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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte II», sayfa 3

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SILVIO PELLICO

CONFERENZA
DI
AUGUSTO ALFANI

Signore, Signori,

La figura soave di Silvio Pellico, e il dover io parlarvi di lui, mi fa desiderar più che mai la virtù di quei finissimi artisti della parola, che nelle opere loro sanno come trasfonder se stessi, e si manifestano insigni pittori di ingegni e di animi, per l'invidiato segreto delle caste linee e dei fedeli contorni, e per la magica arte della armonia fra l'omaggio riverente alla verità della storia e l'abbandono del genio ai voli arditi dell'estro.

Di Silvio Pellico, così grande nella sua umiltà, e la cui vita fu un amore costante, un infinito dolore, avrei potuto allora delinearvi la immagine con mano sicura di storico, con intelletto innamorato di artista; mentre, invece, non possedendo io quella dottrina e quell'arte, dovrò a voi parlarne unicamente col cuore; procurando piuttosto di cogliere fiori (ed oh potessi coglierli tutti!) da quanti più degnamente scrisser di Silvio, per intesserne una corona, da deporre con voi sulla tomba del martire.

* * *

E Silvio Pellico fu martire veramente. Dal 25 giugno del 1789, in cui vide in Saluzzo la luce, al 31 gennaio 1854, in cui la sua nobile vita si spense in Torino, le nubi del dolore velarono costantemente i suoi giorni; ma il cielo di quell'anima, al di sopra di quelle nubi, si mantenne inalterabilmente sereno, perchè sempre vi rifulse il sole della giustizia, l'astro benefico della fede, il raggio fecondo di amore. I suoi martirj suscitarono i primi palpiti della nostra giovinezza, e, pur cresciuti negli anni, li riandammo pietosamente; come le avventure di Erminia rinarra anche oggi, coi versi del pio Torquato, alle solitudini dei nostri monti il canto commosso dei nostri pastori.

La vita del Pellico, fra le vite di coloro che maggiormente operarono al risorgimento d'Italia, è una delle più note, non solo fra noi, ma fors'anco in Europa. Il libro delle Prigioni, tradotto in ogni lingua di popol civile, fu uno dei primissimi libri, su cui apprendemmo a meditare e a soffrire; il secondo, sul quale imparammo ad amare ed a piangere; poichè il primo libro, che a noi tutti insegnava questi due sospiri dell'anima, fu il santo cuore materno. Il cuore materno! Ecco, Signori, il principal fondamento al carattere e all'eroismo di Silvio Pellico. Educato in una famiglia di costumi patriarcali e patriottici, ebbe fin dalla sua fanciullezza a sperimentare quanto fossero duri i casi della politica; perchè alla caduta della Monarchia piemontese avevano i Pellico dovuto rifugiarsi sull'Alpi, per non subire le prepotenze di quella strana specie di liberali, che, secondo il loro costume, non consentono agli altri il diritto di pensarla diversamente da loro. E in quei tristi giorni conobbe Silvio anche meglio quale tesoro di virtù si accogliesse nel cuor di sua madre, in cui pareva tutta adunarsi la virtù di quel popolo di Savoia dond'ella veniva. Ai numerosi figliuoli fu coll'integro marito maestra, non solo nei rudimenti della cultura, ma nei buoni principi del vivere, e negli esempj migliori; soprattutto nelle lezioni della sventura, e in quella dignità onde all'uomo di cuore è mestieri di sostenerla.

Ma, tanto felice nei parenti, fu Silvio altrettanto infelice nella salute; e qui appunto la materna sollecitudine si trovò nel suo regno, ed egli vide quell'angelo di carità assisterlo nelle lunghe tormentose agonie, e, con industrie che solo indovina una madre, strapparlo alla morte, disperato dai medici. Così il concetto di questa donna crebbe ognora più nel suo spirito, come la sua gratitudine; e la riverenza filiale, che in lui rivestì le forme più delicate e gentili, dovè essere la tutrice e la guida di tutti i suoi atti, ed esercitare sull'animo suo una costante efficacia.

