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Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 9

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L'Imperatore infatti, traccheggiato da' suoi rivali tedeschi, s'era visto chiusi i passi delle Alpi elvetiche e carniche; aveva dovuto scendere a sghembo nella Borgogna; e di lì era stato costretto a chiedere l'assenso della nobile suocera, che poco innanzi egli aveva fieramente offesa co' suoi tentativi di divorzio dalla virtuosa Berta.

Questa però rimase anello di conciliazione fra il marito e la madre, come la madre stette poco dipoi autorevole mediatrice fra l'Imperatore ed il Papa.

L'incontro degli eccelsi congiunti ebbe luogo sulle rive del Lemano verso gli ultimi giorni del 1076. E furono giornate terribili per geli e tormente quelli in cui la splendida comitiva superò il Gran San Bernardo per giungere a Torino. Parecchi servi perirono assiderati; e perchè lo stesso destino fosse risparmiato alla contessa ed alla imperatrice sua figlia, dovettero entrambe essere avvolte in pelli di buoi appena uccisi, e portate in siffatto abbigliamento al piede della montagna.

Enrico IV aveva fretta di abboccarsi col suo formidabile antagonista; sicchè non tardò a partire per Canossa, accompagnato dalla moglie Berta, dalla suocera Adelaide, dal cognato Amedeo, dal conte Azzo d'Este e dall'abate Ugo di Cluny.

L'episodio che allora si svolse nel famoso castello non ha d'uopo d'essere per la centesima volta raccontato. Rimane nella memoria dei posteri come un duplice eccesso, che, secondo l'indole degli eccessi, non giovò a nessuno e nessun bene fruttò. Un immenso orgoglio a fronte di una immensa umiliazione: ecco lo spettacolo che diedero di sè ai contemporanei i due uomini che avrebbero dovuto, in tanto infuriare di passioni e di eventi, mantenere al loro dissidio le forme austere della dignità.

Più degli uomini furono in quell'episodio prudenti e savie le donne; Adelaide specialmente, che usò di tutta la sua autorità sull'imperatore di cui era madre e sul pontefice, a cui come figlia era cara, per attutire gli sdegni, sollecitare gli accordi e preparare riconciliazioni durevoli.

Non riuscì a quest'ultimo scopo, poichè l'indole umana si ribella ai ricordi della violenza. Enrico IV e Gregorio VII, si separarono col bacio sulle labbra e col fiele nel cuore. Entrambi finirono la loro vita, lontani da quel potere che per entrambi era stato cagione di tanto eccesso. Gregorio VII moriva a Salerno, ospite d'uno fra quei Principi temporali14, sui quali egli aveva preteso di esercitare così orgogliosa supremazia. Enrico IV moriva di crepacuore a Liegi, deposto e perseguitato dal figlio suo; triste vendetta delle ingiurie e dei patimenti, fra cui aveva vissuto Berta di Savoia, moglie dell'uno e madre dell'altro!

Così accade ai violenti, sui quali, presto o tardi, scende quella giustizia, riparatrice, che non teme nè le tiare nè le corone.

E che ai violenti non piegasse la fronte Adelaide di Savoia, memore forse o forse presaga della fierezza che alla sua stirpe incombeva, lo dimostra un altro episodio, che precedette di pochi anni la sua morte.

Mentre Enrico IV, vincitore a sua volta di Gregorio VII, occupava Roma e v'insediava un altro Papa, s'era recata la contessa Adelaide a fargli visita; e al seguito suo s'era aggiunto, cercando protezione, un monaco, Benedetto, abate di San Michele alla Chiusa, che aveva tenuto nell'Alta Italia contegno favorevole al Papato contro l'Impero.

Caduto questo monaco, per insidie tesegli, nelle mani degli sgherri imperiali, si stava per farne strazio, coll'esplicito assenso di Enrico, quando Adelaide, saputo il fatto, si presentò immediatamente all'Imperatore, reclamando la libertà dell'abate ch'essa aveva guarentito contro ogni offesa. Le prime ripulse del genero non iscoraggiarono la contessa, che dalle preghiere passò alle minaccie. E l'Imperatore, il quale conosceva più che altri la potenza della suocera sua, e temeva di vedersi impedito il cammino da un esercito ch'essa avrebbe potuto radunare al piè delle Alpi, non osò prolungare la resistenza e fece restituire al monaco la sua libertà.

