Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 11
II
Ormai è chiaro in che modo il quindicenne Ambrogini potesse lamentarsi della sua miseria in distici garbati; ci è chiaro anche in che modo potè, indi a poco, rompere la malignità della sorte. La protezione che quel povero messer Benedetto aveva chiesta invano a Piero de' Medici, fu dal figlio dell'invocato protettore conceduta al figlio dell'assassinato, non tanto forse per la pietà dei casi suoi quanto per la stima dell'ingegno e della dottrina. Lorenzo aveva sei anni soli più dell'Ambrogini, e comuni con lui gli studii, del pari che alcune qualità della mente; pregato egli giovine poeta da un poeta giovine, che lo salutava e si diceva tutto suo, s'intende che subito ricambiasse il saluto e l'offerta con benevolenza di signore e cortesia di confratello. Che mai chiedeva in distici latini il minore al confratello magnifico? Prima di tutto un paio di scarpe, chè i diti dei piedi gli si affacciavano dalla rotta prigione alla vista del cielo, e un vestito, fosse pure usato, che non mostrasse le corde e peggio, come quello che lo faceva schernire da' beceri. Delle scarpe non so; il vestito venne; e tali furono, in versi che mi spiace dover guastare, i ringraziamenti:
Ben io volea più volte ne' carmi renderti grazie,
Lorenzo, o gloria prima de' tempi tuoi;
sì che invocai la Musa Calliope con lunghe preghiere,
ed ella venne, e avea seco l'arguta lira.
Venne; ma come addosso mi vide le splendide vesti,
subito volse a dietro l'isbigottito piede,
chè ravvisar la Dea non seppe sì bello il poeta:
troppo mi fa mirando questa vermiglia toga!
Onde se a te minori dà il verso le debite grazie,
colpa ha la Dea che niega regger la penna mia.
Oh che leggiadri carmi udrai, sì tosto che avvezza
a' miei splendori nuovi si sia la Musa!
La valentia che questi epigrammi dimostravano, fu confermata a Lorenzo da' maestri dello Studio, tra i quali Marsilio Ficino che di quello scolaro prometteva grandi cose: anche meglio la confermò, subito dopo, il secondo libro dell'Iliade, recato in esametri latini, di colore e sapore virgiliano, e offerto a Lorenzo medesimo. Il primo libro ne era stato tradotto, per desiderio di Nicolò V, da un segretario della repubblica, il Marsuppini, morto nel 1453: non potea non piacere al Magnifico, che l'impresa fosse continuata a Firenze, sotto gli auspicii suoi; ed Angelo, che secondo l'uso degli umanisti si ribattezzava, dal nome della patria, in Poliziano, lasciò la casuccia di via Saturno, dove il cugino povero lo aveva ospitato, e salì le scale del palazzo mediceo in via Larga. Le salì certo senza borbottare il verso di Dante, che è duro salire le scale altrui: perchè egli era giovane molto, e sapeva la cortesia del protettore; e perchè l'umanesimo aveva raddolcite le asprezze del vivere medievale, ma anche, mi convien dirlo, scemato il vigore degli animi, e adusati i letterati e gli artisti a stimarsi artefici di diletto e di fama ai potenti, anzi che, come Dante fu, gl'interpreti e i vindici della rettitudine e della patria. Fatto sta che il Poliziano, disposto a celebrare, in gloria di Lorenzo, quasi una nuova Iliade, perfino il sacco spietato di Volterra, e sollecito pedagogo ai figli di lui, se ebbe sempre a lodarsi del padrone, si accorse anch'egli che il pane altrui sa di sale quando fu poi preso in uggia dalla padrona, madonna Clarice.
Ma tali fastidii sentì più tardi. Allora, godendosi la quiete operosa di che già avea disperato, attendeva alla versione d'Omero. Dalla quale non gli fu grave distrarsi per ammirare a Mantova le feste che il Gonzaga diede in onore di Galeazzo Sforza e Bona di Savoja sposi, nel luglio del 1471; per ammirarle e farvisi ammirare; poi che quivi, come volle il cardinale di Santa Maria Nuova, che l'avea conosciuto allora allora in Firenze, dovè, entro quarantotto ore e in quella tanta confusione, mettere insieme la favola d'Orfeo. Rammentatevi che il Poliziano, nato il 14 luglio del 1454, compiva proprio in quei giorni 17 anni.