* * *

L'ingegno del Pellico si rivelava sin dai primissimi anni. Toccava appena i due lustri, e già componeva una tragedia: componimento puerile, abbozzato, scorretto, ma che poteva bastare a far in lui presagire il futuro scrittore dell'Erodiade, della Gismonda e della Francesca da Rimini.

Continuando a studiare sotto la guida del buon Manavella in Torino, dove la famiglia si era, per ragione dell'ufficio paterno, condotta, recitava Silvio co' suoi fratelli e con altri fanciulli commediole, che il buon padre dettava per essi, non senza accento di arte e di verità. Nella piccola Compagnia del teatrino domestico era una fanciullina, Carlotta. La ingenuità delle grazie, la semplicità degli atti, la leggiadria del verginale costume s'impadroniscono del cuore appassionato di Silvio. Già gli splendeva una immagine di donna, tutta affetto e virtù, maestra e consigliera della vita; un'altra gli si affacciava ora di donna, che in voi si trasforma, e che, padrona e schiava del vostro cuore, sorride al vostro destino, ch'è il suo.

Perchè il Pellico era nato ad amare; e in ogni sua opera, infatti, dei due elementi artistici, il cuore e l'intelletto, il primo sempre e assolutamente prevale. E come il suo cuore palpita di ammirazione e di amore per questa creatura divina, la donna, così per lui nella donna s'impersona la stessa bontà, che è il suo ideale; tanto, o Signori, che egli vi creerà persino una Francesca senza peccato, perchè vuole che l'ideale della donna non mai impallidisca o si offuschi. E questo culto della donna (del quale in Silvio la viva predilezione pei fiori è un delicato riflesso) fu in lui, non soltanto compiacimento d'animo aperto al senso della bellezza, ma istinto altresì di un cuore innamorato del bene.

La morte, però, troncava questo suo primo amore nascente: la sua Carlottina si spengeva a 15 anni; e se la fede darà a lui la rassegnazione, non potrà ministrargli l'oblio; onde la memoria di questo amore andrà pur essa con altre care memorie a visitare più tardi il povero prigioniero, e l'occuperà malinconicamente; e nell'anniversario della morte di lei, come il Maroncelli ne attesta, una preghiera più fervida dell'usato dirigerà Silvio a questa eletta creatura, che egli già vagheggia beata.

E quando, trascorsi alcuni anni da questo primo amore infelice, sul punto di affrontare i dolori e le gioie dell'arte, s'incontra nella celebre attrice Marchionni, e scorge crescerle al fianco, delicatissimo fiore, la sorellina Teresa; il poeta osa sognare un'altra volta un futuro conforto, e con l'onesta fanciulla s'illude, incominciando corrispondenza di affetti. Ma indi a poco sente addensarsi la procella sul capo, e anche questo nodo è costretto ad infrangere; e in una lettera, che fu l'ultima, a lei, «Compiangimi, mia buona amica (le scrive), io non sarò mai felice. Ogni speranza di bello avvenire svanisce; e quanto più mi vedo nella impossibilità di superare i crudeli decreti che mi dividon da te, tanto più sento che t'amo, e che senza te la mia vita non ha che amarezza.» Queste parole scriveva dal lago di Como la mattina del 13 ottobre 1820, e poche ore appresso in quel medesimo giorno, venuto Silvio a Milano, era, o Signori, arrestato.

* * *

Ma non precorriamo gli avvenimenti, e quantunque, ripeto, notissimi, non mi sappiate mal grado se io debbo qui, almeno fugacemente, riandarli.

Come Alessandro Manzoni, così il Pellico bevve alle sorgenti del dubbio, segnatamente per le suggestioni sinistre di un frate apostata, nella dimora sua di 4 anni a Lione, presso uno zio della madre, e dove diedesi tutto allo studio della letteratura francese. Ma, come il Manzoni, così il Pellico tornò presto a coscienza; e nel 1806 si sentì ricondotto alle dolci memorie della prima età, e restituito d'un tratto al culto dei nostri classici.