Con questi modi e con questa indipendenza Adelaide regnava; e seguiva in ciò scrupolosamente le tradizioni del conte Umberto, che ai deboli ed agli oppressi era stato sempre largo del favor suo. Le stirpi hanno come i paesi, una costante fisonomia; e come non riuscireste a trovare, fra tutti gli Stuardi, un filantropo, non vi sarebbe possibile scovare un tiranno, fra tutti i principi di Savoia.

*

Quando la gran contessa morì, una specie di guerra di successione scoppiò fra gli eredi, presunti o legittimi, e mise a brani lo Stato.

È un fatto che la storia non può dissimulare e che produsse conseguenze durate per qualche secolo.

Ma ho già avuto qui l'occasione e l'onore di dire che nei fenomeni storici di lunga evoluzione non è già qualche soluzione di continuità che possa scemarne la verità o la logica. La vita umana è continuamente interrotta dal sonno; eppur si ritrova, alla fine d'ogni intervallo, piena di unità e di efficacia. Nè la vita dei popoli è in ciò diversa dalla vita degli individui. Subisce alternative di stanchezza o di sconfitta, dopo le quali il pensiero direttivo o l'istinto ripigliano lo svolgimento di prima. Se ciò non fosse, sarebbe disperato lo sforzo di cercare nella storia virtù di esperienza o insegnamenti di civiltà. La storia diventerebbe un tumulto di fatti, una successione di violenze, in mezzo alle quali nessun pensatore potrebbe trovare barlume di una legge progressiva dell'umanità.

Chi pensa, per esempio, che la storia di Roma antica non abbia uno svolgimento di mirabile continuità, perchè i Galli poterono spingere il loro Brenno entro le antiche mura, ed accamparvisi come padroni?

Chi crede che non cominci da Rodolfo d'Habsburg la stirpe imperiale d'Austria, perchè dopo suo figlio, un'altra casa di Lussemburgo ha potuto dare due o tre sovrani alle popolazioni germaniche, lacerate dalla guerra civile?

Lo stesso fato dominò nei primi tempi la casa di Savoia; ma essa afferrò il fato con robuste braccia e lo vinse.

Morta Adelaide, parve per qualche tempo che la fortuna avesse abbandonato al di qua delle Alpi, la casa Umbertina.

Il marchese Bonifacio del Vasto, lontano parente di quella casa, mosse subito le sue forze contro Asti ed Albenga. Corrado, figlio dell'Imperatore e nipote della defunta Adelaide, occupò le migliori terre della contea di Torino. Lo stesso Enrico IV varcò le Alpi e scese con un esercito sopra Montebello. E, incuorati da siffatte usurpazioni, alcuni fra i maggiori Comuni, come Torino e Chieri, innalzarono bandiera d'autonomia e cercarono ritornare al dominio nominale dei vescovi, che non sempre rispettavano le libertà onde erano proclamati custodi.

Contro queste usurpazioni e queste riscosse era solo a lottare Umberto II, figlio di Amedeo, rimasto giovanissimo a governare quegli Stati, retti fino allora da mani così gagliarde e da esperienze così provette.

E cominciò allora un secolo di contestazione e di lotte, nelle quali la casa di Savoia, ora avanzando, ora retrocedendo, non perdette mai il rispetto alle sue tradizioni e la fede nel suo avvenire cisalpino. Non abbandonò le prische sedi, poichè nelle valli savoiarde e svizzere battagliò lungamente, mutando ed acquistando terre e castella; ma tenne l'occhio fiso al dominio italiano, che dopo il matrimonio con Adelaide Manfredi, era diventato il pernio della potenza e la seconda patria della dinastia Umbertina.

Per molti lustri, il successo rimane dubbio, i contrasti son fieri; v'è un'epoca, in cui la famiglia si spezza in due rami, e sembra che scompaia l'unità della tradizione dinastica. Ma la virtù e la sagacia suppliscono a qualche difetto di fortuna o di energia. Non sempre giova affrontare la bufera alpina a viso eretto. Questa vi avvolge e vi trascina giù pei burroni. Se invece, curvandovi, lasciate passare l'uragano, rimanete al vostro posto e potete rizzarvi più forte e più sicuro di prima.

