umiliate ai tiranni.

*

Una riprova di queste induzioni la si troverebbe con poco sforzo nella storia di uno dei maggiori municipi d'Italia; di quello che per la sua giacitura ha subìto prima degli altri, e forse più gravemente d'ogni altro, lo storico avvicendamento delle invasioni, delle liberazioni e delle tirannidi.

Intendo parlare di Milano.

Al principio dell'undecimo secolo Milano era forse una delle più popolose città d'Europa, e, senza forse, la più popolosa d'Italia. Era già stata a quell'epoca due volte nella polvere e due volte sugli altari. Nel secolo quarto, come sede del Vicario d'Italia, era considerata la seconda città dell'impero Romano. Il ferocissimo Uraja, condottiero dei Goti, vi sterminò più di 30 mila abitanti e fece della marmorea città un mucchio di rovine. Per tre secoli Milano sparisce quasi dalla storia e perde quei privilegi, che invece usurpano, come più floride, Pavia e Monza. La sola influenza che vi rimane grande è quella dell'arcivescovo; influenza che, per l'indole sua, subiva poco le fluttuazioni della prosperità materiale, conservando quel principato diocesano che si estendeva sopra 24 vescovati suffraganei e sopra un territorio che andava da Genova a Coira, da Mantova a Torino.

Ed è un arcivescovo, che nel secolo nono ritorna a floridezza e splendore le condizioni di Milano, venute lentamente migliorando sotto il regime dei Longobardi e dei Franchi. Ansperto da Biassono, probabilmente uscito dall'antichissima famiglia dei Gonfalonieri, governò per tredici anni, dall'868 all'881, la sede milanese; vi esercitò potere largo e benefico; mantenne contegno vigoroso contro le pretese di un pessimo Papa, Giovanni VIII; e rialzò, completandola, l'antica cerchia murata, già eretta dall'imperatore Massimiliano e demolita dai Goti. Questo bastò perchè fra gli abitanti della Lombardia, atterriti dalle frequenti scorrerie degli Ungheri e dall'imperversar dei banditi, si determinasse un vasto moto di emigrazione verso la città, dove quelle nuove e solide difese garantivano la vita e gli averi. Rapidamente la popolazione di Milano aumentò; sicchè nel secolo undecimo poteva calcolarsi, secondo il Cibrario, a trecentomila abitanti.

Questa però era prosperità materiale; che non toglieva l'anarchia delle prevalenze politiche, il mutabile avvicendarsi degli ordinamenti, la moltiplicità dei despotismi e delle giurisdizioni, la tradizione ostinata delle civiche turbolenze.

Cominciava l'incertezza nella stessa persona del sovrano legale. Ogni morte di principe dava occasione a più guerre, ed ogni volta si mutava la base elettorale o la forma di consacrazione del nuovo Re.

Dopo Carlo il Grosso, la successione dinastica di Carlo Magno in Italia era finita. Con un po' di concordia, le conseguenze della conquista avrebbero potuto mitigarsi e dar luogo all'instaurazione d'una monarchia nazionale. Invece, due Berengarj, un Guido, un Rodolfo, un Ugo, un Lotario, un'Ermenegarda, riempiono di lotte e di supplizi un secolo intero; dopo il quale, invitati dagli stessi pretendenti, i Re di Germania scendono a rioccupare il feudo italico. Nell'888 Berengario era stato coronato in Pavia, nel 961 Ottone I si fa coronare in Milano.

Questa mutazione di famiglia dinastica non impedisce che rimangano, sotto i nuovi principi, cogli antichi poteri, i rappresentanti degli antichi regimi.