Il genio italico aveva sfolgorato novamente di luce sua propria: il Vico, il Galvani, il Volta, il Beccaria, ed altri sommi, maravigliavano il mondo; sorgevano i due grandi banditori di libertà e di civili virtù, il Parini e l'Alfieri, e si traevano dietro una schiera di valorosi, tra i quali Ugo Foscolo, che pubblicava I Sepolcri. E questo carme sublime parlò con accento ineffabile alla mente di Silvio sulle piagge fiorite della Saona e del Rodano; da quell'istante i suoi studj prendono un nuovo andamento, e risolve di tornare in Italia; vola, infatti, a Milano, dove allora si trova la sua famiglia, e dov'egli può meglio compiere la sua educazione letteraria; divien professore di francese nel Collegio degli Orfani militari, e consacra il resto della giornata alle opere dell'ingegno; conosce il Monti ed il Foscolo, ammira ed ama entrambi, ma il secondo con tutta l'anima sua.

Parrebbe che tra queste due così opposte nature (il Pellico e il Foscolo) non si dovesse dare che ripulsa e contrasto; eppure, la dolce mitezza del primo si stringe in maniera indissolubile alla energia violenta dell'altro, e vi cerca tutela, esempio, conforto dell'animo, bisognoso di confidare, di ammirare, di amare! Que' due cuori così dissimili univa fortemente, però, quasi fossero un unico cuore, carità di patria, sdegno di oppressione, sacro ufficio di lettere, e, sotto ai dubbj dell'uno ed alla fede dell'altro, uguale aspirazione ai più elevati ideali. E questo influsso del Foscolo sulla mente del Pellico è attestato fin anco dallo stile delle sue lettere; stile alto, nobilissimo sempre ed in tutte; ma in quelle scritte all'amico, pur tumido talora, e vibrato, ed a sbalzi, che palesa lo studio del modello, e quasi l'afflato di lui.

E le frasi fervorose, e gli sfoghi caldissimi, in cui si traduce la quasi idolatria per il Foscolo, vi s'incontrerebbero ancor più frequenti, se negli anni maturi la mano stessa del Pellico non gli avesse temperati o soppressi. Non che egli punto rinneghi o scemi l'affetto al primo e maggior de' suoi amici; questo affetto, anzi, si afforza, si affina, si fa, coll'affinarsi, più intenso, più tenero, più operoso, fino alla morte del Foscolo; ma vuole il Pellico, nell'interesse del vero, moderata quella cieca ammirazione in tutto, e quelli che a lui sembrano eccessivi entusiasmi; e nella lettera all'egregio ordinatore dell'Epistolario Foscoliano segna ad uno ad uno i passi da sopprimere, le frasi da temperare. Fra le prime lettere ad Ugo, e questa che ne vuole emendato in alcune parti il tenore, sta intera, per così dire, la vita del Pellico; e chi ben guardi, si persuade come questa, che parve in lui contradizione od abdicazione, sia stata, invece, effetto naturale dello svolgimento dell'animo suo. Alcune lettere, inedite e veramente preziose, di Silvio alla Quirina Magiotti, la Donna gentile del Foscolo, e che parlano con traboccante ma sereno affetto dell'amico comune, ne sono eloquente conferma: e non bisogna dimenticare che, se ella soccorse nascostamente, con mano generosa, agli infortuni del Foscolo, comprandone i libri, e a lui, ignaro dell'artificio, facendoli poi restituire, fu appunto il Pellico l'esecutore delicato e segreto di questo atto pietoso; mentre egli in queste lettere alla Quirina e nei Canti attesta e proclama di Ugo Foscolo le virtù alte e magnanime, e, uscito dal carcere, rimpiange di non aver ceduto, quand'era tempo, agli inviti fraterni di lui, allorchè dalla Svizzera lo chiamava con sè, dicendo il buon Silvio che, se avesse accolto l'invito, avrebbe cansato tanti dolori, e non sarebbe invecchiato nei ferri.