È quello che hanno fatto tante volte i principi di Savoia, riprendendo, da Susa o da Ivrea, il cammino verso quelle pianure che l'uragano flagellava innanzi al loro passi. Finchè poi, una serie di principi vigorosi e fortunati, Tommaso I, Pietro II, Amedeo V ricuperavano, aumentandolo, l'antico patrimonio della contessa Adelaide; preparando quella grandezza militare e politica, di cui toccò il vertice più tardi il grande Emanuele Filiberto.

Fu però negli anni più aspri e più laboriosi di questa fondazione politica che si svolsero i primi germi del programma, a cui la casa di Savoia avrebbe dovuto i suoi trionfi italiani. Vi sono in ciò dei presagi storici, che possono sembrare combinazioni all'osservatore superficiale, ma che forzano il pensatore alla meditazione.

È infatti Umberto II, che, proprio nel più fitto della guerra di successione, riconosce l'indipendenza di Asti e stringe accordi con essa per combattere predominî feudali. È Amedeo III che, dopo il 1130, concede a Susa il primo statuto di franchigie comunali. È Umberto III che, nel 1175, prepara i primi accordi tra Federico Barbarossa e le libere città lombarde. Poi, nel 1215, Tommaso I stringe, per la prima volta, accordi politici con Milano contro il marchese di Monferrato. E finalmente, cinquant'anni dopo, Pietro II si trova in Svizzera di fronte a Rodolfo, allora semplice conte di Habsburg, e duramente lo batte; singolare e provvidenziale contesa, che cominciava proprio tra il primo fondatore della casa d'Austria e il ristauratore della casa di Savoia, quella secolare rivalità di cui abbiamo visto forse l'ultimo atto nella guerra del 1866.

Vanti non piccoli questi, della dinastia che ci regge; poichè, se è facile mostrare generosità e benevolenza, durante i periodi in cui la fortuna accarezza, lo accentuare, nell'epoca dei pericoli, quelle idee e quei propositi che poi governeranno l'epoca della prosperità, è previdenza che non a tutti sorride, – è saviezza che molti avrebbero dimenticata, sotto il pretesto della sventura.

Ora, è proprio la sventura il crogiuolo in cui s'affinano le anime grandi. Ed è questa l'aristocrazia specialissima della famiglia, di cui studiamo le origini; aristocrazia che innalza il carattere di Umberto Biancamano quando s'incammina a Zurigo, custode della detronizzata Ermengarda, e che innalza il carattere di Carlo Alberto, quando s'incammina ad Oporto, per salvare colla dignità della stirpe l'avvenire d'Italia.

Quelle disposizioni dei primi Umberti a favore dei Comuni, appena usciti dall'infanzia feudale; quel desiderio di creare in pieno medio evo solidarietà politiche colla Lombardia o colla Toscana; quell'istinto che metteva contro Rodolfo d'Habsburg i soldati d'un principe di Savoia, preannunciano fin dai secoli oscuri le qualità che renderanno popolare, nei tempi moderni, la dinastia: vale a dire, la fede nei principi liberali, l'accortezza nelle alleanze, il proposito dell'indipendenza, la virtù militare, che non odia i nemici, ma non li conta.

Se questa non è legge istorica, non sappiamo qual sia; e in verità è difficile pensare che altri istituti, altre compagini umane possano vantare fra le loro origini e la fine dei loro svolgimenti eguale coerenza di tradizioni.

Umberto Biancamano, nel secolo XI protegge i suoi nemici contro l'abitudine del saccheggio. Pietro II nel secolo XIII adotta per motto suo: la sovranità viene da Dio, quando è esercitata a beneficio dei popoli. Vittorio Amedeo II nel secolo XVII spezza il suo collare dell'Annunciata per dividerne i brani fra il popolo afflitto dalla carestia. Umberto I nel secolo XIX si tuffa nei contagi omicidi per dare ai popolani sofferenti quel conforto che viene dalla calma, dal coraggio, dalla fiducia.

L'unità dei pensieri e l'unità d'istinti non potrebbero avere, io credo, più perfetta dimostrazione.

*

Del resto, ad altre dimostrazioni e ad altre unità si presterebbe l'argomento, se volessimo discendere dai primi agli ultimi della famiglia Umbertina, o risalire dagli ultimi ai primi.

Ma, dopo avermi tollerato come istorico, non vorrei mi accusaste di scendere a cortigiano. Ora, i cortigiani che sono ordinariamente accaniti ad inventare le origini delle dinastie, sono, anche più ordinariamente, accaniti a parteciparne le decadenze.

