Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III», sayfa 2
III
Ma l'Italia non era disgregata dalle altre nazioni, e anche sull'Italia, massimamente nella parte più animata e più civile, doveva fortemente ripercuotersi l'influsso della agitazione letteraria, che si faceva sempre più gagliarda in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ed ecco che anche fra noi si comincia a parlare di romanticismo vero e proprio. I due suoi araldi più prossimi furono Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte. Ugo Foscolo che nell'Jacopo Ortis deriva dalla invenzione di Volfango Goethe una così gagliarda e poetica imitazione, elevandola a creazione vera, là dove fonde la tragica passione d'amore col sentimento doloroso della decadenza d'Italia: Ippolito Pindemonte, che col suo estro mite e gentile comincia a esumare a uno a uno tutti i temi, che diventeranno poi argomento favorito della poesia romantica qualche anno dopo. Egli canta i lari domestici, i viaggi attraverso l'Europa, canta le dorate selve, canta la Malinconia, Ninfa gentile – singolare accoppiamento dove è ancora un baleno della reminiscenza classica, e dove è già l'alito della poesia nuova, che viene dai laghisti inglesi, che viene dalla scuola dei paesisti di Zurigo, che viene dal naturalismo germanico e dalle pagine di Rousseau e di Bernardino di Saint-Pierre. Anche nel buon Ippolito noi sentiamo già gli aliti precursori del nuovo spirito letterario, i primi accenni della nuova intonazione poetica che poi prenderà una così grande accentuazione nella letteratura italiana. Ed è quello stesso Pindemonte, o Signore, che pur rimanendo compreso di grande ammirazione davanti all'evocazione classica di cui tanto abbonda il Foscolo nei suoi Sepolcri, non teme di muovergli un discreto rimprovero, – Ma perchè hai tu voluto pescare nella remotissima antichità mitologica ciò che potresti invece trovare in tempi più vicini a noi, nella vita che viviamo noi, nei dolori di cui soffriamo, nelle speranze di cui l'anima nostra si riempie? Antica sia l'arte onde vibri lo strale, ma non sia antico l'oggetto a cui mira! Al suo poeta, non a quello di Cassandra, Ilio ed Elettra dell'Alpe e del mare, farà plauso l'Italia.
Ad affrettare in Italia il movimento romantico concorse notevolmente la venuta fra noi di alcuni illustri antesignani della scuola: come lo Schlegel, lo Châteaubriand, il Sismondi, Madama di Staël (che molto bene si affiatò con Vincenzo Monti), Giorgio Byron ed altri. Così arriviamo ad avere anche fra noi una scuola che, a viso aperto, si dice romantica; che ha dei seguaci, che ha degli avversari, che entra insomma in campo con tutti gli armamenti di una gran battaglia; e questa battaglia essa la vuol dare, e la vuol vincere, proprio là dove batte più fervido il cuore alla nazione italiana, a Milano, verso il tramonto del primo regno italico. Uno di quelli che parlano più alto, più potente in nome del romanticismo è Giovanni Berchet con la lettera famosa intitolata Lettera semiseria di Crisostomo, nella quale egli accompagna tradotte due ballate di un celebre poeta tedesco. Il cacciatore feroce e l'Eleonora. Esse sono due fantasticherie nordiche, raffiguranti un mondo, che non sarà mai il nostro e che non potrà mai intonarsi bene con la letizia del cielo italiano. A ogni modo il Berchet – infelice nella scelta degli esempi – si vale di queste due forti ballate tedesche per bandire alle turbe italiane il verbo della letteratura nuova. In mezzo a molte parole e idee non sempre esatte e raccomandazioni non del tutto opportune, la Lettera semiseria mette innanzi questa formula semplicissima: La Poesia deve essere l'espressione diretta della vita. Non vi paia poco, o Signore! Per lo addietro un artista, un poeta quando voleva trattare un soggetto, era tratto anzitutto a pensare quali grandi poeti, quali grandi artisti, avessero già trattato cotesto soggetto, e per una specie di orientazione inevitabile si metteva, più o meno, ad imitare. Adesso invece veniva innanzi il buon Crisostomo a dire: «La Poesia è l'espressione diretta della vita.»