Ma quando il Foscolo sollecitava l'amico (anche per mezzo della Donna gentile) a raggiungerlo, questi dalla sua cattedra di francese era passato istitutore del Briche, giovinetto baldo, di raro ingegno, che indi a poco miseramente periva, e poi, nel 1816, dei due carissimi figli del conte Luigi Porro, famiglia di alto sentire, amica al Pellico generosa e di rara costanza pur nei pericoli, e alla quale egli, in ricambio, dedicò tutto se stesso e per sempre.

* * *

La missione dell'educare, del resto, fu per Silvio sacerdozio di libertà. Anima grande, non poteva restarsene indifferente alla causa dell'educazione nazionale, dalla quale allora più che mai dipendevano le sorti d'Italia; e a quella, infatti, consacrava il Pellico, con la persona, il genio e la penna: da tutti quanti i suoi scritti, in prosa ed in verso, le Prigioni e i Doveri, le Tragedie e le Cantiche spirando sempre un magistero altissimo educativo.

E poichè ho ricordato qui le Tragedie, giova pur rammentare come già nel 1811, mentre Ugo Foscolo era ancora in Milano, comparsa su quelle scene la giovane a cui accennavo testè, la Marchionni, la quale doveva essere la più applaudita attrice del tempo suo, e conseguire trionfi che difficilmente saranno poi superati, il Pellico ne aveva tratta ispirazione per volgere in forma drammatica la scena terribilmente pietosa di Francesca e di Paolo. E nonostante che il Foscolo, al quale come a maestro ebbe Silvio mostrata la sua tragedia, uscisse nella nota sentenza: «Non revochiamo d'inferno i dannati danteschi, farebbero ai vivi paura», il Pellico questa volta disobbedì, e fu disobbedienza felice. La Francesca da Rimini riuscì una delle tragedie più popolari del teatro italiano, destando ovunque un entusiasmo che mal si descrive; e lord Byron la traduceva mirabilmente in tre giorni, mentre il Pellico, in argomento di gratitudine, ne volgeva nell'idioma nostro il Manfredo.

* * *

Tramontava intanto, o Signori, la stella del Bonaparte, e l'Austria ribadiva i ceppi all'Italia, le imponeva silenzio, la ingombrava di delatori. La famiglia del Pellico era costretta a far ritorno da Milano a Torino; ma Silvio, pur misurati i pericoli, volle restare colà, e prodigo della libertà sua e della vita, propugnare la libertà ed il diritto della sua vilipesa Nazione.

Nella casa liberalmente ospitale del conte Porro, egli conobbe e prese ad amare gli uomini più valenti di quell'età memoranda; quei letterati e quei patriotti del ventuno, i più dei quali dovevano cader vittime della gelosa polizia imperiale: schiera di generosi, rappresentante il genio italiano contro i dispotismi dell'Austria; una letteratura nuova, la quale studiava d'immedesimarsi nei bisogni e nelle idee popolari, nel sentimento nazionale, e diventare sapienza civile e politica. Non era quella, o Signori, una setta; era l'Italia, che per essi anelava alla sua propria emancipazione.

«E Silvio Pellico, esile, malaticcio, balzato, ciò nondimeno, in mezzo alle battaglie del pensiero più fervido, in mezzo a tanta operosità civile, destinata a qualificare un'età, sente ingagliardirsi le forze; e fatto quasi maggior di se stesso, vince la debolezza della sua fibra, sorge, ed incalza alla pari degl'ingegni più audaci. La corrente di quelle idee lo trasporta; gli uomini, fra cui vive, lo infiammano dei loro ardori; la sua indole generosa e fidente nel bene lo spinge a correre quelle vie, che danno speranza di conseguirlo.»

E così, quel movimento letterario, iniziato negli ultimi anni del Regno Italico, facendosi ognora più vive le idee che lo fecondavano, ebbe manifestazione formale in quel foglio azzurro, nelle apparenze modesto, e pur fecondo di patria grandezza, Il Conciliatore, che usciva in Milano il 3 di settembre del 1818.

L'Austria, però, vedendo per questo Foglio prodursi quelle idee, e diffondersi quei sentimenti, che soli risollevan lo spirito abbattuto di un popolo, non potè non entrare in sospetto, e lo qualificò per congiura; ma, a non parere nemica di civiltà, non osò proibirne sul momento la pubblicazione; si contentò da principio di mutilarne spietatamente gli scritti, e con fiscali perifrasi far sentire a quegli scrittori che il Conciliatore, per vivere, non doveva, in sostanza, dir nulla.