Dio mi tolga dunque, ora e sempre, dal numero e dall'abbiezione.

Discorrere delle Case sovrane è stato difficile, finchè le ragioni dell'intelletto erano soverchiate dalla prepotenza dei privilegi. Allora, nessuna logica correggeva gli eccessi; poichè il mondo si divideva in dominati e dominatori; e, secondo l'influsso di questa situazione personale, la storia diventava o adulazione o calunnia.

Il regime liberale, rendendo ai principi l'affetto dei popoli, ha reso nel tempo stesso agli scrittori l'indipendenza e l'imparzialità del giudizio.

Oggidì che il sovrano s'è sprofondato nelle moltitudini e vive della loro vita, adularlo sarebbe ipocrisia, offenderlo sarebbe viltà.

Però lo scrivere di regnanti non è facile ancora, per quanto la difficoltà abbia mutato natura. Non è facile, perchè avviene talvolta che i cortigiani impauriti e le democrazie soddisfatte si uniscano in un solo e intollerante grido di plauso, attraverso al quale sembri importuna la voce severa di chi ama e teme.

Questa difficoltà è assai minore, com'è minore il pericolo, quando si tratti di famiglie dinastiche la cui storia rimonti alle origini della civiltà.

In questi casi la voce dei secoli può sostituire efficacemente quelle voci contemporanee, che diventassero troppo fioche o troppo obliose; e nella ricca e varia indole dei numerosi antenati possono i regnanti contemporanei trovare quel senso della misura che è la suprema saggezza dei reggitori di popoli.

Perciò mi fu grato parlarvi delle origini d'una famiglia gloriosa nei fasti della patria; i cui principi seppero essere quasi tutti energici senza tirannia, buoni senza debolezza, amanti di libere istituzioni senza sminuire la dignità del loro sangue.

Se questa famiglia avesse illustrato col suo dominio qualunque altro popolo d'Europa, i suoi ricordi desterebbero sempre nello storico il sentimento dell'ammirazione.

Ma quando nello storico si confondono il cittadino ed il suddito, l'ammirazione si tramuta in un complesso di affetti maggiori e diversi. L'indagine del passato non basta più a soddisfare l'intelletto; che vorrebbe lanciarsi nell'avvenire e cercarvi il segreto delle inquietudini e delle speranze patriottiche.

Le une e altre autorizza la storia nel suo viaggio di lungo corso.

Ma se il progresso politico non è ridotto ad una formola menzognera, questa storia dovrebbe quind'innanzi subire meno che nel passato la legge dei violenti ed il capriccio dei casi; dovrebbe quind'innanzi riposar meno sul contrasto che sull'armonia degli interessi molteplici.

Ora, chi pensi quante volte questi interessi hanno trovato efficace difesa presso popoli pieni di fiducia e presso principi degni d'inspirarla può dare nell'avvenire il passo alle speranze sulle inquietudini.

Poichè – voi me lo insegnate, o signore, – quando l'amore può essere nel tempo stesso un orgoglio, diventa il più forte e il più durevole dei sentimenti umani.

LE ORIGINI DELLA MONARCHIA A NAPOLI

DI
RUGGERO BONGHI

Signore e signori,

Dante Alighieri, lo rammentate, dice, non ricordo ben dove:

 
Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna,
Dee l'uom chiuder le labbra quanto puote,
Perocchè senza colpa fa vergogna.
 

Se questo precetto va seguito sempre, io avrei dovuto pregare gli ordinatori di queste letture, di volermi assegnare soggetto diverso da quello, che, ben mio malgrado, mi son visto imporre; giacchè esso è tale che, considerato sì nelle sue cause remote e sì nei suoi effetti lungo i secoli, ha tanto di meraviglioso, che, quando io ve n'abbia discorso parrà a voi piuttosto favola che storia; un soggetto, per soprappiù, che s'aggira intorno a cosa mai esistita sino a tempi tanto prossimi che molti di noi hanno convissuto più o meno con essa, eppure tanto passata, che duriamo fatica a ricordarla noi, e dureremo anche maggior fatica a imprimerla nella memoria o nella fantasia dei nostri figliuoli: la monarchia napoletana.