Giovanni Berchet era tutt'altro che un dispregiatore della grande e sacra antichità. – Ammiriamo gli antichi, diceva, ma ricordiamoci che il poeta, l'artista deve studiare e sentire la vita, deve mettersi in faccia alla natura, e di lì assumere la viva e costante ispirazione. La Poesia deve essere viva come l'oggetto che esprime: libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme che ella assume non costituiscono l'essenza di lei, – notate anche questo – ma contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle intenzioni. – Con questa sentenza del poeta è gettato un grande scompiglio in tutta l'antica gerarchia artistica e letteraria; è insomma sostituito ciò che quella buona lana di Pietro Aretino tre secoli prima aveva chiamato il «furor proprio» d'ogni artista e d'ogni poeta, ai canoni dei trattatisti e ai precetti della rettorica invalsa nella scuola.
E l'impulso del Berchet non rimase senza grandi frutti. Alla sua iniziativa personale seguì un'iniziativa più collettiva, più poderosa.
Come nacque Il Conciliatore? Il Conciliatore fu – il vocabolo stesso lo esprime – un tentativo assai naturale e assai lodevole di trovare il termine medio col quale potessero comporsi ragionevolmente i vari contendenti che già venivano ai ferri corti. La battaglia fra romantici e classici, specialmente a Milano e in Lombardia, cominciava a infervorarsi, a prendere un aspetto di accanimento e minacciava di oltrepassare la misura. Dal canto suo, il governo austriaco cominciava ad adombrarsi di tutte queste novità. Troppa politica indovinava dietro quelle questioni letterarie perchè potesse considerarle indifferente e tranquillo. Per quella legge di consenso a cui io vi accennava nel principio del mio discorso, l'astuta Austria di Metternich capì che non vi sono rivoluzioni isolate, e che una volta dato il risveglio allo spirito di un popolo, tutte le energie di rivendicazione sono facilmente tirate in campo. Nessuna meraviglia dunque che l'Austria guardasse con gran diffidenza al moto romantico; nessuna meraviglia che favoreggiasse la Biblioteca italiana, giornale che ebbe molta importanza, perchè vi scrivevano Monti, Giordani, l'Acerbi direttore e altri scrittori di polso, tutto inteso a mantenere sacri e inalterati i canoni dell'arte antica.
Frattanto in casa del buon Luigi Porro Lambertenghi si accoglieva uno stuolo di spiriti giovanili, nobili, volenterosi, che non potevano non guardare con simpatia e con fede verso l'avvenire. Accoglievano tutti le teorie romantiche, se non come un sistema di verità, almeno come qualche cosa di vivo, di giovanile e promettente per la cultura italiana. Romantici adunque, ma temperati e alieni dal proposito di spingere la lotta agli ultimi estremi. Quindi intitolarono il loro giornale Il Conciliatore e vi sovrapposero un motto latino, che voleva dire: «Fra i discordi pareri, quando i disputanti abbiano senno e onestà di volere, balza sempre fuori qualche utile verità.» Tanto era infatti lo spirito di conciliazione che animava questi nuovi romantici, che per un momento pensarono di offrire la direzione del Conciliatore nientemeno che a Vincenzo Monti, ossia all'autore del Sermone, al rappresentante più glorioso e più rigido della tradizione classica, secondo il pensiero dei più. Volevano essere tolleranti fino all'assurdo!