Perchè fosse meglio inteso dagli spettatori, l'Orfeo fu in volgare. E forse spiacque allora al giovine umanista dover piegarsi, oltre all'angustia del tempo, anche a codesta necessità; tanto che poi si doleva, gli amici avessero conservato quell'abbozzo, e, pur assentendo che ormai vivesse, gli volle unita un'epistola a testimonio della sua riluttanza. Vero è che vi aveva cacciato dentro, per amore o piuttosto per forza, almeno una strofe saffica sua, e due distici d'Ovidio accomodati al proposito; ma troppo misero segno era quello della dottrina sua e di latino e di greco! Qualche anno dopo, quando a tutti egli appariva maestro nelle lettere classiche, s'intende invece che non senza un segreto compiacimento concedesse agli amici la favola improvvisata, in quella età e a quel modo, con tanta snellezza ed eleganza di rime. E il compiacimento gli sarebbe stato maggiore se avesse potuto prevedere l'importanza che un tempo si attribuirebbe all'Orfeo, primo esperimento certo di adattare ai metri e alle forme delle sacre rappresentazioni la materia profana. Un palcoscenico, più largo che fondo, diviso, a una certa distanza, da quella che oggi dicesi la ribalta, in due scompartimenti; al modo stesso che oggi vediamo, per esempio, nel Rigoletto; salvo che nel melodramma odierno è da un lato l'interno della casa, e dall'altro la via contigua, mentre nella favola antica le selve della Tracia stavano a ridosso dell'Averno, che gli spettatori dovevano immaginarsi sotterra; dalle selve e dall'Averno si facevano a mano a mano innanzi sul proscenio i personaggi; e supponevasi determinato il luogo dell'azione dallo scompartimento onde essi erano usciti. L'Averno, nel quale si vedevano vivi Plutone re, e Proserpina e Minos e una Furia, e s'intravedevano per artificio di pitture Issione, Sisifo, Tantalo, le Danaidi, Cerbero, le altre Furie, disse subito agli invitati del Gonzaga che l'arte del giovinetto omerico, come lo chiamava il Ficino, li avrebbe tratti nelle fantasie pagane; e la curiosità della festa, con quella novità, dovè accendersi più. Ed ecco, invece dell'Angelo consueto, Mercurio in persona a esporre l'argomento; e dopo lui, quasi a temperar la tristezza delle morti annunziate, un pastore schiavone, cioè trace, suscitare il riso ribadendo l'ammonizione agli uditori in un suo gergo strano:
State tenta, bragata; bono argurio
chè di cievol in terra vien Marcurio.
Ma Aristeo e Mopso, sebbene pastori traci anch'essi, dan principio alla favola ragionando tra loro in rime di squisito eloquio; e Aristeo, perchè il vecchio intenda meglio la forza dell'amore onde è preso, si fa accompagnare da lui sulla zampogna mentre canta una ballata di perfetta toscanità.
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
La bella ninfa è sorda al mio lamento
e 'l suon di nostra fistula non cura:
di ciò si lagna il mio cornuto armento,
nè vuol bagnare il grifo in acqua pura,
nè vuol toccar la tenera verdura;
tanto del suo pastor gl'incresce e dole.
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
Tirsi, servo d'Aristeo, che si vanta di avere ravviato con suo gran rischio nella mandria di Mopso un vitello smarrito, getta un'altra risata nell'azione che si affretta a mal fine per colpa sua; ha vista una donzella coglier fiori, e la descrive bellissima; onde Aristeo riconosce l'amata e ne va in cerca e la insegue. Passano su la scena correndo; poi si ode di dentro alla selva uno strido; un serpe velenoso ha punto la giovine che là cercava nascondersi dall'inseguitore. Turbati così gli animi degli spettatori, il poeta, quasi a intermezzo di svago, fece che s'inoltrasse Orfeo con in mano la lira miracolosa, e accennasse su questa in saffici latini le lodi del cardinale, figlio secondogenito del marchese Lodovico, augurandogli la tiara; il marchese dava la festa, il cardinale l'aveva voluta più bella per l'arte di lui Poliziano: ma l'ode, già nota, credo, a' lodati, ai quali per ciò quell'accenno bastava, era subito interrotta da un pastore:
Crudel novella ti rapporto, Orfeo,
che tua ninfa bellissima è defunta.