Già i Longobardi avevano destinato un Duca a governare la città; e questo teneva il suo tribunale in un palazzo apposito, che si chiamava la curia del Duca, il cui nome, corrotto, vive ancora in una delle località milanesi più note, il Cordusio. I Franchi vi sostituirono un Conte, o piuttosto dei Conti, poichè sminuzzarono il territorio milanese e divisero dalla città i circondari rurali, di cui ciascuno ebbe il suo Conte, e si chiamarono a poco a poco il contado. Poi venne l'epoca della maggiore preponderanza degli arcivescovi; i quali, assenziente l'imperatore Germanico, si sostituirono ai Conti nel governo temporale delle città murate e degli abitanti immediatamente finitimi, distinti allora, per rispetto a quella sacra dominazione, col nome di Corpi santi.

Senonchè l'appetito veniva anche allora col cibo. L'arcivescovo di Milano, vistosi divenuto quasi un monarca, lottò coi monarchi, e pretese aver egli facoltà di consacrare quei principi da cui veniva poi investito dell'autorità sua. Indi la ragione di nuove lotte e di nuove incertezze nella sovranità. Si cominciò a distinguere, nella stessa persona, la qualità d'Imperatore Romano da quella di Re d'Italia. A Roma si otteneva la corona imperiale dal Papa; la corona reale doveva ottenersi a Milano dal successore di Ambrogio. Naturalmente, se questi Imperatori erano forti, combattevano le pretese dell'arcivescovo; se erano deboli, le subivano. E vediamo infatti che nell'876 Ansperto da Biassono presiede in Pavia una Dieta di vescovi e di conti, che elegge a re d'Italia Carlo il Calvo, già incoronato a Roma. E nel 1027, Corrado il Salico riconosce esplicitamente questo nuovo diritto, dicendo in Roma ai prelati che assistevano all'incoronazione: «sicut privilegium et Apostolicae Sedis consecratio imperialis, item Ambrosianae Sedis privilegium est electio et consecratio regalis2

A Milano poi – come, del resto, in ogni altra città considerata sotto l'alto dominio feudale – la giurisdizione del principe si esercitava a periodi intermittenti, mediante magistrati speciali, eletti in ogni occasione dal principe stesso, e che passavano sotto la comune denominazione di missi dominici. Era specialmente affar loro amministrar la giustizia, sedere arbitri fra le contese private dei cittadini, reprimere i violenti, difendere, dicevasi, i deboli. In ciò la loro autorità s'intralciava con quella dei duchi, dei conti, dei vescovi, e le decisioni contradditorie aumentavano le amarezze e gli sdegni. Nè questi missi dominici scendevano sempre dalle Alpi a portare la parola imperiale. Più volte quest'autorità si delegava dall'Imperatore a un conte, all'arcivescovo, a questo o quell'altro patrizio importante della città.

Che poi questi giudici avessero, indipendente da ogni altra, la forza necessaria per far eseguire i loro giudicati, non appar chiaro dai documenti dell'epoca. Se le parti s'acquietavano, il giudice imperiale poteva dirsi fortunato; se non s'acquietavano, chi aveva più forza si sottraeva agli obblighi imposti, e la sentenza non eseguita diventava un disordine, qualche volta un tumulto di più. A buon conto, per le uccisioni, che erano pur troppo allora i delitti più frequenti e più comuni, durò lungamente in vigore una legge di Carlo Magno, conservata dai successori, mediante la quale l'uccisore poteva liberarsi da ogni noia, col tribunale, pagando il vidrigildo (wehrgeld), ossia l'ammontare del valore, a cui era stimata la persona uccisa. È facile vedere a che conseguenze poteva tirare una disposizione di così ingenua barbarie. Non erano i ricchi quelli che valevano meno, e non erano i popolani quelli che potessero permettersi il lusso di simili pagamenti.

Si aggiunga a queste cause di profondo turbamento materiale e morale l'organismo interno delle classi nobili, dei discendenti dall'antica razza conquistatrice.

Passato il primo ed aspro periodo dei duchi, di fattura longobarda, e a potere interamente dispotico, i Franchi, ai quali era toccato in sorte regno più vasto e dominazione quasi europea, dovettero moltiplicare i loro conti, e tollerare necessariamente quella maggiore suddivisione di territori e di attribuzioni che corrispondeva alla minore intensità del dominio.