Il Monti – dopo avere un po' tentennato – rifiutò l'ufficio, e rimase fedele alla Biblioteca italiana, che lo pagava molto bene. Allora i giovani scelsero per loro capo un giovane, Silvio Pellico, che si era già reso celebre per dei felici esperimenti di tragedia, in cui alitava uno spirito di grande affettuosità e di gentilezza cavalleresca, che ristorava e riposava gli animi dopo tanta fierezza alfieriana e dopo la magniloquenza cupa dell'Aristodemo. Col direttore giovane, il giornale seguitò le sue pubblicazioni quasi un anno. Ma ecco improvvisamente intervenire l'Austria! Il povero Silvio Pellico è fatto prigioniero, mandato a Venezia, di là allo Spielberg. Segue tutta la triste odissea delle carcerazioni, dalla quale doveva uscire il libretto Le mie prigioni che fu uno dei documenti di sincerità letteraria più ammirevole. Dinanzi a quel libretto, l'espertissimo e classicissimo Pietro Giordani diceva che non si sentiva capace di scriverne. Vero documento sintomatico di quello che voleva essere l'arte nell'avvenire, di quello che dovrebbe essere l'arte di tutti i tempi, cioè la rivelazione dell'animo illuminata da un ideale alto e gentile.
Di tutto questo gruppo, alcuni ebbero sorte simile a quella del Pellico, come il Romagnosi e il Gioia; altri del Conciliatore scomparvero coll'esilio volontario come Giovita Scalvini e il Berchet: altri si ritrassero a vita prudente. In sostanza, dispersione completa; e guardando alle sole apparenze, ormai si sarebbe potuto dire che il romanticismo in Italia era finito. E sarebbe finito poco gloriosamente, in senso letterario.
Ma se il romanticismo non aveva ancora avuto modo di illustrarsi in Italia con grandi opere, aveva però diffuso una teoria nuova e più che una teoria una specie di nuovo istinto, il quale doveva esercitare una grande influenza sopra tutte le produzioni letterarie ed artistiche. Basta volgere uno sguardo ai libri esciti in questo tempo, per convincersi che è passato qualche cosa nell'animo degli scrittori. Una vera e propria novità, la quale attende una potente affermazione: una vera e propria novità, ricca di un grande avvenire. La natura è considerata con un aspetto nuovo, si costituiscono come tanti piccoli centri di immagini, di traslati, di movimenti ritmici. Il sentimento della natura esteriore è mutato; la visione della vita è diversa. Prose e poesie vi danno l'idea di una tastiera che è percorsa da un'altra mano, da una mano più leggiera, la quale cerca di preferenza i toni minori, patetici, insinuanti, toccanti. La nuova arte vuol discendere più a fondo nel cuore umano: e quando contempla la natura e la descrive, vuol istituire una specie di nuova e più intima simpatia fra il cuore umano e la natura. Nel fondo a questo cuore umano essa trova una profonda malinconia.
Il secolo passato era stato un secolo di grandi speranze e promesse; quindi naturalmente era stato il secolo dell'ottimismo. Gli uomini avevano sognato, avevano sorriso all'avvenire. Si era immaginato che mutando le leggi, modificando e migliorando gli istituti pubblici, questo dramma della vita, di triste che era, sarebbe diventato giocondo, trionfale, perfetto. Invece si erano modificate le leggi, erano avvenuti grandi movimenti politici, erano caduti dei troni, delle repubbliche si erano innalzate: ma da tutto questo la nostra civiltà europea occidentale aveva ricavato un'esperienza tutt'altro che lieta. I vecchi mali, non che guariti, parevano moltiplicati e cresciuti! S'avanza il Pessimismo, che avrà poi in Arturo Schopenhauer il suo metafisico. Intanto si estrinseca, si personifica, ha i suoi tipi viventi, che si chiamano il giovane Werter, Jacopo Ortis, Oberman, Renato e via discorrendo. E tutta questa malinconia che il romanticismo cerca nel cuore umano, effonde dal cuore umano, egli la rispecchia volentieri nella natura esteriore. Ed è curioso come a certi motivi prevalenti di paesaggio classico, se ne sostituiscano altri; in ogni cosa vedete il cambiamento. Se si tratta del mondo vegetale, mentre i vecchi poeti vi parlavano così volentieri del pioppo, dell'olmo e del platano; invece i poeti nuovi