E Orfeo, con dolorosi lamenti, andava davanti all'inferno a impetrare gli fosse resa Euridice, mortagli così crudelmente nel voler serbare la fede coniugale.
Nel Convito di Platone si legge un raffronto di alta idealità tra la sorte d'Alceste e quella d'Orfeo. Alceste, osserva Platone, per salvare il marito suo Admeto, volle morire per lui, e gli Dei le concessero il premio di tornare dall'Ade alla luce e all'amore; ma Orfeo gli Dei “senza effetto rinviaron dall'Orco, dopo avergli soltanto mostrato la imagine della donna per la quale v'era disceso; non già gliela resero, chè giudicarono, si fosse comportato vilmente e da citaredo ch'egli era, per ciò che non avesse avuto il coraggio di morir per amore, come Alceste, ma ingegnato a penetrar vivo nell'Ade: e di ciò certamente lo voller punito, facendo ch'e' fosse morto dalle donne„. Che il Poliziano, discepolo del Ficino, rammentasse il Convito, non è improbabile; l'arte a ogni modo gli suggerì un grido almeno, che, rispettando il mito tradizionale, desse alla parlata d'Orfeo più calore di perorazione. Rendetemi Euridice,
e se pur me la nieghi iniqua sorte
io non vo' su tornar, ma chieggio morte!
Proserpina si commuove al lamento di costui genuflesso innanzi a Plutone, al lamento che ha fatti dimentichi i tormentati e i tormentatori dei supplizi infernali; e induce a pietà il marito: Orfeo riavrà Euridice, solo che non si volga a guardarla prima che siano tra i vivi. Ma il citaredo, direbbe Platone, nel cantare a gioia “certi versi allegri che sono d'Ovidio„ dimentica il patto, e perde la donna sua, cui richiede invano, subito spaurito (oh citaredo!), dall'opposizione di una Furia. E peggio fa del lasciarsi atterrire; chè bestemmia (con che ragione? ma la favola portava così) l'amore delle donne, e si propone d'ora in poi farne a meno. Sì che una Baccante non ha torto quando indignata chiama le compagne ad ucciderlo: e fuor dalla vista degli spettatori lo straziano, per recarne in trionfo la testa cantando le lodi di Bacco in una ridda gioiosa.
Ognun segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, eù, oè!
Chi vuol bever, chi vuol bevere,
vegna a bever, vegna qui.
Voi imbottate come pevere.
Io vo' bever ancor mi.
Gli è del vino ancor per ti.
Lassa bever prima a me.
Ognuno segua, Bacco, te!
Bacco, Bacco, eù, oè!
Così, non senza un po' nelle rime di quello schiavone o trace comico da cui aveva prese le mosse, chiudevasi comicamente la festa. Festa drammatica, non dramma vero, e tanto meno tragedia di tipo classico, quale poi altri la volle per altre feste racconciare alla meglio, con accrescerla e distinguerla in atti. Di drammatico non ha l'Orfeo altro che il dialogo, il quale anche vi si leva sempre che può alla lirica: troppo più efficace il contrasto degli affetti e più rude ma viva la voce d'essi, troppo maggiore insomma la commozione del fatto e dello stile, in alcuna delle rappresentazioni sacre di cui la festa profana aveva accettato i metri e le forme. Se non che, pur lasciando da parte la importanza storica che l'Orfeo ha, appunto per essersi valso di esse forme in argomento profano, oh come dolce vi sonava il volgare, lo spregiato volgare, ripetendo sulle intonazioni degli strambotti popolari le immagini elette de' classici greci e latini! Le Muse antiche tenevano un po' il broncio, nel secolo decimo quinto, alla Musa nostra novella, che ne' due secoli innanzi aveva, non certo volendo, minacciato pareggiarle e superarle in bellezza. Virgilio si era soffermato con Dante sulla spiaggia del Purgatorio, dimentico di sè e del discepolo affidatogli, a udire i versi di Dante medesimo, che aveva musicati e ricantava Casella: e le muse di Grecia e di Roma s'indispettivano più, ripensando quell'omaggio che il loro alunno migliore aveva fatto alla Musa d'Italia. Spettava al diciassettenne toscano, che traduceva Omero in latino, la gioia e la gloria del riconciliarle nella festa italiana d'Orfeo: le antiche, non più gelose, abbracciarono finalmente la giovine sorella; e a lei, cogliendo insieme il destro a premiare chi aveva il merito della pace, a lei promisero splendidi doni: le Stanze del Poliziano stesso, o l'Orlando Furioso di Lodovico Ariosto.