Ai nobili intenti di quel Periodico, che si disse romantico, ma che fu altresì nazionale, rispose con plauso l'Italia, di cui sosteneva la dignità ed il diritto: e quantunque non potesse pubblicare che 118 numeri, nè durare che poco oltre un anno, recò più tardi i suoi frutti, pagati pur troppo a peso di catena e a prezzo di sangue, ma frutti preziosi: la indipendenza di un popolo, la vita libera di una nazione.

Giovandosi dello spionaggio più scaltro e più ignobile, la Polizia misurava i passi, pesava ogni parola, coglieva ogni respiro di quegli animosi, mentre si preparavan prigioni, e si allestivan patiboli. Si sospettava dall'Austria che il Porro, il Confalonieri, ed altri molti, forse per mezzo del Pellico piemontese, fossero in segreti rapporti coi Carbonari del Piemonte, e che per essi si stendesser le fila di una vasta cospirazione, con a centro il Conciliatore, di cui era il Pellico segretario. Ond'è naturale che su di lui, più ancora che sopra gli altri, gravassero i sospetti del governo e de' suoi delatori. Un viaggio, in quei giorni, di Silvio, prima a Torino per assistere il suo amico De Brême moribondo, poi a Venezia col Conte Porro, accrebbe i timori dell'Austria; la quale, risoluta di soffocare ogni aspirazione di libertà sotto qualunque forma si palesasse, sopprimeva a un tratto il Conciliatore, e incominciava gli arresti de' suoi principali collaboratori e aderenti, sotto la imputazione di Carbonarismo.

* * *

Silvio Pellico intanto, tornato da Venezia, ripara nei pressi di Como, dove la prudenza affettuosa del Conte Porro lo ha tratto.

Ma appreso che Piero Maroncelli è arrestato, e che altri ancora son ricercati, vuol tornare a Milano, per salvare, potendo, l'amico, per parteciparne, se occorra, la sorte.

Vi giunge: uno sconosciuto lo incontra, gli si avvicina, gli sussurra alle orecchie: «La polizia vi cerca.» «Sa dove sto» egli risponde; «vo ad aspettarla.» Ci va; è, invece, aspettato. Non salva l'amico; si perde generosamente con lui. Sequestrata ogni carta, è condotto a Santa Margherita, ov'egli entra ripetendo a sè e a' carcerieri:

 
Non v'ha sbarra, nè catena,
Che lo spirto mio rinserri;
Per la mente non vi ha ferri,
Sua natura è libertà.
 

Che vile e che feroce procedura sia stata quella, è inutile qui ricordare. Negl'interrogatorj nega il Pellico la ribellione; nessuna astuzia gli strappa una confessione qualsiasi; sè e gli amici difende sagace, scagiona sereno; mentre ogni suo dolce sogno, di uomo, di educatore, di poeta, di cittadino, si dilegua ad un tratto nel triste pellegrinaggio da Santa Margherita ai Piombi, dai Piombi a San Michele, da San Michele allo Spielberg.

Dopo 16 mesi, che parvero anni, di giudiciali torture, su Silvio Pellico, accusato di carboneria quantunque non carbonaro, come egli stesso apertamente dichiara, scoppia la capitale condanna, commutata in 15 anni, e poi in 10, di carcere duro: la clemenza imperiale lascia a Silvio la vita, ma gli schiude una tomba. Non più uomo, ma cosa, ma numero; la fame, il lavoro forzato, umiliante: ai piedi la catena; a riposo una tavola; conteso, finchè arrivi potestà di tiranno, il pensiero; la parola ristretta; conforto di luce negato, carità d'uomo punita… Questo decenne martirio, dopo Le mie Prigioni, non si racconterà, o miei Signori, mai più.