più volentieri vi parleranno di cipressi e di salici piangenti. Gli arcadi e i neoclassici pare non abbian lingua che per descrivervi le rosee tinte dell'aurora; i romantici invece sono innamorati della sera e del tramonto. Il buon Bertòla, vissuto nell'ultimo del secolo passato, commentando con un lungo commento gli idilli del Gessner, domandava: «Ma perchè gli scrittori italiani parlano sempre dell'aurora e mai della sera? È tanto bella anche la sera, ha delle tinte così vaghe, così insinuanti, infonde nell'animo uno spirito così gentile!» Voi sapete se la meraviglia del Bertòla doveva essere appagata, e se della sera doveva esser parlato anche troppo! Così pure i poeti neo-classici parlan molto del sole e poco della luna: laddove i romantici lascian volentieri da parte il sole, e amano di darsi alla pensosa contemplazione della luna – «luna, romita, aereo – tranquillo astro d'argento». Sono tutti particolari forse singolarmente di non grande valore e sui quali non posso lungamente distendermi; ma essi provano nel loro insieme che in tutti gli strati della letteratura e dell'arte italiana cominciavano a esser compenetrati e permeati da questo spirito nuovo, che corrispondeva alle nuove condizioni psicologiche della civiltà cristiana occidentale.
Quello però che ancora mancava era una poderosa azione artistica individuale: mancava un grande artista. Se ci fossimo fermati al Conciliatore e alla dispersione tragica dei suoi scrittori, il romanticismo in Italia sarebbe stato più che altro un prologo di dramma senza il dramma, sarebbe stato un peristilio senza la casa. Per fortuna l'Italia ebbe un grande artista in Alessandro Manzoni. Il quale diventò il capo naturale del romanticismo italiano, ma senza averlo voluto, somigliante in questo – ed è somiglianza di grande significato – al suo grande confratello Volfango Goethe. Voi sapete che mentre i romantici tedeschi si affollavano intorno al Goethe e lo pregavano di mettersi alla loro testa, l'olimpico uomo molto volentieri li disdegnava, chiamandoli una scuola morbosa.
Or bene: quella funzione che questi compì, quasi non volendo, verso i romantici tedeschi, la compì il nostro Alessandro Manzoni, anche egli a malincuore, verso i romantici italiani. Ed esso sulle prime non voleva saperne; e non lo vedete mai comparire fra i compilatori del Conciliatore. Egli si tiene volentieri in disparte; ma l'animo suo è tratto alle file dei giovani combattenti, verso il movimento nuovo; ond'è che, quasi senza accorgersene, diventa egli il capo vero e visibile del romanticismo in Italia. Paga un tributo di gran rispetto al classicismo personificato in Vincenzo Monti e lo saluta con quattro versi melodiosi, quasi per sdebitarsi con la sua grande ombra; e poi sereno e tranquillo, come comportava l'indole sua, si mette a capo dei romantici italiani.
Questo fatto decise della fortuna storica del romanticismo in Italia; perchè (mi piace di ripeterlo) se noi non avessimo avuto che dei Berchet e dei Pellico, dei Romagnosi, dei Borsieri, dei Visconti e dei Giovanni di Brême, e tutti quei romanzieri e poeti minori, con le loro perpetue romanze alla luna e ai salici piangenti, il romanticismo italiano sarebbe stato cosa effimera e la storia non ne parlerebbe, se non come d'un episodio inconcludente o almeno di poca importanza nell'evoluzione dell'arte e della letteratura nazionale. Il Manzoni mette questo grande suggello nel romanticismo italiano, perchè fa del romanticismo qualche cosa che sostanzialmente diversifica da tutti gli altri moti letterari contemporanei. Quando entra in campo il gran lombardo cogl'Inni, colle Tragedie, con la Morale Cattolica e soprattutto col Romanzo, il Manzoni, mentre consente nel concetto fondamentale del movimento europeo, sa creare in esso qualche cosa di distinto e di staccato, qualche cosa di propriamente nostro e di omogeneo al genio italico. Così vien fuori la grande serenità naturalistica dei Promessi Sposi, e ne esce il ritmo calmo e solenne degl'Inni, ne esce quello zampillo, sia pure scorretto in qualche parte, ma luminoso e meraviglioso di lirica che è il Cinque Maggio.