III
Intonazione popolare, ho detto, e immagini classiche. Sì fatta mistura non poteva riuscir felice, prima che ne fossero separatamente manipolati e affinati gli elementi; e per ciò neppure al Boccaccio, che la tentò ne' poemi, accadde d'ottenerla, se non forse qua e là nel Ninfale fiesolano. Ma i prosecutori dell'opera sua di umanista e di poeta, avevano, dagli ultimi decennii del trecento in poi, quali studiata l'arte su gli antichi, quali invece teso l'orecchio alle canzoni del popolo, quali anche coltivato insieme le canzoni e gli studii. Onde Franco Sacchetti, così schietto popolarmente e grazioso nelle ballate e ne' madrigali che rime sue furono poi attribuite al Poliziano; onde Leonardo Dati, che tenta dottamente in volgare una tragedia a uso Seneca, e in volgare sperimenta, dopo l'endecasillabo già scioltosi dalla rima per imitazione de' latini, il verso esametro e il saffico; onde Leonardo Giustinian, che parla in greco all'imperatore di Costantinopoli, recita in pubblico orazioni latine, e insegna ai liuti veneziani i più cari strambotti, le più dolci canzonette che fossero mai state ascoltate da belle innamorate e da allegri compagni. E, passando da liuto a liuto, da bocca a bocca, queste canzonette veneziane o giustiniane, come le dicevano, scesero giù per l'Italia; e Firenze, correggendole alla parlata toscana, cioè alla lingua nostra letteraria, le fe' sue. Quando il Giustinian morì, che fu nel 1446, la poesia del popolo aveva dunque trovati cultori insigni a raggentilirla; e a Luigi Pulci, nato nel '32, a Lorenzo de' Medici, nato nel '48, e al Poliziano, non mancavano dunque gl'incitamenti e gli esempii a perseverare e a compiere l'impresa leggiadra. D'altra parte, l'imitazione de' classici aveva anche essa progredito; anzi, era giunta allo sforzo ed alla goffaggine; non tanto, a parer mio, in quei metri del Dati che oggi diciamo barbari, quanto nell'abuso dei vocaboli e dei costrutti latini e delle erudizioni mitologiche e storiche alla pedantesca.
Il poeta dell'Orfeo, che aveva cominciato dagli studii del latino e del greco, vedeva accanto a sè, nel palazzo Mediceo, Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, scrivere laudi a uso del popolo, e Lorenzo piacersi a scrivere sacre rappresentazioni e laudi anche lui, e insieme canzoni a ballo e canti carnascialeschi; udiva Luigi Pulci, per desiderio di madonna Lucrezia, racconciare nel Morgante a stile fiorentinescamente snello e a racconto maliziosamente arguto le rozze storie d'un rimatore plebeo. Provatosi così bene al volgare nella favola mantovana, è da credere che allora, in quella brigata di cui ho detto soltanto i nomi più illustri, tra l'ammirare e il ridere e il dar suggerimenti, meglio si esercitasse nelle rime dei rispetti e delle ballatine, quasi a sollievo dalla versione dell'Iliade e dall'erudizione che accumulava portentosa. E perchè quel rimare gli era un sollievo, non fa meraviglia che si astenesse dagli argomenti e dai metri più alti e più laboriosi, la canzone e il sonetto: di canzoni, una sola ne ha, a imitazione del Petrarca; di sonetti, a quel che sembra, neppure uno; di sirventesi, che era metro popolare, ma troppo soleva andare per le lunghe, non più che uno, prenunziante la prima scena dell'Aminta, in servigio di Giuliano de' Medici, per conto del quale, da coetaneo e amico, scrisse altri versi d'amore. Le ottave dei rispetti, le strofette delle ballate, non chiedevano alla facilità e grazia dell'ingegno e della penna che pochi quarti d'ora, tra la lettura di due codici, la versione di due episodii, e, un po' più tardi, tra una lezione e l'altra a Piero, primogenito di Lorenzo, e a Giovanni.