Di fatti, chi di voi, cui non fosse noto, penserebbe, che, per raccontarvi le origini di questa monarchia perita per sempre, io deva forzarvi a riportare la vostra immaginativa sin su all'ottavo secolo d.C. e trarvi meco sino alle coste della Norvegia: e mostrarvele, queste, pullulanti di navi, e le navi spiccarsene di qua, di là, e scorazzar per i mari che bagnano le spiaggie della Danimarca, della Germania, dell'Inghilterra, della Francia, e cacciarsi nei fiumi, che vi mettono foce, e penetrare più che possono, entro terra, e mettervi a ruba e a sacco ogni cosa, e uccidervi o portar via uomini, rapire o violare e trucidare donne, fanciulli, e tornare a casa, ricche di preda e di gloria? Eppure, o signore, è così. Portano un illustre nome nella storia cotesti pirati del settentrione: Vikingi, checchè questo nome voglia dire, abitanti o assalitori di rade. Alle lor vittime parevano corsari del mare; essi se ne dicevano re. E re erano. Per due o tre secoli i popoli rivieraschi non ebbero difesa contro di loro. Nè quelli soli delle regioni nominate dianzi. Giacchè entrarono nell'Atlantico, e visitarono a quel gentil loro modo le spiaggie occidentali della Francia, della Spagna; entrarono nel Mediterraneo e visitarono le nostre. Udite questa. Sentirono in una delle loro scorrerie parlare di Roma, della ricca, della grande Roma: a Roma, a Roma, fu il loro grido subito. Quivi avrebbero messe le mani sulla maggior somma di ricchezza al mondo. Quando, costeggiando le spiaggie orientali della Spagna e le meridionali della Francia, furono giunti, discendendo quelle dell'Italia, a Luni, vi fecero sosta poco discosto dalla foce della Magra, sui confini della Liguria e della Etruria, cui aveva già reso celebre e prosperoso il porto suo, quello che ora è detto della Spezia. Era ancora città popolosa e ricca, quantunque fosse già sul declinare, quando verso il principio della seconda metà del nono secolo cotesti Vikingi vi approdarono. E a essi, una città che dopo scorsi cinque altri secoli Dante avrebbe portato a esempio delle città ite, anzi di quelle che non ci dovevano far parere cosa nuova nè forte, a essi parve Roma: tanto grande n'era il porto. Li comandava un Hasting, e si traeva dietro un dugento navi di quelle ch'essi chiamavano suckhar, serpenti, trakur, dragoni, nomi di agguato e di spavento. Ai Lunesi la notizia di così triste arrivo pervenne mentre celebravano nella cattedrale la festa del Natale e ne furono, sì, sgomenti, ma non tanto che non corressero a chiuder le porte e s'armassero a difesa. Hasting mandò loro a dire che non nutriva nessuna cattiva intenzione, lui; sbalestrato dai venti, aspettava di potere andar via; per ora implorava soltanto che gli si lasciasse vettovagliare la ciurma, e per sè, poichè si sentiva morire, il battesimo; nient'altro. S'ebbe vino, pane, ogni cosa; e, quanto al battesimo, entrasse pure in città e venisse in chiesa a farvisi battezzare. Si lasciò portare: non era in grado, diceva, di camminare; tanto si sentiva in fin di vita; e non v'era segno di verace e tormentosa agonia che non desse. Fu cerimonia solenne; il vescovo volle celebrare la funzione lui; gli fece da compare il conte. Ed egli scongiurava: «Pochi giorni mi restano, seppellitemi qui, in questo luogo che m'è sì caro; seppellitemi da cristiano.» Fu riportato alla nave. A breve andare, si sparse voce che, diffatti, egli era morto. I suoi lo allogarono nella bara, rivestito del giaco e colla spada al fianco; e fecero così gran corrotto, e con così alti lamenti e grida che più non avrebbero fatto se fosse morto davvero. E se ne andarono colla bara alle porte della città, e quivi, piangendo, scongiurando, chiesero che lor si aprissero, e si desse riposo al cadavere del lor capitano, del lor padre, del loro fratello colà dov'era risorto a vita di spirito. E i cittadini acconsentirono. Apriron le porte, ricevettero il morto con grande onore. Le campane suonavano a stormo; preti e signori, ricchi e poveri accompagnavano processionalmente. Il vescovo cantò la messa funebre, lui. Ma ecco che, quando fu finita ogni cerimonia, quando si fu per alzare la bara, il morto ne saltò fuori. Com'egli era armato, così erano tutti i suoi, che erano entrati in città e in chiesa in sua compagnia. Avevan nascosto corazze e spade sotto le cappe. Fecero infinita strage. I primi ad avere mozzato il capo furono il vescovo e il conte compare. Poi, usciti di chiesa, misero a ruba la città; poi la campagna. Non seppero, se non dopo compita l'opera, che la città non era Roma. Tornarono di dove eran venuti; e io non ve ne avrei discorso sin qui, se l'avvenimento, che può anche non essere in tutto vero, non mostrasse le qualità principali e costanti della stirpe, sinchè durò intatta: nessuna più temeraria, più astuta, più crudele al bisogno, più soverchiatrice e più ingorda di essa.