Ne volete una prova? Quando entra in campo il Manzoni, il romanticismo italiano, da prima titubante e poco considerato, diventa presto una scuola conquistatrice e vittoriosa, e a poco a poco tutte le resistenze cedono, tutte le fronti più o meno piegano. Ne avete un esempio nei vostri due più grandi scrittori toscani della prima metà di questo secolo, Guerrazzi e Niccolini, i quali per indole, per tradizione, per ideali politici e religiosi di tanto si disformavano dall'andamento e dagli intendimenti manzoniani. Eppure, anch'essi sono attratti a poco a poco in questa grande orbita di innovamento. E Giambattista Niccolini, che muove dalle ravvivate forme all'antico colla Polissena e sulle prime guarda con diffidenza e talvolta con fastidio ingiurioso allo influsso lombardo, finisce coll'Arnaldo da Brescia, ossia, cioè, coll'allargare il suo modulo drammatico al di là di quegli stessi confini che lo stesso Manzoni aveva determinati. Il Manzoni non domandava tanto, ma l'impulso era dato: il grido del risveglio risonava ovunque; tutti erano trascinati in questa viva corrente che andava verso l'avvenire.
Così, o Signore, – non permettendomi il tempo di estendermi più oltre – a me basta di aver affermato un concetto, che in altra occasione potrebbe venire l'opportunità di svolgere: voglio dire che il romanticismo italiano si differenziò da tutti gli altri romanticismi europei, che si manifestò conforme alla nostra indole e tradizione latina per opera di Alessandro Manzoni. Fu principalmente suo merito se il romanticismo, entrato nella grande orbita della latinità, vi si svolge in modo armonico ai caratteri essenziali dello spirito del popolo italiano. Non dico in modo perfetto, perchè difetti ce ne sono dappertutto e perchè il romanticismo, se è movimento legittimo quando lo consideriamo come una generica aspirazione degli animi, diventa una cosa imperfettissima quando vuol essere una sintesi, un sistema di legislazione estetica che rinserri, comprenda e disciplini tutti gli elementi, tutte le forze, tutti i confini di questo moto.
Mercè massimamente l'opera del Manzoni, noi avemmo una fase del gran movimento letterario mondiale da potere, non solo senza vergogna, ma con legittimo orgoglio, contrapporre alle fasi che ha assunto il romanticismo in Germania, in Francia e in Inghilterra.
ALESSANDRO MANZONI
CONFERENZA
DI
ROMUALDO BONFADINI
È quesito sempre discusso, e che forse non sarà mai risoluto, se giovi più l'ambiente a formare un uomo o l'uomo a disciplinare un ambiente.
Le due cose sono fra loro congiunte da vincoli così stretti e così numerosi, che il discernere quali siano necessari e quali superflui sembra soverchiare l'acutezza dell'ingegno umano, per quanto esso si senta forzato dalla sua dignità a non abbandonare l'esame dell'argomento.
Uno studio di questa indole, nel periodo storico a cui quest'anno avete rivolta la vostra attenzione, potrebb'essere utilmente condotto principalmente intorno a due uomini, Gino Capponi ed Alessandro Manzoni.
Dal 1815 al 1831 si cercherebbero invano in Italia due personalità più complete, più progressive, più dominanti nella regione del pensiero e dell'intelletto.
La società italiana, fatta paurosa dagli sgomenti e dai disastri del ventennio antecedente, andava cercando animosamente delle influenze a cui ubbidire, dei programmi in cui poter riposarsi.