I sospiri, i dispetti, i vanti, le disperazioni, le maledizioni degli innamorati, le immaginette rusticali e primaverili, gli scherzi e le mariolerie fiorentine, le novellette e le satire, ebber vita così negli accenti variamente affettuosi, gai, rabbiosi di quelle brevi poesie: un mazzo che sopra è di rose fragranti e sotto di spine pungenti. Il Poliziano era di sua natura epigrammatico, nel senso antico della voce; spesso, scrivendo agli amici, se la godeva di sbrigarsene con poche parole: – Ti lamenti che non ti rispondo: non ti lamentar più; t'ho bell'e risposto. – Gran dispiacere, gran piacere ho avuto, della tua malattia, della tua guarigione. – Siete in parecchi a chiedere che vi scriva: ecco fatto: lettera unica, perchè vi amo unicamente; ma le saranno più lettere, poi che a leggerla sarete in parecchi. – Figuratevi poi, con la scaltra lingua toscana, e al bisogno col gergo fiorentino, col verso, con le rime, in argomenti adatti, ammaestrando le donne ad acquistarsi e a mantenersi gli amanti, narrando le sue buone venture e sventure amorose, vituperando una vecchiaccia sfacciata, toccando insomma quasi tutte le corde dell'antica lirica popolare.
Donne mie, voi non sapete
ch'i' ho el mal ch'avea quel prete.
Fu un prete (questa è vera)
ch'avea morto el porcellino.
Ben sapete che una sera
gliel rubò un contadino
ch'era quivi suo vicino;
(altri dice suo compare):
poi s'andò a confessare,
e contò del porco al prete.
El messer se ne voleva
pure andare alla ragione:
ma pensò che non poteva,
chè l'aveva in confessione.
Dicea poi tra Le persone:
– Ohimè, ch'i' ho un male
ch'io nol posso dire avale. —
Et anch'io ho il mal del prete.
Tra queste malizie il sentimento della vita e della natura, caldo, giulivo, libero, sì da effondersi talvolta in rime che sembrano scheggiare i canti goliardici. Ma qui anche meno abbisognan gli esempii. Chi non sa i conforti ad amare che la fanciulla dà alle compagne?
Quando la rosa ogni sua foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicchè, fanciulle, mentre è più fiorita
cogliàn la bella rosa del giardino.
E chi non sa il canto pel rinnovamento della primavera che Firenze, la città della primavera, salutava con feste? Non eran più, nel quattrocento, le laute accoglienze di che narra il Villani, corti coperte di drappi e zendali, e desinari e cene; ma le schiere de' giovani correvano ancora la città agitando i ramoscelli in fiore, le frondi verdi, i gonfaloni selvaggi.
Ben venga maggio
e 'l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera
che vuol l'uom s'innamori.
E voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli;
chè le fiere e gli uccelli
ardon d'amore il maggio.
Ma non c'indugi la dolcezza de' suoni. Nel gennaio del 75, Giuliano de' Medici trionfò in una di quelle giostre che porgevano a' signori l'occasione di ostentare lor valentia cavalcando e armeggiando; spettacolo pomposo e gradito al popolo. Il fratello maggiore, Lorenzo, si era meritato, sette anni innanzi, il premio in una giostra consimile, di cui avea celebrate le gesta e l'eroe, con un poemetto, Luigi Pulci, come si usava sì per le giostre, sì pel giuoco del calcio, sì per altri sollazzi, dai cantastorie; i quali compievano, dati i tempi, l'officio de' cronisti ne' nostri giornali, non so con quanto più di verità, certo con più fatica, perchè le fandonie le strimpellavano in rima. Anche questo genere era dunque ormai caro a' poeti d'arte: se non che il Pulci, come nel Morgante, così nella Giostra, lo aveva accettato, almeno per le apparenze, tal quale, dilettandosi nella parte finta del cantimpanca o d'un suo inspiratore; tanto che diceva dover chiudere il racconto
perchè il compar, mentre ch'io scrivo, aspetta
ed ha già in punto la sua violetta.