 
Udir come le schiatte si disfanno
Poscia che le cittadi termine hanno,
 

Come e perchè cotesto sciame di corsari uscisse dalla terra natìa e si spandesse da per tutto, è facile intendere; si trovavano troppi a casa, e la casa, per giunta, era povera. Tedeschi di stirpe, e certo cacciati dalla spinta di altre genti o della stessa loro famiglia o di diversa in quella estrema penisola, dovevano forse ricordare con desiderio le spiaggie perse da secoli. E vi ritornavano con desiderio. Ma non vi ritornavano quali n'erano partiti. Nella nuova lor patria il fragore dei ghiacciai e il tono delle valanghe, durante la lunga notte polare rischiarata soltanto dalla fiamma sparsa dall'aurora boreale; il muggire dell'onde sbattute dalla tempesta sulle spiaggie cavernose dei seni di mare, le folte e scure selve, e la state che scoppia a un tratto, e riveste le roccie e le creste dei monti della betula odorosa e verde, mentre il sole sale sempre più alto e gitta i suoi arcobaleni sulle cascate spumanti; e il bagliore dei raggi che si riflettono dai campi di ghiaccio, e la luce verdognola, cangiante, che ne riempie le grotte cristalline, destavano nei lor petti una meraviglia mesta e pensosa. Tutta la lor credenza religiosa n'era colorita e formata. L'universo si figuravano fosse colmato tutto dall'albero dell'esistenza, il frassino Yggdrasil, che vien su del Nifl, il regno dei morti. A' suoi piedi sgorga gorgogliando la fonte del Mimer, e laggiù nel regno buio stanno a sedere tre Norne, tre Parche, sorelle, l'età passata, la presente e la futura, che ne innaffiano le radici e filano i fili dei fati umani. L'impero della terra è diviso tra gli Asi, i buoni Iddii, che rappresentano la luce e il calor della state, e gli Iotuni, mostri giganteschi, che figurano il gelo, la tenebra, la tempesta di neve. Quegli abitano in su nell'Asgard; questi in giù, al buio nello Iotum. Principale tra gli Asi è Odino, il signore del cielo e della terra, cogli occhi di foco; il padre degli uccisi in battaglia, che gli accoglie presso di sè nel Walhalla. E v'era altri Asi appena meno potenti. E non mancava loro il conforto, cui niente oltrepassa, la compagnia della donna; Frigga, moglie di Odino, Freya, la dea tutelare dell'amore, Iduna, la custode dei pomi di cui gli Asi vivono in una giovinezza eterna, divinatrice del futuro. Ma a cotesti benefici Iddii stanno di contro i perversi, mostri terribili: il lupo Feuris, il serpente Midgard, e Hel. Come padre degli Asi fu Allfadur, così degli Iotuni fu Loki. Padre e figliuoli, Odino vinse e variamente punì; ma quando il bellissimo Baldur, figliuolo di Odino e di Frigga, morì, la fortuna degli Asi cominciò a declinare. Aveva pur presentito la madre che sarebbe morto! Aveva chiesto a tutti gli elementi, a tutti, a tutte le creature, a tutte, di non recargli danno: e l'avevan giurato. Pure quel furbo di Loki le trasse di bocca, che una sola creatura, una sola, non l'aveva giurato: un arboscello, il vischio. E Loki persuase il cieco Hodur di colpire Baldur con un rametto di vischio. E il bellissimo Baldur cadde a terra spento; e Nanna, la moglie, che si struggeva per lui di un infinito amore, lo seguì. E la stessa sorte toccherà agli Asi tutti, il giorno che perirà la terra; dovranno dileguarsi e sparire, nel crepuscolo degli Dii. Tre inverni, non interrotti da nessuna state, si seguiranno l'un l'altro; si ottenebrerà il sole; una sciagura incalzerà l'altra; per l'intiero mondo infurierà la guerra. Surtur, il principe del fuoco, verrà da mezzogiorno a passo a passo; il cielo si fenderà; e attraverso le suo fenditure gli spiriti del fuoco irromperanno. Sotto i lor passi il ponte del cielo rovinerà. Nel settentrione il lupo Feuris si sprigionerà dalla sua catena. La nave Negilfari, tratta dalle unghie dei morti, sarà condotta dal gigante Hymir verso Oriente, e di quivi si avvicinerà l'esercito dei cattivi spiriti, menati da Loki. I giganti di ghiaccio e il cane dell'inferno Garmer s'affretteranno al ritrovo. Tutti converranno nelle pianure Oscornar. Ed ecco il custode del cielo Heimdall soffiar nel suo corno; e gli Dii marciare a battaglia, e tutti gli eroi seguirli, quanti ne son periti dal principio dei tempi. Il frassino Yggdrasil vacilla, divelto dalle radici. L'aquila gigantesca divora crocidando i cadaveri dei caduti; il serpente Midgard, divincolandosi, vien fuori dal mare sputando veleno. Thor, sì, l'uccide; ma l'uccisore alla sua volta è soffocato dal veleno vomitato dal suo nemico. Feuris ingoia Allfadur, ma anch'egli muore. Loki e Heimdall si trucidano l'un l'altro. Gli astri si spengono; fiamme dissolvono la compagine della terra. E la terra si sprofonda nel mare; ma dal mare una nuova terra emerge; gli Asi si destano da morte, e con loro sorge un uman genere ringiovanito.