Queste influenze non le voleva dai governi, screditati tutti dall'eccesso degli egoismi e dalle persecuzioni; questi programmi non li accettava da consorterie politiche, venute in uggia dopo le tremende delusioni dei fatti. Era bensì disposta a subire la disciplina di uomini indipendenti e intelligenti, che non avessero goccia di sangue sulle loro mani o rimorso d'inganni sulle loro coscienze. Voleva direttori che avessero nobiltà di studj, perchè troppo lungo era stato il dominio degli uomini volgari; che avessero nobiltà di prosapia, perchè le corruzioni giacobine avevano reso impopolare la democrazia.
A questo complesso di esigenze dello spirito pubblico rispondevano perfettamente due uomini come Gino Capponi ed Alessandro Manzoni; sicchè non è meraviglia se la loro influenza personale grandeggiò a misura che rimpiccioliva il credito degli organismi di Stato, e se dall'ambiente in cui erano cresciuti, la loro disciplina intellettuale e morale s'allargò ben presto al vasto ambiente nazionale, che vide con gioia rivivere in essi due diverse e potenti fisonomie dell'antico e schietto genio italiano.
Usciti entrambi giovanissimi dall'infocata atmosfera in cui si svolse la Rivoluzione francese; avversi entrambi, per dignità di spirito equilibrato, così agli eccessi della demagogia come alle reazioni del diritto divino; amici del Foscolo e del Confalonieri; virtuosi per indole e studiosi per abitudine; non temprati, nè l'uno ne l'altro, a vigore di lotte personali, ma avvezzi, e l'uno e l'altro, ad opporre energie tenacissime di bene a qualunque tentativo, a qualunque sopraffazione di male, vi sono tra il Capponi e il Manzoni altrettante analogie di carattere e di azione morale, quante vi sono differenze nell'indole dell'ingegno e nei casi della vita.
Del primo vi parlerà, presto o poi, qualcuno che abbia avuto col gran cieco toscano quella domestichezza che a me non fu consentita. Permettete ch'io cerchi oggi di tracciarvi qualche contorno della vita e delle attitudini del gran vecchio lombardo.
S'era ai primi giorni dopo la battaglia di Marengo, e ad una brillante serata nel maggior teatro di Milano assisteva, nell'interezza del suo prestigio, il Primo Console trionfatore. Gli odj di parte duravano ancora fierissimi in Lombardia; e il generale Bonaparte, dinanzi a cui piegavano tutti gli Stati, ma non tutti gli uomini, nè tutte le donne, lanciava sguardi irritati verso un palco di casa Somaglia, dov'era apparsa una sua costante avversaria politica, la moglie del conte Cicognara, repubblicano intransigente del triennio cisalpino. In quel palco, raggomitolato dietro i merletti della contessa Cicognara, stava un giovinetto quindicenne, a cui quegli sguardi non uscirono più dalla memoria e che li chiamò più tardi in una lirica imperitura «i rai fulminei».
Fu quella forse la prima grande impressione politica di Alessandro Manzoni? Certo è, che da quella corrente di passione, sprigionatasi fra due palchi in una serata di canto, dovette essere singolarmente percossa l'indole già pensosa del futuro scrittore del Cinque Maggio. Il genio della guerra, maturo nell'azione, si rivelava con uno scatto umano al genio della pace in elaborazione di pensiero. Chi può dire quali mistiche influenze, quale virtù diuturna di meditazione abbia esercitato un genio sull'altro? Non erano scorsi altri quindici anni, e il genio della guerra, dopo avere stancato il mondo, spariva dall'ambiente politico, inchiodato, come Prometeo, alle asperità d'uno scoglio; mentre il genio della pace stampava già robuste le sue orme in quel regno della letteratura e della morale, in cui sarebbe stato monarca, e da cui nessuno lo avrebbe cacciato più.
Sono contrasti, di cui il mondo è pieno, e a cui la folla degli scrittori non usa, di solito, l'onore dell'attenzione. Pure, le verità nuove, così nell'ordine morale come nell'ordine fisico, escono piuttosto da fenomeni di contrasto che da fenomeni di armonia. Senza gli urti e senza le scosse, il pensiero si lascierebbe intorpidire, la scienza non avrebbe stimolo a scoprire nuove forze per vincere le difficoltà. Non è quando l'aria è cheta e l'onda morbida che il navigante è tratto ad acuire tutti i suoi sforzi per la lotta tra l'uomo e l'Oceano. E soltanto da una lunga esperienza di contrasti e di mutazioni può l'uomo grande trarre intera la coscienza del suo valore ed apparire dinanzi ai contemporanei ed ai posteri nelle vere proporzioni della sua statura intellettuale o politica.