Sapete che il compare aspettava nientemeno che dal 69? ed egli smise di scrivere soltanto allora che si preparava la giostra del 75, in cui spettava a Giuliano il trionfare. Poco più sollecito ma più elegante poeta ebbe questi: poco più sollecito, perchè, se ci pensò prima, e se forse qualcosa ne abbozzò, il Poliziano non si pose a stendere il poema ordinatamente che dopo trascorso un anno dalla giostra. In compenso non cantò le armi soltanto; cantò, più che le armi, gli amori.
Giuliano, che nella tela del Botticelli spira, giovenilmente pensoso, una dolce mestizia, era innamorato, cavallerescamente e platonicamente, com'era la moda, di quella Simonetta Cattaneo, moglie a un Vespucci, che Piero di Cosimo, o altri, dipinse esilmente gentile. Ma la Vespucci visse, dopo la giostra, pochi mesi più. Nell'aprile del 1476, scriveva di lei a Lorenzo un amico ponendola accanto alla Laura del Petrarca: “La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso, come so harete inteso: puossi ben dire che sia stato il secondo trionfo della Morte; chè veramente havendola voi vista così morta, come la era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fusse in vita: requiescat in pace.„ Lorenzo stesso la pianse in versi; e il Poliziano, già interprete de' sospiri amorosi, ebbe a far distici sulle esequie, co' pensieri che Giuliano gli suggerì. Allora il racconto della giostra dove Giuliano si era cavallerescamente adoperato per amore e onore di lei, si allargò nella mente del poeta e comprese in sè anche la storia di quell'amore. Il genere popolano delle narrazioni in ottava rima di giuochi e apparati, venuto nelle mani d'uno scrittore geniale come il Pulci, passava pertanto da quelle di lui a più squisito artefice, e da questo era volto alla imitazione de' carmi encomiastici antichi; non altrimenti che i racconti romanzeschi, proprio in quelli anni, salivano dalla piazza al palazzo per opera del Pulci medesimo, ed erano da Matteo Maria Boiardo, traduttore d'Erodoto, avviati sulla imitazione de' poemi classici. Ove per altro conviene aggiungere che il Boiardo fu grande poeta, e nel calore dell'invenzione fuse stupendamente l'antico e il moderno in un metallo nuovo; il Poliziano fu grande artista, e nell'agevolezza dell'esecuzione compose dell'antico e del moderno un mirabile mosaico: all'uno mancò l'eleganza della lingua e dello stile, all'altro la virtù delle alte concezioni: l'uno e l'altro erano necessarii a preparare Lodovico Ariosto, poeta ed artista grande.
Ho detto con ciò il difetto e il pregio delle Stanze per la giostra: il difetto è nel disegno generale, il pregio è nel disegno e nell'esecuzione dei particolari. Come fare un poema degli amori cortesi e delle armi cortesi di Giuliano? Ecco il modo. Julio, figlio della etrusca Leda, cioè a dire Giuliano figlio della Tornabuoni, sdegnava d'amare: Cupido volle che amasse, e in una caccia gli fece apparire una cerva bellissima; la quale, trattolo via dalla brigata de' compagni, disparve: ma al giovine non ne importava più, perchè si vedeva innanzi una donna troppo più bella della cerva bellissima: la Simonetta. Inutile dire che se ne innamora, e Cupido torna tutto lieto alla madre Venere. Fin qui il primo libro. Nel secondo, i vanti di Cupido per la vittoria, buona occasione alle lodi della casa medicea: il racconto di un sogno che Venere manda a Julio, perchè si accenda a mostrare all'amata la sua bravura in una giostra, sebbene egli abbia da quel sogno stesso il prognostico della prossima morte di lei; e la preghiera di Julio a Pallade, a Venere, a Cupido, che lo aiutino nell'impresa della gloria e dell'amore. E qui il poema, come il monumento che Michelangelo scolpì a' due fratelli Medici, rimase interrotto. Perchè? Il 26 aprile 1478, una domenica mattina, nella chiesa di Santa Maria del Fiore frequente di popolo, subito che il sacerdote nel celebrare la messa si fu comunicato, Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini si strinsero addosso a Giuliano co' pugnali e l'uccisero: Lorenzo ebbe tempo a trarre lo stocco e, ferito nella gola, difendersi e riparare nella sagrestia. Il colpo era andato a vuoto; Firenze restava ai Medici. Ma Giuliano giaceva morto; e dopo quella tragedia non si potevano più fiorire di rime le sue venture per una giostra bandita a diletto. Il poeta si mutò in istorico, e narrò in latino, a mo' di Sallustio, la congiura de' Pazzi.