* * *

L'abbiamo tutti nella memoria del cuore quel libro; ogni descrizione, ogni fatto, ogni minuto particolare vive, può dirsi, dinanzi alla nostra immaginazione, ed ognor ci commuove: l'arresto; il pensiero del Pellico alla famiglia lontana, percossa improvvisamente dall'annunzio tremendo; i conforti della sua fede; le riflessioni malinconiche, le forti risoluzioni; la dolce compagnia del povero mutolino, di cui egli si fa educatore; lo studio incessante a ricostituirsi comunque una società, vogliam pure con una tribù di formiche o con un docile ragno; la vista di Melchiorre Gioia, e i loro cenni scambievoli che nulla dicono, ma che esprimono tutto, come quelli di due innamorati, perchè il cuore li suggerisce ed il cuore gli spiega; la flebile voce dell'incognita Maddalena, che rompe il silenzio del tristissimo asilo, e il cui ritmo va morendo per l'aria. Ma egli ne raccoglie con ebbrezza la fuggente armonia; e come la canzone si leva immacolata in mezzo ai turpi lazzi che tentano soffocarla, così egli immagina che quella infelice, la quale sa così dolcemente cantare, si levi fra le altre prigioniere per un ultimo candore sopravvissuto, se la dipinge bella, la desidera buona, nata per la virtù, purificata dal pentimento, ed accoglie, povero Silvio, come rivolta a se stesso, la soave pietà di quel canto!

E poi le visite del padre adorato e le misere illusioni dell'amore paterno: le torture del figlio nel pietosamente ingannarlo, col sorriso della speranza sul labbro, col pianto della disperazione nel cuore; la triste partenza sua da Milano; l'arrivo a Venezia: i Piombi; le insonnie angosciose, le tentazioni suicide, il ritorno alla calma! E chi non ricorda con tenerezza il dolce episodio della povera Zanze? A chi non risuonano ancora simpatiche le confidenze della giovane a Silvio, risguardato da lei come padre o come fratello, a sua scelta? e gli sfoghi dei suoi crucci d'innamorata? e il prendergli spesso, e quasi per forza, la mano, e stringergliela con affetto, mentr'egli dice fra sè: «Fortuna che non è una bellezza!»? Ma tosto si pente di averla giudicata bruttina, e, ripensandoci meglio, la trova, anzi, attraente; e confessa da ultimo che non se n'è innamorato perchè essa ha già un altro amante, del quale va pazza: cosicchè, al replicato ingenuo abbandonarsi di lei nelle braccia di Silvio, egli ne è sconcertato, e ne la rimprovera come di cosa che non sta bene. E quando essa, quasi per giuoco infantile, prende la Bibbia che Silvio ha con sè, l'apre, ne bacia a caso un versetto, gli chiede che glielo traduca e commenti, e gli soggiunge: «Vorrei che ogni volta rileggerà questo versetto, si ricordasse che vi ho impresso un bacio;» il nostro Pellico si trova spesso, come traduttore, in non lieve imbarazzo, non sempre invero quei baci cadendo a proposito, massimamente se alla Zanze è capitato di aprire il Cantico dei Cantici. Allora, per non farla arrossire, profitta della ignoranza di lei nel latino, e si prevale di frasi in cui, salva la santità di quel libro, salvi pure la innocenza della fanciulla, ambe le quali (egli dice) gl'ispirano altissima venerazione.

E indi a poco, la malattia e la sparizione misteriosa di lei, tradita forse dall'amante, compianta paternamente da Silvio; la nuova conoscenza di lui con la famigliuola di faccia, e le parole gentili direttegli da quei cari fanciulli, a suggerimento della giovane madre, pudicamente curiosa, e seminascosta fra le tende della finestra…; e poi la rassegnata preparazione a morire per man del carnefice; il suo trasferimento alle carceri di San Michele; la lettura in pubblico della condanna sulla fatale Piazzetta, descrizione di una evidenza terribile nella sua insuperabile semplicità; la riunione allora del Pellico col suo Maroncelli, nobile, generoso, gentile, e fratello a lui più che amico; la loro partenza per la Moravia; la stretta crudele nel lasciare la patria; la pietà ovunque incontrata; l'episodio della fanciulla stiriana che saluta con ambe le mani i poveri prigionieri, e se ne parte piangente al braccio di onesto garzone tedesco, il quale forse ama anch'egli per le sue sventure l'Italia; e finalmente, l'arrivo all'infausta ròcca, allo Spielberg!