Vi parrà, che in questo intreccio di fantasie cosmogoniche e religiose nulla vi sia di cui ci si giovi. Nulla, di certo; forse vi avrete raccolto qualche eco di racconti già uditi, stranamente confusi con invenzioni nuove; ma ciò al soggetto nostro non preme. Al soggetto nostro preme osservare che, come le religioni sogliono, anche questa dei Vikingi o dei Norvegi era atta ad aprirne gli spiriti e lasciarli spaziare più in là e più in su, a metter loro davanti il contrasto del bene e del male; ad arricchirli di qualche idealità avvivatrice. Difatti, se gli abbiamo visti, i Vikingi, astuti e soperchiatori, pure non era sola la preda che li allettava a' pericoli, bensì ancora gli abbagliava la gloria, com'essi la intendevano, la vaghezza del nuovo. «Chi vuole», dicevano, «col suo coraggio acquistare gloria, deve persino innanzi a tre nemici non trarsi indietro; soltanto avanti a quattro può fuggire senza vergogna.» E il premio che s'aspettavano, era, dopo morte, il banchettar con Odino lassù e con quanti altri eroi erano morti prima o dopo. Nè volevano la battaglia, la morte, priva di canto. Le corti dei principi, dei capi, le navi stesse, mentre scorrevano il mare, eran piene dei lor cantori, gli Scaldi, ai quali spettava celebrare nei versi le imprese dei valorosi. Nessuna persona più accetta di loro nei palazzi dei grandi. Cantavano poesie loro, poesie di loro antecessori avanti ad essi. Ne ricevevano in ricambio ricchi doni. I cortigiani avevano obbligo d'imparare a mente i versi cantati e diffonderli. Non tutto, vedete, nei paesi e nei tempi barbari è men civile che nei paesi e tempi civili.