Altri osservò: se il poema rimase a mezzo, fu, anzi che un danno, un vantaggio alla fama dell'autore: andando innanzi, egli avrebbe dovuto descrivere vesti, cavalli, armeggiamenti; e già nel secondo libro la poesia scade; in più libri, il tedio sarebbe cresciuto; quel panegirico sarebbe stato letto da' soli eruditi. Io non mi lascio consolare così facilmente. Ammettiamo pure che le Stanze avessero a crescere, pel compimento del secondo e per l'aggiunta d'un terzo libro, che è quanto di più si possa immaginare, di un'altra metà: il disegno generale non si sarebbe sottratto, certo, da giuste censure; ma non gli si muovono a ogni modo, giudicandone dal frammento? e gli episodii ci avrebbero date bellezze, se non maggiori, pari a quelle che nel frammento ammiriamo.
Non le rammenterò. Le lodi della vita rustica, la caccia, la Simonetta, il regno di Venere, gl'intagli della porta nella reggia di lei, l'albergo del Sonno, sono, a tratti almeno, in tutte le antologie, sono, a tratti almeno, in tutte le memorie. La giostra non è più che un pretesto: sembra che il Poliziano prometta di guidarvi a goderne lo spettacolo, soltanto per aver modo di farvi ammirare, così senza parere, d'una in un'altra galleria, la sua meravigliosa raccolta di quadri e di statue. Sono i tempi de' bronzi di Lorenzo Ghiberti, delle terre cotte di Luca della Robbia, dei marmi di Donatello, degli affreschi di Filippino Lippi, delle tele di Sandro Botticelli; e l'arte di tutti costoro si riflette nello specchio finissimo di quelle ottave, che suonano e creano, secondo il precetto, da molti franteso, del Foscolo, il quale più d'una somiglianza ebbe col Poliziano negl'intendimenti e ne' modi dell'arte: suonano, cioè, varie, fluide, eleganti; creano immagini adatte alla plastica e ai colori. Dopo Dante, nessuno aveva posta nel verso tanta efficacia di rappresentazione: nessuno ancora aveva saputo nell'ottava rima alternare, con tanta accortezza di pause e di accenti, di piani e di sdruccioli, il forte col tenue, il dolce con l'aspro. Il primato della lingua letteraria, come da Leon Battista Alberti, sebbene con importanza minore d'assai, per la prosa, così dal Poliziano era riconfermato alla Toscana per la poesia: dopo le Stanze per la giostra, l'Orlando innamorato doveva di necessità essere offuscato dalla fama del prosecutore che chiese alle labbra di una fiorentina la grazia dei baci e le grazie del nostro volgare; e doveva per ciò di necessità piegarsi, per rivaleggiare col Furioso, al rifacimento toscano di Francesco Berni.
La notte che le cose ci nasconde
tornava ombrata di stellato ammanto:
e l'usignuol sotto le amate fronde
cantando ripetea l'antico pianto;
ma solo a' suoi lamenti eco risponde,
ch'ogn'altro augel quetato avea già il canto:
dalla cimmeria valle uscian le torme
de' sogni negri con diverse forme.
Lingua, stile, metro erano ormai perfetti, e compiuta l'assimiliazione dell'arte classica nella medievale, per opera di quel giovane da Montepulciano che tendendo nelle campagne l'orecchio alle canzoni del popolo “beccava per tutta la via di qualche rappresaglia e canzone di Calen di maggio„, e leggeva a diletto i nostri migliori, e poi, nel silenzio del suo studio, meditava i testi dei greci e dei latini.