* * *

E qui, miei Signori, io domando all'illustre Zumbini nostro che per poco almeno vi parli egli per me, e, sia pure in compendio, vi descriva egli con eloquente efficacia la recente sua visita al sinistro castello. Dopo aver detto come questo luogo di pena e di strazio sia stato trasformato in caserma, dove ognuno, col dovuto permesso, può entrare, prosegue: «Ma se non c'è più lo strazio, c'è tuttavia qualche cosa che ancora ne fa vivo il ricordo. Parlo di quelle casematte, in cui fu sepolta tanta gente ancor viva, e alcune delle quali, nei mutamenti avvenuti, furono restaurate a testimoni parlanti di quella tristizia di tempi.

«Le cagioni ed i modi della trasformazione, e la storia del Castello e delle numerose nobilissime vite ivi immolate, si leggono in un volume scritto da un colonnello dell'Austria, il quale disseppellì le tristissime bolge, e dove si legge del pari, fra le altre cose di sinistra curiosità, la nota caratteristica che nel registro della prigione fu scritta in tedesco sul Pellico, recante il numero 302, e che, tradotta, dice precisamente così: «Nativo di Saluzzo, in Sardegna, 32 anni di età, cattolico, celibe, già segretario, piccolo di statura, di gracile costituzione, di buon colorito, capelli bruni, barba bruna, occhi celesti, naso regolare, bocca piccola. Parla l'italiano, il francese, il latino, e non correttamente il tedesco.» Sembrano cenni necrologici; e quel librone antico dello Spielberg, che ne contiene tanti altri simili, sembra un monumento funereo, che da sè solo ricordi un numero indefinito di tombe.

«Ma finalmente mi risolvo a discendere. Confesso che me ne è rimasta nella mente una gran confusione come di sogno breve e terribile. Mi ci condusse un custode armato di una gran fiaccola, come si fa nella visita delle catacombe. Di tanto in tanto quell'uomo si fermava, per accennarmi, colla muta parola del lume, ora le pareti umide e brune a cui era ancora attaccato qualche anello di catena, ora le vòlte pendenti sui nostri capi, e poi, quegli strumenti di tortura, che parevano cose viventi, e superstiti a tutte le morti da essi prodotte. Al rapido guizzar della fiaccola sparivan le tenebre, e tutto diveniva più pauroso e più orrendo. Dalle pareti, dalle vòlte, dal pavimento, da quegli strumenti, come a Dante dalla scheggia del suicida, pareva uscissero insieme parole e sangue… Non dirò altro, non mi rammento d'altro. All'uscir di quel baratro i miei occhi erano quasi ottenebrati, e vedevano il sole come in ecclissi. Avevo con me Le mie Prigioni, già rilette poco avanti; le riapersi, quasi per cercare conforto al martire stesso, che qui aveva durato e vinto tanto dolore… La tomba, in cui poco prima aveva visto pendente il suo ritratto, era quella dove lo gettarono al suo arrivo, e dove stette per qualche tempo; e solo quando i suoi patimenti l'ebber ridotto all'estremo, fu trasportato di sopra.»

Con la guida del libro tedesco cerca allora lo Zumbini dove può essere il nuovo asilo assegnato al Pellico, e ogni altro luogo descritto da lui fedelmente nelle Prigioni, e lo trova; e benchè spesso interrotto dal guardare ora a questo ed ora a quel punto, egli ha compiuta la nuova lettura, e fatta l'ora di lasciare lo Spielberg. Parte, e montato più tardi sul treno di Vienna, ei si volge spesso indietro a guardare, finchè può essergli in vista, il truce Castello.