Così vaghi di glorie e di avventure accrebbero la loro e la nostra cognizione della terra. Nel 861 Nadodd fu gettato da una terribile tempesta sulle coste di una terra ignota; la chiamò come la vide, terra di neve, ne tornò sgomento della natura selvaggia, in mezzo a cui s'era visto; ma uno svedese, Gardar Svafarson, vi approdò da capo più tardi e la chiamò Gardarsholm, isola di Gardar. Altri, cacciati o da timori o da speranze o da voglia di libero vivere, scoversero l'Islanda, Ingolfshodi; traevano il nome o dal proprio loco o dalla natura visibile. Nè qui si fermarono. Verso la fine del decimo secolo Eirek il rosso, sbandito dalla patria per un omicidio, allestì una nave gigantesca col disegno di veleggiare verso mezzogiorno; non mosse solo, ma accompagnato da audaci. Nel 982 vide distendersi dinanzi a lui una lunga costa, coronata da un ghiacciaio; non sostò nè mutò rotta; sinchè non ebbe incontrata una regione, che per essere di state verdeggiava tutta e la chiamò Groenlandia, e vi chiamò altri. Fra questi un Bjarni, in un viaggio con una propria nave, si trovò una volta a vagare molti giorni e notti senza sapere dove fosse. Da molti giorni non vedeva il sole, quando gli si mostrò una terra, che nè a lui nè a' suoi compagni parve la Groenlandia. Non vi si ancorò; navigò più oltre; e dopo due giorni e due notti gli sorsero davanti due strisce di costa, delle quali la seconda mostrava grandi monti di ghiaccio. E neanche qui si sentì invogliato a sbarcare; avanzò; e, menato via da un forte libeccio, scoverse dopo quattro giorni una quarta terra e vi discese. Quivi trovò il padre Herjulf, che senza sua saputa vi dimorava, e accolto lietamente, vi rimase il resto della vita. Che terre erano queste? L'ultima, si congettura fosse la costa del Massachusetts; la seconda, la Nuova Scozia; la terza, non è ben chiaro; forse il nuovo Fundland. Così avrebbero rinvenuto l'America un cinque secoli e più prima di Colombo, se gli uomini vedessero davvero le cose, prima di esser maturi a vederle e a giovarsene. Nè Bjarni restò poi solo. Un Leif, figliuolo di quell'Eirek, scoperse il Labrador e rivide la Nuova Scozia, che chiamò Terra del vino poichè vi abbondavano rigogliose le viti; nel 792 vi tornò il fratello Thorwald, e pose la sua sede in quella che fu poi chiamata isola di Rhode; e se ne spiccò per spiare il paese verso settentrione, ma fu viaggio funesto. Giunto, si crede, alla montagna di Gurnet nel golfo di Plymouth, l'uccisero. Ed altri seguirono; ma questi bastano a mostrare un aspetto di questa indole Vikinga, il più adatto a spiegare la loro azione sul mondo.

Giacchè i Vikingi amavano di uscire di casa e andare a risiedere persino in regioni ignote e selvaggie, come non avrebbero sentita la voglia di prender dimora in regioni relativamente civili alle cui spiaggie approdavano o per i cui fiumi s'internavano? Una delle prime di queste era la Francia nella sua costa settentrionale, lì dove era a quei tempi chiamata Neustria. Risalivano la Senna: bruciavano a dritta e a manca. Parigi gli attirava. Vi penetrarono nel 857; ne bruciarono le chiese: ne misero a ruba le case: la città si riscattò a denaro, ma v'eran rimasti cinque anni. Ventotto anni dopo vi tornarono forti di settecento navi. Il fiume n'era ricoperto per un tratto di due miglia. Ma la città, istruita dalle precedenti invasioni, s'era afforzata. Fu variamente, gagliardamente attaccata, ma anche gagliardamente difesa. Così l'anno dopo. Come alla battaglia di Regillo, Castore e Polluce erano apparsi in aiuto a' Romani, così a' Parigini venne in aiuto tutto un esercito celeste. Il capo dei Vikingi stanco accondiscese ad andar via per denaro; gliene fu dato: andò. Ma non tutti i suoi lo seguirono; parecchi restarono; e ritentarono gli assalti. Nè si mossero, sinchè Carlo il Grosso non si fu avvicinato con un esercito, non già per usarlo a cacciarli via colla forza, ma per pagare la ritirata anche a questi. Eran rimasti dieci mesi; ma non perchè Parigi avea lor resistito, se ne tornavano a casa. Anzi si spandevano per le regioni a settentrione di Parigi, e vi si stanziavano. Già nel principio del decimo secolo la popolazione v'era di Vikingi in gran parte. Anzi la difendevano contro altri Vikingi, meglio che i Franchi non avevano fatto contro loro. Nel 911 un Rollo, o Rollone, – uomo di tale corporatura che non c'era cavallo che lo reggesse, ond'era costretto ad andare sempre a piedi, sicchè ne aveva avuto soprannome di camminatore, – chiese a Carlo il Semplice licenza di stabilirvisi addirittura, e l'ebbe. Così quella parte di Neustria che i Vikingi occuparono con lui, mutò nome, e si chiamò quind'innanzi Normandia; giacchè i Vikingi eran detti altresì Northmen, uomini del Nord, o, come noi diciamo, senza più intendere il nome, Normanni.

14.Roberto Guiscardo.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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