Quando nacque il Manzoni, era morta da pochi anni Maria Teresa. Ed oggi vivono tuttora dozzine d'individui che del Manzoni sono stati negli ultimi anni corrispondenti od amici. Vuol dire dunque che durante questa vita d'uomo si è mutato il mondo; la sola frase adatta ad esprimere le differenze fra l'epoca di Maria Teresa e la nostra. Il Manzoni è nato quando lo spirito di libertà tentava i suoi primi sforzi sul continente europeo, ed è morto allorchè questi sforzi avevano già ottenuto forse il maggiore dei trionfi, l'abolizione del potere temporale. Ha visto la Rivoluzione francese e l'Unità italiana; nove governi in Lombardia e dodici in Francia; ha visto sorgere, brillare e sparire due dinastie napoleoniche; ha visto spegnersi la Polonia, crearsi la Grecia, il Belgio e la Germania; ha visto la civiltà piccina e la scienza gigante; ha acceso il fuoco da fanciullo coll'esca e colla pietra focaja, – vecchio, ha potuto apprezzare i portenti della meccanica, della chimica, dell'elettricità.
E da tutto questo frastuono di casi, da tutta questa vertigine di mutamenti, il Manzoni non è rimasto nè spaurito, nè soffocato; anzi le sue qualità hanno attinto ad ognuna di quelle evoluzioni del pensiero e del fatto agilità e robustezza maggiori; il suo spirito, temprato ad ogni ideale, s'è innalzato man mano che il mondo s'innalzava intorno a lui. Cosicchè oggi che la storia è cominciata per quel secolo formidabile, oggi che la generazione uscita da quelle terribili vicende oggi la figura di Alessandro Manzoni ci appare alta come il suo tempo; e dobbiamo riconoscere che se alcune glorie furono più clamorose della sua, nessuna fu più feconda e più pura.
Si volge all'onda perigliosa, e guata,
Questo giudizio parrà forse strano, avventato a quelli che sono avvezzi a misurare la gloria dal numero o dall'entità degli sconvolgimenti che può cagionare. Certo il Manzoni non è stato mai uno di quelli che soglionsi chiamare i grandi del mondo; non ha regnato, non ha vinto battaglie, non ha ucciso nemici, non ha conquistato città, non è stato neanche… ministro della pubblica istruzione. S'è limitato a scrivere pochi libri e pochi versi. Ma quanta rivoluzione intellettuale in quei versi e in quei libri? quanto soffio di cose nuove, che si sono imposte al suo paese, senz'armi e senza conquiste!
Perocchè, se è facile l'accorgersi di quei mutamenti che una violenza crea ed un'altra distrugge, altrettanto è difficile avvertire e apprezzare di primo acchito quelli che, uscendo dal crogiuolo dell'ingegno e delle idee, s'impadroniscono degli animi nostri e vi svegliano attitudini e sentimenti che poi l'indole assorbe e tenacemente mantiene. I primi passano sopra di noi e difficilmente lasciano traccia, fuorchè di rovine; i secondi si stampano indelebili nel nostro organismo e possono governare un'epoca intera, modificare una serie di generazioni.
È questa gloria che spetta intera al Manzoni; poichè la sua influenza, l'influenza della sua dottrina e del suo metodo, ha lasciato in Italia profonde orme in tre discipline, che sono fondamentali per ogni nazione: la letteratura, la politica, i costumi.
Permettetemi di svolgere brevemente questa triplice affermazione.