«A seconda che vi morivano gli ultimi bagliori del sole, e vi cresceano le ombre, mi si facevano (ei dice) più paurose le immagini suscitate dalla sua vista. Guardavo e pensavo: Quanto dolore umano si accolse colà per più secoli! E quel dolore, di quanti altri affanni non fu cagione in ogni parte d'Europa!.. E mentre il gran mostro già s'involava del tutto ai miei occhi, guardavo sempre e pensavo… In nessun altro paese dovette così abbondar quel dolore, come nella patria mia, perchè italiana fu la parte maggiore di quelle vittime illustri. Ma pur dalla patria mia ti giunse, o Castello, la più terribile scossa che tu avessi mai avuta. Fra le infinite dipinture dei tuoi orrori, appartiene all'Italia quella che, tanto più potente quanto più mite, valse sopra tutte a far sì che, aboliti i tuoi flagelli, fossi tu aperto a quelle aure, a quel sole, a quelle armonie del giorno, che sono come la vita della nostra vita, insieme con la libertà!..»

* * *

In questa tomba, pertanto, entrava il povero Silvio. Qui pure, o Signori, mortali tristezze e rare consolazioni: il lurido covile dei primi tempi, e la figura del vecchio Schiller, il burbero carceriere dal cuore paternamente benefico; le sue arti pietose a conforto dei prigionieri politici, che egli chiama suoi figli; la morte di lui, pianta dal Pellico con dolore filiale; i colloquj sul terrapieno con la buona compagna del soprintendente affètta di tisi, e che, sentendosi presso a dover separarsi dalle sue creature bellissime, lo prega, lacrimando, a ricordarsi di loro, ed anche di lei, come essa a lui ricordava una persona diletta. E poi, l'incontro improvviso, drammatico, col conte Oroboni; i loro lunghi e sommessi conversari di forte pietà; la fiera malattia del Pellico, onde anche in Italia si diffonde la voce della sua morte, che a poeta gentile ispira pietosissimo canto; la guarigione; la riunione sua col Maroncelli, consumato dal dolore, distrutto dalla fame, ammorbato dall'aria del carcere tenebroso; la gioia loro suprema, l'armonia dei pensieri, l'accordo nelle speranze, il mutuo recitarsi di versi da ciascheduno composti; l'eroica morte, in carcere, dell'infelice Oroboni; le lacrime del morente nel ricordo del padre suo ottuagenario; le parole estreme di sublime perdono ai nemici ed ai carnefici.

Ma chi, soprattutto, può ricordar senza fremiti le sciagure del povero Maroncelli? l'amputazione della gamba? l'assistenza fraterna di Silvio? la leggendaria fortezza del paziente, il quale, mentre aspetta fra i più acuti dolori l'amputazione, dirige a' suoi cari un tenero canto, quasi testamento di amore, e poi, con pensiero feminilmente gentile, appena il taglio è eseguito, data un'occhiata di compassione alla gamba che portano via, porge al chirurgo, null'altro avendo da offrirgli in pegno di gratitudine, quell'unica rosa, che egli accetta piangendo?

E quando finalmente suona l'ora della liberazione per Silvio e per l'impareggiabile amico, in quelle pagine si fa più che mai manifesta tutta la delicatezza di quegli spiriti, tutta la magnanimità di quei cuori, nel trepido sospiro alle loro famiglie, e nel compianto pei cari amici che quivi lascian sepolti, e forse per sempre!

Il viaggio, l'addio fra i singhiozzi al Maroncelli, il socio diletto de' lunghi dolori, e al quale egli implora benedizione, e porge augurio di amici che lui, Silvio, agguaglino nell'amore e superino nella bontà; la compagnia del buon brigadiere austriaco, che per l'appunto fu tra coloro che dovettero strappar crudelmente il Confalonieri dalle braccia della più tenera fra le spose, la cui vita è, a narrarsi, un poema di dolore, di eroismo, di amore; la divina consolazione nel riabbracciare finalmente i suoi cari; l'incontro provvidenziale nel venerato abate Giordano, che con la madre lo induce a narrare all'Italia i suoi casi; la comparsa delle Mie Prigioni; la universale accoglienza e il costante successo di questo libro, uno dei più semplici, dei più veri, dei più santi libri usciti da penna italiana!

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
150 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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