Elettivi dapprima, per sola e mutevole volontà del principe, come furono generalmente tutti i titolari feudali, fino alle leggi di Corrado il Salico, i più potenti cominciarono a poco a poco a rendere la carica ereditaria nella loro famiglia. Così a Milano s'era insediata la famiglia d'Este, i cui antichi progenitori rendevano giustizia, di padre in figlio, nel palazzo ducale longobardo, la Curia ducis. E questi, o mossi da precoce sentimento d'italianità, o, più verosimilmente, dal desiderio di aumentare, a spese di un sovrano più debole, la loro autonomia, s'erano fatti sostenitori, dopo la morte di Ottone III, di quel valente e infelice Ardoino d'Ivrea, che fu, prima di Vittorio Emanuele II, l'ultimo personaggio italiano, sulla cui fronte si sia posata una corona di re d'Italia.

Così la famiglia dei conti di Milano provocò le ire di Enrico II, re di Germania, debellatore di Ardoino. Parecchi membri di essa furono arrestati e trasportati in Germania, dove seminavano germi di nuove dinastie; ed essendosi contemporaneamente innalzato il potere degli arcivescovi, questi trasmisero ad altra famiglia di loro fiducia la gerenza degli affari spettanti alla contea. Indi, l'istituzione e l'aumento di dignità dei vice-conti o Visconti, che pure a quell'epoca appaiono nella corte arcivescovile e che, succedendosi ereditariamente essi pure nell'alta intimità coi sommi prelati milanesi, mettono le basi a quella potenza che, trecent'anni dopo, manderà così estesi e così tetri bagliori.

Senonchè nè il re, nè l'arcivescovo, nè il conte avrebbero potuto reggersi frammezzo a tante incertezze di eventi e di plebi, se ai loro privilegi non avessero cercato appoggio – oseremo quasi dire complicità – nei privilegi di quella classe nobiliare, che ripeteva l'origine sua dall'aristocrazia barbarica e dal primo spartimento delle terre, fatto in odio degli antichi elementi romani.

Di lì un primo strato di altissima nobiltà cittadina, che nelle storie è chiamata dei Capitani. Non molti e potentissimi, possedevano nella città vasti palazzi e torri merlate, munite a difesa e ad offesa. Avevano clientele assai numerose, vassalli dentro e fuori le mura, tenevano squadre di armigeri, s'erano addossata la custodia delle varie porte della città. Anche in essi il feudo era divenuto ereditario, o per concessione di principe o per lunga tolleranza di usurpazione.

Ma col rapido movimento della popolazione, specialmente dopo la riforma edilizia di Ansperto, quel primo strato di aristocrazia apparve insufficiente alla sicurezza dei privilegiati. Trecentomila popolani, ormai fattisi agiati colle arti e coi commerci, non subiscono impunemente la dominazione di trecento ottimati. Questi sentirono dunque il bisogno di allargare ad altre famiglie discendenti dagli antichi conquistatori una parte dei vantaggi fino allora esclusivamente goduti dai Capitani. Il feudo aumentò di estensione, perdendo d'intensità. E così vennero costituendosi i Valvassori; nobiltà intermedia fra la plebe e i feudatari maggiori; che stavano coi Capitani, quando il popolo romoreggiava contro questo eccesso di privilegiati, ma che ai Capitani tennero più volte il broncio, perchè non potevano ottenerne quella concessione che i Capitani stessi avevano per sè carpita al supremo signore feudale, cioè la trasmessione ereditaria del beneficio. Nè qui si fermava lo sminuzzamento della classe nobiliare; poichè tra i Valvassori e la plebe sorsero i Militi; un altro stato di popolazione che s'imbrancava fra i minori privilegiati; tratti dall'amor dell'ozio che genera la prepotenza verso le classi inferiori e che di solito s'allea mirabilmente colla servilità verso le superiori.

2.Arnolfo, libro II, c. III.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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