* * *
Quando il Manzoni cominciò a scrivere, la letteratura italiana cercava confusamente, ma non trovava un nuovo indirizzo. Potenti ingegni vi si erano consacrati, ma nessuno aveva osato uscire dal solco in cui l'avevano posta i maestri di molti secoli prima; nessuno aveva osato rompere certe barriere convenzionali, oltre cui pareva che il genio e l'arte fossero impotenti a slanciarsi.
Gli affetti veri, le passioni moderne, le società quali sono, erano escluse dagli onori dell'interpretazione letteraria. La poesia si moveva in un ambiente tutto classico, tutto artificiale, dove soltanto i Greci e i Romani parevano nati per essere cittadini o sapienti od eroi. L'ultra cattolico Metastasio aveva foggiato i suoi cento melodrammi sull'unico tipo delle Semiramidi e delle Didoni. Il Monti saccheggiava l'Olimpo per trovare ogni giorno una deità pagana da bruciare sull'ara del suo Napoleone. Il Foscolo non usciva di Grecia, sia traducendo Omero, sia scrivendo l'Ajace, sia celebrando la chioma di Berenice, sia sostenendo, a proposito di sepolcri moderni, una teoria retriva, dissimulata sotto una splendida mitologia. Gli stessi due poeti che avevano tentato novità maggiori, l'Alfieri e il Parini, avevano troppo sacrificato al pregiudizio antico. Il primo s'era bensì accostato, in alcuna delle sue tragedie, ad argomenti moderni e a passioni più vere; ma s'era fermato nelle reggie e nei palazzi, fuori di cui pareva che non potesse esistere elemento drammatico. Il secondo aveva divinato il concetto civile della poesia educatrice; ma se l'idea era moderna, il verso era rimasto antico; e non sapeva parlare della cipria o della seggiola o del letto o del cibo, senza invocare Giove, Pallade, Marte, Apollo o Citerea.
Tutto ciò staccava i poeti dal popolo; che li udiva e non li comprendeva, li ammirava e non li amava. Il popolo offriva, nelle sue ingenue sensazioni, una folla di argomenti poetici che nessuno trattava. I suoi bisogni, le sue sofferenze, le sue aspirazioni non trovavano nessuna eco nella letteratura nazionale, impastojata fra la cotidiana ammirazione dei principi e dei guerrieri. E il popolo a sua volta non traeva nessuna moralità e nessuna virtù nuova da un linguaggio poetico, irto di miti e di simboli, ma di cui nessuno rispondeva neanche da lungi ai miti ed ai simboli suoi.
Questo contrasto fra la civiltà e la poesia, questo bisogno di raccostare più logicamente la seconda alla prima, preoccupava fin dai primi anni del secolo i più perspicaci intelletti.
Già quello spirito gentile di Ippolito Pindemonte aveva risposto ai Sepolcri di Ugo Foscolo:
Perchè tra l'ombre della vecchia etade
Stendi, lunge da noi, voli sì lunghi?
E, concentrando in due versi, con oraziana efficacia, i precetti della nuova scuola che si andava disegnando, gli consigliava:
antica l'arte
Onde vibri il tuo stral, ma non antico
Sia l'oggetto a cui miri.
Caduto il governo napoleonico, la lotta fra i due manipoli letterari cominciò a farsi più viva; ma si limitava a giornali e a giornalisti, e sotto i nomi di classici e di romantici minacciava rifare una di quelle dispute infeconde e iraconde, di cui era piena la tradizione letteraria italiana dei secoli antecedenti. I classici avevano per sè tutti i grandi nomi della poesia, e l'autorità viva e sovrana di Vincenzo Monti. I romantici si appoggiavano piuttosto sulla letteratura tedesca, che per mezzo di Bürger, di Schiller, di Goethe aveva messo in quei giorni
il potente anelito
Della seconda vita.
Questa lotta avrebbe potuto continuare per un tempo indefinito, se la scuola romantica non avesse trovato modo di provare col fatto la superiorità intellettuale a cui pretendeva. Gli scritti del Manzoni, proprio tra il 1815 e il 1830, furono gli eserciti vincitori della decisiva battaglia.